[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

187 / LUGLIO 2023 (CCXVIII)


medievale

DOMINA MARIS
STORIA Della CITTà DI GENOVA TRA X E XI SECOLO

di Gabriele Ciaravolo

 

Quando si pensa a Genova nel Medioevo siamo soliti figurarci una grande talassocrazia marittima, una potenza economica e mercantile di respiro internazionale, in grado di dettare le proprie condizioni a papi, re, principi e imperatori, perennemente in lotta con Pisa e Venezia per la supremazia nel Mediterraneo. Tuttavia, facendo un passo indietro, è sulle origini medievali della città, e più nello specifico sulla sua lenta affermazione nel quadrante tirrenico del mediterraneo, che vorrei fornire alcune linee guida, per quanto inevitabilmente approssimative.

 

Le fonti archeologiche e documentarie inerenti la Genova alto-medievale rasentano una scarsità quasi assoluta, circoscritte perlopiù a quel che riguarda la diocesi genovese, verso cui si è quindi concentrata la gran parte dell’attenzione degli storici che hanno guardato al capoluogo ligure prima della sua ‘rinascita’ nel X secolo. Tra le poche informazioni di cui disponiamo emergono infatti quelle relative alle più antiche chiese della città, tra cui spiccano la basilica paleocristiana dei Dodici Apostoli, intitolata a San Siro a partire dalla fine del VI secolo, e la basilica di San Lorenzo, che, emersa solo più tardi, a lungo condivise la dignità cattedratica con la prima, ma che appare sempre più rilevante dal IX secolo, quando le importanti reliquie di San Romolo vengono traslate in questa sede per ripararle dalle scorrerie saracene che devastavano il Ponente ligure.
 

La presenza della Chiesa genovese in questi secoli contribuisce così a gettare una qualche luce su un’oscurità altrimenti impenetrabile, anche se non dobbiamo figurarci Genova come un centro del tutto tagliato fuori dal mondo, se è vero, come sostengono alcuni, che ancora in età ostrogota sarebbe esistita in città una comunità ebraica con una propria sinagoga, il che lascerebbe supporre la sopravvivenza di alcuni legami, seppur molto labili, con l’Oriente. Cionondimeno, pur in presenza di una certa continuità con il centro antico, rimane indubitabile che, come scrive un illustre storico statunitense, ancora in età carolingia Genova rimane una città di secondaria importanza, “not much more than a big village”.

 

Un momento di svolta nella storia della città è sicuramente il sacco saraceno del 934-935, che lascia un’impronta indelebile nella memoria collettiva dei genovesi, come dimostra il fatto che, ancora sul finire del Duecento, Jacopo da Varagine – che tiene a precisare come nella storia cittadina questo sia uno dei pochissimi eventi antecedenti le Crociate su cui si possa dire qualcosa di certo – rielabora la vicenda, presentandola in termini più appetibili per i propri conterranei.

 

L’intera vicenda, tuttavia, lungi dall’essere ascrivibile alla semplice dimensione aneddotica, ci permette di trarre alcune importanti considerazioni sulla condizione della città a questa data, dal momento che doveva già essere al centro di importanti traffici, per quanto, ovviamente, su scala relativamente circoscritta. Inoltre alcune importanti testimonianze arabe permettono di avvalorare questa ipotesi, come quella di Idris al Hasan Imad al Din, che scrive come i predoni trovassero a Genova tele di lino, filati di lino e di seta greggia, informandoci della presenza di una considerevole cinta muraria, il che, ancora una volta, lascerebbe propendere per una certa importanza della città.
 

D’altro canto la rilevanza di Genova per i commerci del Regno già a questa data potrebbe contribuire a spiegare le ragioni del diploma regio di cui è beneficiaria nel 958, dal momento che quest’ultimo, pur essendo ben lontano dal costituire un antecedente illustre a un fantomatico sviluppo ‘precomunale’ della città, implica ugualmente una posizione di forza da parte dei genovesi. Esso infatti potrebbe trovare la propria ragione nello sviluppo economico derivante dalla sua attività navale e commerciale, e d’altronde motivazioni simili possono rinvenirsi anche nell’atteggiamento dei marchesi Aleramici verso Savona, privilegiata rispetto al resto della dominazione marchionale proprio per la sua vocazione marittima.

 

Sempre il diploma di Berengario lascerebbe supporre alcuni lunghi strascichi del terribile saccheggio di poco più di un ventennio prima, tanto che la stessa volontà dei genovesi di veder riconosciuto il possesso delle terre di cui detenevano il controllo de facto sarebbe da motivarsi proprio con la forte insicurezza degli abitanti, in cerca di un documento ufficiale che, riconoscendo i loro diritti, potesse giuridicamente proteggerli dalle conseguenze di eventi drammatici come quello del 934.

