medievale
DOMINA MARIS
STORIA Della CITTà DI GENOVA
TRA X E XI SECOLO
di Gabriele Ciaravolo
Quando si pensa a Genova nel Medioevo siamo soliti
figurarci una grande talassocrazia marittima, una
potenza economica e mercantile di respiro
internazionale, in grado di dettare le proprie
condizioni a papi, re, principi e imperatori,
perennemente in lotta con Pisa e Venezia per la
supremazia nel Mediterraneo. Tuttavia, facendo un
passo indietro, è sulle origini medievali della
città, e più nello specifico sulla sua lenta
affermazione nel quadrante tirrenico del
mediterraneo, che vorrei fornire alcune linee guida,
per quanto inevitabilmente approssimative.
Le fonti archeologiche e documentarie inerenti la
Genova alto-medievale rasentano una scarsità quasi
assoluta, circoscritte perlopiù a quel che riguarda
la diocesi genovese, verso cui si è quindi
concentrata la gran parte dell’attenzione degli
storici che hanno guardato al capoluogo ligure prima
della sua ‘rinascita’ nel X secolo. Tra le poche
informazioni di cui disponiamo emergono infatti
quelle relative alle più antiche chiese della città,
tra cui spiccano la basilica paleocristiana dei
Dodici Apostoli, intitolata a San Siro a partire
dalla fine del VI secolo, e la basilica di San
Lorenzo, che, emersa solo più tardi, a lungo
condivise la dignità cattedratica con la prima, ma
che appare sempre più rilevante dal IX secolo,
quando le importanti reliquie di San Romolo vengono
traslate in questa sede per ripararle dalle
scorrerie saracene che devastavano il Ponente
ligure.
La presenza della Chiesa genovese in questi secoli
contribuisce così a gettare una qualche luce su
un’oscurità altrimenti impenetrabile, anche se non
dobbiamo figurarci Genova come un centro del tutto
tagliato fuori dal mondo, se è vero, come sostengono
alcuni, che ancora in età ostrogota sarebbe esistita
in città una comunità ebraica con una propria
sinagoga, il che lascerebbe supporre la
sopravvivenza di alcuni legami, seppur molto labili,
con l’Oriente. Cionondimeno, pur in presenza di una
certa continuità con il centro antico, rimane
indubitabile che, come scrive un illustre storico
statunitense, ancora in età carolingia Genova rimane
una città di secondaria importanza, “not much
more than a big village”.
Un momento di svolta nella storia della città è
sicuramente il sacco saraceno del 934-935, che
lascia un’impronta indelebile nella memoria
collettiva dei genovesi, come dimostra il fatto che,
ancora sul finire del Duecento, Jacopo da Varagine –
che tiene a precisare come nella storia cittadina
questo sia uno dei pochissimi eventi antecedenti le
Crociate su cui si possa dire qualcosa di certo –
rielabora la vicenda, presentandola in termini più
appetibili per i propri conterranei.
L’intera vicenda, tuttavia, lungi dall’essere
ascrivibile alla semplice dimensione aneddotica, ci
permette di trarre alcune importanti considerazioni
sulla condizione della città a questa data, dal
momento che doveva già essere al centro di
importanti traffici, per quanto, ovviamente, su
scala relativamente circoscritta. Inoltre alcune
importanti testimonianze arabe permettono di
avvalorare questa ipotesi, come quella di Idris al
Hasan Imad al Din, che scrive come i predoni
trovassero a Genova tele di lino, filati di lino e
di seta greggia, informandoci della presenza di una
considerevole cinta muraria, il che, ancora una
volta, lascerebbe propendere per una certa
importanza della città.
D’altro canto la rilevanza di Genova per i commerci
del Regno già a questa data potrebbe contribuire a
spiegare le ragioni del diploma regio di cui è
beneficiaria nel 958, dal momento che quest’ultimo,
pur essendo ben lontano dal costituire un
antecedente illustre a un fantomatico sviluppo
‘precomunale’ della città, implica ugualmente una
posizione di forza da parte dei genovesi. Esso
infatti potrebbe trovare la propria ragione nello
sviluppo economico derivante dalla sua attività
navale e commerciale, e d’altronde motivazioni
simili possono rinvenirsi anche nell’atteggiamento
dei marchesi Aleramici verso Savona, privilegiata
rispetto al resto della dominazione marchionale
proprio per la sua vocazione marittima.
