N. 57 - Settembre 2012
(LXXXVIII)
geopolitICa ISRAELiana
ALLA RICERCA DI Nuovi equilibri con un Egitto a guida islamica
di Federico Donelli
Israele
dal
momento
della
sua
nascita
nel
1948
è
abituato
ad
affrontare
stati
di
crisi
più
o
meno
intensi
per
questo
motivo
i
recenti
sviluppi
che
coinvolgono
l’intero
contesto
mediorientale,
in
particolare
nei
Paesi
di
confine
(Egitto,
Siria,
Libano,
Giordania),
rappresentano
cambiamenti
con
cui
sia
le
istituzioni
e a
maggior
ragione
la
popolazione
stanno
rapidamente
imparando
a
convivere.
Nonostante
l’abitudine
al
rischio
impressa
ormai
sulla
pelle
di
chiunque
decida
di
vivere
in
Israele,
negli
ultimi
mesi
la
soglia
d’allarme
è
cresciuta
in
maniera
esponenziale
e,
seppure
le
attenzioni
politiche
e
soprattutto
mediatiche
siano
concentrate
sulla
minaccia
portata
dal
nucleare
iraniano,
la
situazione
ai
confini
desta
preoccupazioni
sempre
maggiori
ai
servizi
di
sicurezza
e
intelligence
del
Paese.
La
situazione
che
più
preoccupa
il
governo
israeliano
rimane
il
rapido
percorso
evolutivo
intrapreso
dall’Egitto,
che
nel
giro
di
15
mesi
ha
visto
un
drastico
cambiamento
politico
interno
con
un
inevitabile
riposizionamento
negli
equilibri
regionali.
Tale
percorso
ha
portato
il
più
importante
vicino
di
Israele
su
una
strada
di
cui
ad
oggi
pare
difficile
pronosticare
le
tappe
future.
Quello
che
sembra
essere
certo
è
che
i
rapporti
con
lo
Stato
ebraico
rappresentano
uno
degli
argomenti
più
delicati
da
affrontare
nella
politica
interna
egiziana
anche
perché
potrebbe
diventare
il
terreno
di
scontro
tra
due
diverse
concezioni
del
Paese:
quella
islamica
dei
Fratelli
Musulmani
e
quella
secolare
riconducibile
all’esercito
e
rappresentato
dal
Supremo
Consiglio
delle
Forze
Armate.
La
caduta
del
Presidente
Hosni
Mubarak
ha
iniziato
a
far
vacillare
una
delle
principali
certezze
della
strategia
di
sicurezza
nazionale
israeliana,
ossia
che
il
confine
egiziano
fosse
ormai
consolidato
e
sicuro
in
virtù
degli
accordi
stipulati
tra
i
due
Paesi
a
Camp
David
nel
1978.
Il
confine
meridionale
venne
da
quel
momento
considerato
a
tutti
gli
effetti
sicuro
con
la
sola
delicata
questione
di
Gaza
e
dei
tunnel
sotterranei
che
collegano
i
territori
palestinesi
all’Egitto.
A
creare
la
percezione
di
sicurezza
in
Israele
non
fu
tanto
la
costituzione
di
una
vera
e
propria
area
cuscinetto
costituita
dalla
Penisola
del
Sinai
che
divide
i
due
Paesi,
ma
soprattutto
la
consapevolezza
della
presenza
di
un
regime
‘amico’
e
alleato
degli
Stati
Uniti
quale
si
dimostrò
essere
quello
guidato
da
Anwar
al-Sādāt
prima
e
Mubarak
poi.
L’elemento
di
continuità
durante
tutti
questi
anni
è
stato
l’esercito
che,
anche
a
seguito
delle
rivolte
scoppiate
nella
primavera
del
2011,
ha
continuato
ad
essere
il
vero
cuore
del
potere
in
Egitto
ed
al
tempo
stesso
ha
continuato
a
rappresentare
agli
occhi
di
Israele
e
degli
Stati
Uniti
un
affidabile
garante
degli
accordi
di
Camp
David.
L’esercito
egiziano
negli
ultimi
sedici
mesi
ha
mantenuto
saldo
il
proprio
controllo
attraverso
l’organo
del
Supremo
Consiglio
delle
Forze
Armate
(SCAF).