 

Infine, occorre ricordare che la maggior parte delle attività economiche elencate nel diploma hanno a che fare con la pesca e l’agricoltura, il che indica chiaramente come il grosso della ricchezza dell’aristocrazia genovese a questa data fosse ancora dipendente dal mondo rurale. È dai proventi ottenuti dalla pur scarsa agricoltura ligure che, secondo uno studioso del peso di Stephan R. Epstein, viene ricavato quel surplus di argento che permette ai genovesi di avviare ricchi commerci in Nord Africa, e a sostegno di questa tesi vi è l’origine nobiliare di gran parte delle più importanti famiglie mercantili della Genova del XII e XIII secolo, discendenti da quelle schiatte aristocratiche che fin dall’XI secolo controllavano numerose terre in territorio ligure, nonché i principali passi alpini che mettevano in comunicazione la Riviera con il mondo padano, e che permettevano quindi l’afflusso di merci e beni di prima necessità verso il mare.

 

Spinola, De Mari, Carmadino, Avvocati, sono solo alcune tra le nobili dinastie genovesi che decidono di ‘prendere il mare’ con il ricavato dei loro possedimenti, probabilmente per la scarsità di terre in patria, che avrebbe costretto l’aristocrazia locale a reinvestire il proprio denaro nei traffici a lunga percorrenza.


La presunta dicotomia tra ‘società urbana’ e ‘società feudale’ relegate in scatole chiuse e impermeabili l’un l’altra non regge alla prova dei fatti, come dimostra nelle città marittime l’interazione continua e proficua tra ‘navi’ e ‘cavalli’, utilizzando l’immagine coniata da Giuseppe Petralia per fare riferimento all’appartenenza al ceto signorile di quei genovesi e pisani che contribuirono attivamente alla ripresa dei commerci nell’XI secolo. Giovanna Petti Balbi, riprendendo lo storico cosentino, scrive che «alla base del precoce sviluppo delle città marittime e del loro rapporto con il mare, il commercio, gli infedeli, ci furono iniziative convergenti da parte di lignaggi aristocratici e di più modesti e anonimi abitanti della città». È infatti questa unità di intenti tra ‘Nobiltà’ e ‘Popolo’ che garantisce il successo dell’espansione commerciale genovese, ormai una realtà di fatto all’indomani del Mille.

 

Negli anni ’60 del secolo sono chiaramente documentate dall’archivio della Genizah del Cairo attività mercantili dei genovesi in Egitto, e del resto una loro consistente presenza ad Alessandria è confermata dal fatto che nel 1103 ne viene ordinato l’arresto in massa, evidentemente a seguito di lunghi decenni di penetrazione commerciale che avrebbero permesso il proliferare di una loro colonia nella città egiziana. Grossomodo nello stesso periodo è attestata la penetrazione commerciale di Genova in Occidente, sia in area provenzale e occitanica che, soprattutto, in Sardegna, dove forse ancora più capillari sono le attività economiche condotte dai liguri. L’isola infatti risulta particolarmente appetibile per le mire di pisani e genovesi, ricca com’è di ovini, grano e saline. Le stesse élites locali, i maiorales sardi, intessono legami matrimoniali con importanti famiglie di Pisa e Genova, agevolando l’afflusso di prodotti continentali in Sardegna al punto che perfino le pentole e il vasellame da cucina vengono a costituire articoli d’importazione, rendendo l’isola un immenso mercato dove le città tirreniche possono esportare le loro merci.

 
Nel XII secolo, i genovesi inviano ormai con regolarità le loro navi in Sardegna, dal momento che i suoi prodotti, “economici ma essenziali”, garantivano un sicuro ritorno dell’investimento. Inoltre bisogna tenere presente la posizione centrale dell’isola, che faceva gola alle città tirreniche tanto e più dei suoi prodotti. È proprio la posizione strategica della Sardegna al centro del Mediterraneo che, forse ancora di più delle prospettive economiche appena accennate, convince Pisa e Genova a lanciarsi nella celebre impresa del 1016.

 

La paventata conquista dell’isola da parte dell’emiro di Denia, Mujahid al-Amiri, ultimo slancio di quel che restava della pirateria saracena ridestatasi dopo la fitna interna al califfato di Cordoba, aveva infatti reso insicura l’intera costa tirrenica, come dimostrano il sacco di Pisa del 1011 e quello di Luni nel 1016. La minaccia diretta alle città che si affacciavano sul Tirreno contribuisce ad ammantare l’impresa di una patina di ‘sacralità’ che sarebbe stata del resto una costante nelle operazioni pisano-genovesi nel Mediterraneo nell’XI secolo, e, se l’interesse economico rimane ben presente, ciononostante non bisogna disgiungerlo da un effettivo slancio religioso che non era in contraddizione con il perseguimento di finalità politico-economiche. Scrive Enrica Salvatori che, a questo punto, «Pisa e Genova si sentirono […] motivate a scendere in campo, per salvaguardare, con la difesa dell’isola, anche i loro interessi e quelli di buona parte della Cristianità occidentale».

