N. 71 - Novembre 2013
(CII)
è DIFFICILE ESSERE UN DIO
IL FESTIVAL Internazionale DEL FILM DI ROMA CELEBRA Aleksej Jurevič German
di Leila Tavi
Il
Festival
Internazionale
del
Film
di
Roma
-
edizione
2013
- ha
conferito
il
suo
primo
premio
postumo,
quello
alla
Carriera,
consegnato
alla
moglie
del
regista
Aleksej
Jurevič
German,
scomparso
lo
scorso
inverno.
Nel
corso
della
sua
esistenza,
German
ha
avuto
il
merito
di
esplorare,
con
sagacia
e
grande
sensibilità,
l’animo
umano
attraverso
un
originale
punto
di
vista,
non
allineato
né
al
realismo
socialista
ai
tempi
dell’Unione
Sovietica,
né
al
nuovo
cinema
dal
semplicistico
linguaggio
televisivo
tanto
in
voga
in
epoca
putiniana.
Il
suo
ultimo
capolavoro,
Trudno
byt’
bogom
(Hard
to
be a
god),
ispirato
all’omonimo
testo
di
Boris
e
Arkadij
Strugazkij,
ha
avuto
una
lunga
lavorazione,
iniziata
nel
2000
e
terminata
nel
2013;
dopo
l’improvvisa
morte
del
cineasta
nel
febbraio
scorso,
il
suo
progetto
è
stato
portato
avanti
dalla
moglie
Svetlana
Karmalita,
che
ha
collaborato
alla
sceneggiatura
del
film,
e
dal
figlio
Aleksej
Alekseivič,
insignito
del
Leone
d’argento
nel
2008
per
Bumažnij
soldat
(Soldato
di
carta).
Proprio
come
il
pittore
Aleksandr
Andreevič
Ivanov,
che
lavorò
alla
sua
tela
Явление
Христа
народу
(L’apparizione
del
Messia
al
popolo)
dal
1836
al
1857,
German
padre
ha
portato
lentamente
alla
luce
il
capolavoro
della
sua
vita,
un’enorme
tela
monumentale,
dove
il
colore
è
fatto
di
un’infinità
di
sfumature
grigie
tra
il
nero
e il
bianco.
Lo
spettatore
osserva
l’immagine
sullo
schermo
quasi
con
una
visione
monoculare,
che
gli
fa
percepire
la
profondità
ma
non
stimare
la
distanza.
Una
distanza
cosmica,
infatti,
divide
lo
spettatore
dal
maestro
russo
che,
con
il
suo
reportage
dal
futuro,
ha
messo
a
nudo
con
la
forza
della
poesia
visiva
le
debolezze
della
razza
umana.
In
una
rappresentazione
atemporale
del
proprio
destino
l’uomo,
debole
e
imperfetto,
si
confronta
con
la
trascendente
debolezza
e
imperfezione
del
divino,
che
forse
“è
crepato
con
il
moccio
al
naso”.
Il
pianeta
Arkanar,
dove
alcuni
scienziati
sono
stati
inviati
per
supportare
la
popolazione
locale
che
sta
vivendo
una
fase
della
sua
storia
analoga
al
Medioevo
terrestre,
è un
pantagruelico
inferno
fatto
di
fango
e
paludi,
dove
il
vento
puzza,
i
topi
leccano
il
lardo
e le
api
uccidono
la
regina
madre
e
Pech,
la
bestia
dalla
coda
di
ferro,
ha
sete
di
sangue.
Qualsiasi
forma
d’arte
è
bandita,
così
quello
di
Arkanar
è un
popolo
sfortunato,
perché
non
conosce
nessuna
forma
di
mimesi
della
natura,
ignora
perciò
la
bellezza.
Per
dare
ai
cittadini
l’illusione
che
il
cielo
sia
più
vicino,
sono
stati
sistemati
degli
specchi
lungo
le
strade,
dove
gli
scontri
tra
i
Rossi,
la
classe
dominante
dei
principi,
i
Dorati,
i
Grigi
e i
Neri
sono
all’ordine
del
giorno.
Su
Arkanar
i
“letterati”
non
sono
i
dotti,
ma
semplicemente
coloro
i
quali
sanno
leggere
e
scrivere.
Una
specie
di
disordinata
“santa”
inquisizione
messa
in
scena
dai
Grigi
uccide
chiunque
declami
versi
o è
colto
nell’atto
di
scrivere;
uno
dei
perseguitati
è il
filosofo
autore
del
poema
Escrementi
dell’Uccello
Siu,
testo
bruciato
dai
Grigi
dopo
aver
annegato
senza
pietà
il
filosofo
in
una
latrina.
Altri
saggi
sono
impiccati
e
poi
cosparsi
di
un
melmoso
liquido
bollente,
a
cui
si
attaccano
poi
piume
di
anatra.
I
pogrom
contro
i
letterati
hanno
come
scopo
finale
di
debellare
definitivamente
la
poesia
dal
pianeta,
perché
i
versi
puzzano
come
la
carne
che
si
avvicina
alla
morte.