Al
Consiglio
Supremo
vengono
lasciati
ampi
poteri
decisionali,
soprattutto
per
ciò
che
concerne
la
difesa
e la
sicurezza
interna
(la
nomina
di
alcuni
ministeri
chiave
come
quello
della
Difesa)
ambiti
in
cui
il
totale
controllo
è
lasciato
nelle
mani
del
comandante
militare
in
capo,
il
Generale
Mohamed
Hussein
Tantawi
figura
carismatica
nonché
Ministro
della
Difesa
fino
a
poche
settimane
fa.
La
vittoria
alle
elezioni
presidenziali
di
Mohammed
Morsi,
esponente
di
spicco
dei
Fratelli
Musulmani,
ha
solamente
confermato
la
tendenza
in
atto
fin
dai
giorni
immediatamente
successivi
alle
rivolte,
ovvero
che
il
movimento
nato
e
sviluppatosi
intorno
a
Piazza
Tahir
rappresentasse
solamente
una
goccia
nel
mare
egiziano.
I
Fratelli
Musulmani
hanno
saputo
capitalizzare
al
massimo
i
decenni
di
politica
e di
welfare
tra
le
classi
più
povere
e
tradizionaliste
della
società
egiziana
che,
giunta
per
la
prima
volta
ad
elezioni
libere,
ha
potuto
esprimere
il
proprio
appoggio
ad
un
movimento
in
grado
di
rappresentarne
e
guidarne
sentimenti
e
speranze
molto
più
di
quanto
non
potessero
e
sapessero
fare
i
giovani
blogger
artefici
di
Piazza
Tahir.
Più
volte
in
questi
mesi
analisti
e
giornalisti
mediorientali,
israeliani
compresi,
hanno
provato,
vanamente,
a
spiegare
ciò
che
dal
punto
di
vista
occidentale
si
fatica
ancora
a
comprendere
e
cioè
che
non
tutto
il
Cairo
è
Piazza
Tahir
e
soprattutto
che
non
tutto
l’Egitto
è il
Cairo.
L’ascesa
dei
Fratelli
Musulmani
ha
immediatamente
posto
al
primo
punto
dell’agenda
egiziana
lo
stabilirsi
di
nuovi
e il
più
possibile
bilanciati
equilibri
tra
l’establishment
di
potere
(militari
e
oligarchi)
legati
al
vecchio
regime
di
Mubarak
e il
nuovo
corso
islamista
che
avanza.
Un
equilibrio
che
lentamente
sembra
stabilizzarsi
e
riflettere
i
contorni
di
quello
che
viene
definito
‘modello
turco’
ossia
un
rapporto
in
cui
un
partito
di
chiaro
indirizzo
islamico
governa
legittimamente
con
l’assenso
dei
militari
i
quali
si
fanno
garanti
della
costituzione
e,
peculiarità
del
caso
egiziano,
dei
rapporti
con
Israele.
Le
concessioni
reciproche
tra
militari
e
islamisti
sono
e
saranno
necessarie
per
evitare
che
la
difficile
fase
di
transizione
egiziana
possa
andare
incontro
ad
un
pericoloso
stallo
con
conseguente
scontro
tra
i
due
principali
gruppi
di
potere
del
Paese.
Nell’ottica
di
assestamento
dei
nuovi
equilibri
occorre
far
rientrare
anche
i
recenti
sviluppi
che
hanno
visto
il
Presidente
Morsi
allontanare
cinque
ministri
espressione
del
Supremo
Consiglio
tra
cui
lo
stesso
Generale
Tantawi.
Sulla
vicenda
vi
sono
due
possibili
interpretazioni:
la
prima
è
che
il
Presidente
Morsi
sentendosi
più
forte
politicamente
di
quanto
in
realtà
non
sia
abbia
deciso
di
dare
vita
ad
una
radicale
trasformazione
del
sistema
politico
istituzionale
egiziano;
la
seconda,
è
che
l’allontanamento
dei
militari
dai
propri
incarichi
ministeriali
rientri
in
un
più
ampio
quadro
di
accordi
proprio
con
lo
SCAF
per
aumentare
la
popolarità
del
Presidente
dando
l’impressione
all’opinione
pubblica
che
sia
lui
a
detenere
un
effettivo
controllo
sul
Paese,
militari
compresi,
quando
in
realtà
vi è
una
situazione
di
condivisione
del
potere.