 

L’impresa di Sardegna è solo la prima delle numerose spedizioni organizzate da Pisa e Genova, talora congiuntamente, talaltra – più spesso – in autonomia l’una dall’altra per debellare la pirateria saracena dal Mediterraneo. Infatti, se anche gli interessi delle due città tirreniche vengono spesso in contrasto, ciononostante esse rimangono accomunate da questo punto fermo, che culminerà nel 1087 nella nuova e più famosa spedizione congiunta pisano-genovese contro la roccaforte tunisina di al-Mahdia. L’impresa è di fondamentale importanza nella storia del Mediterraneo perché, oltre a determinare l’ingresso di nuovi protagonisti nei circuiti commerciali tra il Meridione, il Nord Africa e Bisanzio, diffondeva l’idea – tanto tra i cristiani che tra i musulmani – dell’invincibilità delle marinerie genovese e pisana se unite in un unico intento.

 

Il bottino è enorme, e, anche se a Genova mancano le altisonanti celebrazioni retoriche e pubblicistiche che l’impresa conosce a Pisa, anche nella città ligure questa troverà i suoi cantori, a cominciare da Caffaro, console del Comune, autore di quegli Annales Ianuenses che sono tra le opere più importanti dell’Italia di XII secolo. Egli, che lega direttamente la genesi di Genova alla prima crociata, non manca di menzionare l’impegno assunto dalla città nella lotta contro la pirateria saracena a Occidente, perché proprio qui i genovesi maturarono quell’esperienza che avrebbero poi fatto più compiutamente fruttare a Levante.

 

D’altro canto, pur non potendo dilungarmi sulla questione, è innegabile che l’impresa di al-Mahdia rechi in sé alcune tracce ‘proto-crociate’ che, anche se non la rendono l’antesignana di quanto sarebbe accaduto di lì a poco in Oriente, cionondimeno permettono di collegarla al più vasto contesto della riforma della Chiesa e della conseguente rinnovata spinta alla difesa della Cristianità.

Infine, è doveroso notare le differenti modalità con cui pisani e genovesi affrontano la spedizione. Infatti, mentre i primi partecipano in forma ufficiale e unanime per ottenere comunemente dei meriti agli occhi del pontefice, così non è nel caso di Genova, il cui contingente è formato da volontari filo-riformisti, che partecipano all’impresa per loro propria iniziativa, anche – ma non solo – a motivo della fedeltà imperiale del vescovo Corrado. Questo carattere ‘individualista’ rimarrà anche nelle modalità di partecipazione dei genovesi alle stesse Crociate.

 

Scrive Renato Bordone che «anche le successive e più note spedizioni genovesi in Terrasanta […] sembrano conservare sino alla fine del secolo questo carattere di non unanimità, ma di iniziativa individualistica».


La Genova di fine XI secolo è quindi, come spero di aver sommariamente dimostrato, una città vivace, con una coscienza politica fragile, ma comunque già abbozzata, in grado di allestire flotte imponenti e capace di creare una rete commerciale estesa dalle coste provenzali a quelle egiziane, pronta quindi a emergere, a seguito delle crociate, come uno dei protagonisti più importanti dello scacchiere internazionale, tanto a oriente che a occidente del mediterraneo.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

G. Petti Balbi, Genova e il Mediterraneo occidentale nei secoli XI-XII, in Comuni e memoria storica. Alle origini del Comune di Genova, Atti del Convegno di Studi. Genova, 24-26 settembre 2001, in “Atti della Società Ligure di Storia Patria”, Nuova serie (42/1), pp. 503-526.

R. Bordone, Origini del Comune di Genova in Comuni e memoria storica. Alle origini del Comune di Genova, Atti del Convegno di Studi. Genova, 24-26 settembre 2001, in Atti della Società Ligure di Storia Patria,Nuova serie (42/1), pp. 237-59.

S.A. Epstein, Genoa and the Genoese, 958-1528, The University of North Carolina Press, Chapel Hill  1996.

G. Petralia, Le “navi” e i “cavalli”: per una rilettura del Mediterraneo pienomedievale in “Quaderni storici”, Gennaio 2000, Nuova serie, Vol. 35, No. 103 (1), pp. 201-222.

E. Salvatori, Lo spazio economico di Pisa nel Mediterraneo in “Bullettino per l’Istituto Italiano per il Medioevo”, 115 (2013), pp. 119-152.

V. Polonio, Tra universalismo e localismo: costruzione di un sistema (569-1321), in Il cammino della Chiesa genovese, dalle origini ai giorni nostri, a cura di D. Puncuh, 1999, in “Atti della società ligure di storia patria”, Nuova serie, vol. XXXIX (CXIII), Fasc. II, pp. 77-210. 

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]