Sempre il diploma di Berengario lascerebbe supporre
alcuni lunghi strascichi del terribile saccheggio di
poco più di un ventennio prima, tanto che la stessa
volontà dei genovesi di veder riconosciuto il
possesso delle terre di cui detenevano il controllo
de facto sarebbe da motivarsi proprio con la
forte insicurezza degli abitanti, in cerca di un
documento ufficiale che, riconoscendo i loro
diritti, potesse giuridicamente proteggerli dalle
conseguenze di eventi drammatici come quello del
934.
Infine, occorre ricordare che la maggior parte delle
attività economiche elencate nel diploma hanno a che
fare con la pesca e l’agricoltura, il che indica
chiaramente come il grosso della ricchezza
dell’aristocrazia genovese a questa data fosse
ancora dipendente dal mondo rurale. È dai proventi
ottenuti dalla pur scarsa agricoltura ligure che,
secondo uno studioso del peso di Stephan R. Epstein,
viene ricavato quel surplus di argento che
permette ai genovesi di avviare ricchi commerci in
Nord Africa, e a sostegno di questa tesi vi è
l’origine nobiliare di gran parte delle più
importanti famiglie mercantili della Genova del XII
e XIII secolo, discendenti da quelle schiatte
aristocratiche che fin dall’XI secolo controllavano
numerose terre in territorio ligure, nonché i
principali passi alpini che mettevano in
comunicazione la Riviera con il mondo padano, e che
permettevano quindi l’afflusso di merci e beni di
prima necessità verso il mare.
Spinola, De Mari, Carmadino, Avvocati, sono solo
alcune tra le nobili dinastie genovesi che decidono
di ‘prendere il mare’ con il ricavato dei loro
possedimenti, probabilmente per la scarsità di terre
in patria, che avrebbe costretto l’aristocrazia
locale a reinvestire il proprio denaro nei traffici
a lunga percorrenza.
La presunta dicotomia tra ‘società urbana’ e
‘società feudale’ relegate in scatole chiuse e
impermeabili l’un l’altra non regge alla prova dei
fatti, come dimostra nelle città marittime
l’interazione continua e proficua tra ‘navi’ e
‘cavalli’, utilizzando l’immagine coniata da
Giuseppe Petralia per fare riferimento
all’appartenenza al ceto signorile di quei genovesi
e pisani che contribuirono attivamente alla ripresa
dei commerci nell’XI secolo. Giovanna Petti Balbi,
riprendendo lo storico cosentino, scrive che «alla
base del precoce sviluppo delle città marittime e
del loro rapporto con il mare, il commercio, gli
infedeli, ci furono iniziative convergenti da parte
di lignaggi aristocratici e di più modesti e anonimi
abitanti della città». È infatti questa unità di
intenti tra ‘Nobiltà’ e ‘Popolo’ che garantisce il
successo dell’espansione commerciale genovese, ormai
una realtà di fatto all’indomani del Mille.
Negli anni ’60 del secolo sono chiaramente
documentate dall’archivio della Genizah del Cairo
attività mercantili dei genovesi in Egitto, e del
resto una loro consistente presenza ad Alessandria è
confermata dal fatto che nel 1103 ne viene ordinato
l’arresto in massa, evidentemente a seguito di
lunghi decenni di penetrazione commerciale che
avrebbero permesso il proliferare di una loro
colonia nella città egiziana. Grossomodo nello
stesso periodo è attestata la penetrazione
commerciale di Genova in Occidente, sia in area
provenzale e occitanica che, soprattutto, in
Sardegna, dove forse ancora più capillari sono le
attività economiche condotte dai liguri. L’isola
infatti risulta particolarmente appetibile per le
mire di pisani e genovesi, ricca com’è di ovini,
grano e saline. Le stesse élites locali, i
maiorales sardi, intessono legami matrimoniali
con importanti famiglie di Pisa e Genova, agevolando
l’afflusso di prodotti continentali in Sardegna al
punto che perfino le pentole e il vasellame da
cucina vengono a costituire articoli d’importazione,
rendendo l’isola un immenso mercato dove le città
tirreniche possono esportare le loro merci.