È
molto
probabile
che
la
realtà
si
avvicini
alla
seconda
ipotesi
sia
perché
al
momento
risulterebbe
controproducente
a
Morsi
e
più
in
generale
ai
Fratelli
Musulmani
alimentare
le
tensioni
con
i
militari
sia
più
semplicemente
perché
è
l’esercito
e il
blocco
economico
finanziario
ad
esso
direttamente
collegato
a
detenere
concretamente
il
potere
e
l’autorità
tale
da
mantenere
l’ordine
all’interno
del
Paese
e la
fiducia
della
comunità
internazionale
Stati
Uniti
in
primis.
A
preoccupare
il
governo
israeliano
nelle
ultime
settimane
oltre
ai
rimpasti
di
governo
voluti
da
Morsi
sono
state
le
crescenti
tensioni
nella
penisola
del
Sinai
dove
un
attacco
terroristico,
ad
opera
di
un
gruppo
islamico
radicale
palestinese,
ha
causato
la
morte
di
16
militari
egiziani
ed è
stato
seguito
da
una
violenta
azione
di
rappresaglia
dell’esercito
condotta
attraverso
un
raid
aereo
che
è
costato
la
vita
a 28
miliziani.
Gli
ingenti
spostamenti
dell’esercito
egiziano
all’interno
della
penisola
del
Sinai,
giustificati
dalla
volontà
di
perseguire
i
gruppi
terroristici
islamici,
hanno
allarmato
Israele
che
si
aspettava
di
venire
precedentemente
informato
delle
operazioni
egiziane
in
una
zona
di
confine.
Gerusalemme
ha
per
questi
motivi
voluto
chiesto
e
ottenuto
rassicurazioni
sulla
stabilità
della
zona
di
confine,
garanzie
arrivate
prima
dal
Dipartimento
di
Stato
americano
tradizionalmente
vicino
allo
SCAF
egiziano,
e
successivamente
da
un
incontro
del
Ministro
della
Difesa
israeliano
Ehud
Barak
con
la
sua
controparte
egiziana
(fresco
di
nomina)
Abdel-Fattah
al-Sisi.
L’Egitto
ha
confermato
il
proprio
impegno
nel
rispetto
degli
accordi
di
pace
di
Camp
David,
tuttavia
ha
sottolineato
come
per
una
efficiente
lotta
alle
molte
cellule
paramilitari
islamiche
presenti
nella
Penisola
sarebbe
necessaria
una
revisione
delle
clausole
del
trattato
di
pace,
in
modo
da
consentire
all’Egitto
di
stabilire
una
presenza
fissa
e
massiccia
nelle
zone
di
confine.
Questi
sviluppi
hanno
riproposto
la
questione
delle
clausole
militari
di
Camp
David
e la
possibilità
che
l’Egitto
possa
chiedere
ufficialmente
una
revisione
di
alcuni
punti
del
trattato;
una
possibilità
non
molto
remota
in
virtù
anche
delle
pressioni
provenienti
dall’opinione
pubblica
egiziana
e
dalla
influente
e
politicamente
forte
componente
islamico
salafita.
Una
questione
che
presto
o
tardi
dovrà
essere
affrontata
anche
dallo
stesso
Israele
e
dagli
Stati
Uniti
con
la
consapevolezza
di
dover
riadattare
equilibri
passati
ad
un
contesto
diverso
caratterizzato
da
nuovi
attori.
Se
il
bilanciamento
di
poteri
tra
il
Presidente
Morsi
e
l’establishment
militare
dovesse
proseguire
lungo
la
strada
fin
qui
intrapresa,
ovvero
una
graduale
condivisione
del
potere
attraverso
la
ripartizione
dei
ministeri,
allora
nei
rapporti
con
Israele
non
dovrebbero
esserci
cambiamenti
a
breve
termine.
A
Gerusalemme,
senza
sottovalutare
i
cambiamenti
in
atto,
sono
consci
di
poter
stare
tranquilli,
allo
stesso
tempo
però
sanno
di
dover
rivedere
la
propria
strategia
di
sicurezza
nazionale
accettando
la
realtà
di
un
Egitto
a
forti
tinte
islamiche
il
cui
peso
si
farà
inevitabilmente
sentire
durante
i
futuri
negoziati
con
l’Autorità
Nazionale
Palestinese.