Arata
il
Gobbo,
capo
dei
contadi
ribelli,
una
sorta
di
machiavellico
Pugačëv
che
ha
studiato
all’Università
di
Kiun,
assedia
il
castello
di
Don
Rumata
d’Estore,
il
protagonista
della
storia,
il
temerario
nobile
cavaliere
che
uccide
solo
i
nemici
durante
il
sonno,
ma
si
limita
a
strappare
loro
le
orecchie
in
battaglia.
Dietro
alla
ribellione
dei
contadini
guidati
da
Arata
trama
l’Orbo,
il
capo
dell’inquisizione,
che
ha
identificato
in
Rumata
l’illuminato,
colui
che
può
liberare
il
popolo
di
Arkanar
dalle
tenebre
dell’ignoranza.
Ma
Rumata
non
intende
sovvertire
l’ordine
che
la
divinità
ha
imposto
ai
cittadini
di
Arata,
non
vuole
liberare
i
suoi
schiavi
dal
giogo
della
sudditanza
a
vita,
perché
a
cosa
serve
una
terra
senza
schiavi?
Il
nobile
è
alla
ricerca
di
uno
degli
ultimi
saggi
di
Arkanar,
il
dottor
Budach,
per
preservare
quello
che
rimane
della
poesia.
Rumata
è
considerato
un
eroe,
il
figlio
di
un
dio
pagano,
e
perciò
è
rispettato
da
tutti;
sconfiggerlo
significa
sovvertire
l’ordine
prestabilito
e
portare
Arkanar
nell’anarchia
totale.
Il
castellano
intrattiene
diplomatici
rapporti
con
le
altre
due
figure
di
riferimento
per
i
cittadini
di
Arkanar:
uno
è il
barone
Pampa,
un
grottesco
e
obeso
rappresentante
della
nobiltà
locale,
al
quale
Don
Rumata
è
affezionato;
l’altro
è
Don
Reba,
capo
della
polizia
fascista,
che
vive
nella
Torre
Allegra
tra
servi
e
prostitute
e
spesso
in
contrasto
con
Don
Rumata.
Durante
lo
svolgimento
del
film
il
protagonista
comincia
a
credere
egli
stesso
di
essere
un
dio
e a
immedesimarsi
nei
panni
della
divinità;
Rumata
vuole
comprendere
a
ogni
costo
come
sia
difficile
essere
un
giudice
imparziale,
che
non
si
palesa
mai
e
quindi
non
emette
mai
il
suo
giudizio.
Come
fa
l’essere
umano
a
sapere
che
ha
sbagliato,
se
non
è
l’entità
superiore
a
giudicarlo?
Il
nobile
castellano
sente
su
di
sé
la
frustante
sensazione
d’impotenza
di
una
divinità
che
ha
scelto
di
non
intervenire
nel
destino
delle
sue
creature
e
costretta,
pertanto,
a
essere
spettatrice
inerme
di
ribellioni,
scontri
e
assassinii.
Il
dio
che
Rumata
cerca
d’interpretare
come
un
attore
non
ha
resurrezione,
impantanato
nella
melma
che
attanaglia
il
pianeta
Arkanar;
l’uomo
è
destinato
a
espiare
una
pena
per
l’eternità,
su
un
pianeta
che
è
l’ombra
della
Terra
e
dove
aleggia
il
solo
ricordo
della
bellezza
della
natura
terrestre,
evocato
dal
volo
degli
uccelli
o
dalla
criniera
di
un
frisone
grigio
dall’odore
di
una
rosa
o
dal
suono
di
un
clarinetto.
Quando
Rumata
suona
il
suo
clarinetto,
lo
fa
per
alleviare
le
pene
delle
anime
condannate
alla
vita;
le
sue
anime
sono
i
suoi
sottoposti,
a
cui
Rumata
non
manca
mai
di
fare
una
carezza,
di
spidocchiarli
o di
spulciarli.
Il
castellano
ha
la
sua
suddita
preferita,
“la
Signorina”,
con
cui
ama
intrattenersi,
con
cui
riesce
a
estraniarsi
dalla
continua
presenza
di
gente
che
quotidianamente
lo
accompagna
in
ogni
sua
azione;
anche
l’amplesso
con
la
signorina,
destinata
a
portare
in
grembo
la
sua
discendenza,
sarà
consumato
davanti
agli
occhi
dei
suoi
schiavi.
Eppure
nessuna
gioia
è
permessa
a
Rumata,
la
freccia
dell’Orbo
trafigge
la
signorina
e fa
ricadere
il
nobile
in
una
solitudine
affollata
di
brutalità.
Allora
il
dio-attore
decide
d’intervenire,
indossando
il
suo
elmo
con
le
corna
e di
affrontare
Don
Reba,
dopo
aver
sconfitto
l’Orbo,
il
diavolo
dell’inquisizione.
German
con
questa
sua
opera
magistrale,
che
possiamo
considerare
il
suo
testamento
artistico,
indaga
la
legge
hobbesiana
e la
difficoltà
di
costituire
un
potere
sovrano
e
legale
che
possa
ottenere
l’unanime
consenso.
L’eterna
lotta
tra
la
legge
civile
e
quella
naturale
stabilisce,
con
i
suoi
corsi
e
ricorsi,
il
destino
della
civiltà
umana,
il
suo
regresso
o il
suo
progresso.