Nel XII secolo, i genovesi inviano ormai con
regolarità le loro navi in Sardegna, dal momento che
i suoi prodotti, “economici ma essenziali”,
garantivano un sicuro ritorno dell’investimento.
Inoltre bisogna tenere presente la posizione
centrale dell’isola, che faceva gola alle città
tirreniche tanto e più dei suoi prodotti. È proprio
la posizione strategica della Sardegna al centro del
Mediterraneo che, forse ancora di più delle
prospettive economiche appena accennate, convince
Pisa e Genova a lanciarsi nella celebre impresa del
1016.
La paventata conquista dell’isola da parte
dell’emiro di Denia, Mujahid al-Amiri, ultimo
slancio di quel che restava della pirateria saracena
ridestatasi dopo la fitna interna al califfato di
Cordoba, aveva infatti reso insicura l’intera costa
tirrenica, come dimostrano il sacco di Pisa del 1011
e quello di Luni nel 1016. La minaccia diretta alle
città che si affacciavano sul Tirreno contribuisce
ad ammantare l’impresa di una patina di ‘sacralità’
che sarebbe stata del resto una costante nelle
operazioni pisano-genovesi nel Mediterraneo nell’XI
secolo, e, se l’interesse economico rimane ben
presente, ciononostante non bisogna disgiungerlo da
un effettivo slancio religioso che non era in
contraddizione con il perseguimento di finalità
politico-economiche. Scrive Enrica Salvatori che, a
questo punto, «Pisa e Genova si sentirono […]
motivate a scendere in campo, per salvaguardare, con
la difesa dell’isola, anche i loro interessi e
quelli di buona parte della Cristianità occidentale».
L’impresa di Sardegna è solo la prima delle numerose
spedizioni organizzate da Pisa e Genova, talora
congiuntamente, talaltra – più spesso – in autonomia
l’una dall’altra per debellare la pirateria saracena
dal Mediterraneo. Infatti, se anche gli interessi
delle due città tirreniche vengono spesso in
contrasto, ciononostante esse rimangono accomunate
da questo punto fermo, che culminerà nel 1087 nella
nuova e più famosa spedizione congiunta
pisano-genovese contro la roccaforte tunisina di
al-Mahdia. L’impresa è di fondamentale importanza
nella storia del Mediterraneo perché, oltre a
determinare l’ingresso di nuovi protagonisti nei
circuiti commerciali tra il Meridione, il Nord
Africa e Bisanzio, diffondeva l’idea – tanto tra i
cristiani che tra i musulmani – dell’invincibilità
delle marinerie genovese e pisana se unite in un
unico intento.
Il bottino è enorme, e, anche se a Genova mancano le
altisonanti celebrazioni retoriche e pubblicistiche
che l’impresa conosce a Pisa, anche nella città
ligure questa troverà i suoi cantori, a cominciare
da Caffaro, console del Comune, autore di quegli
Annales Ianuenses che sono tra le opere più
importanti dell’Italia di XII secolo. Egli, che lega
direttamente la genesi di Genova alla prima
crociata, non manca di menzionare l’impegno assunto
dalla città nella lotta contro la pirateria saracena
a Occidente, perché proprio qui i genovesi
maturarono quell’esperienza che avrebbero poi fatto
più compiutamente fruttare a Levante.
D’altro canto, pur non potendo dilungarmi sulla
questione, è innegabile che l’impresa di al-Mahdia
rechi in sé alcune tracce ‘proto-crociate’ che,
anche se non la rendono l’antesignana di quanto
sarebbe accaduto di lì a poco in Oriente,
cionondimeno permettono di collegarla al più vasto
contesto della riforma della Chiesa e della
conseguente rinnovata spinta alla difesa della
Cristianità.
Infine, è doveroso notare le differenti modalità con
cui pisani e genovesi affrontano la spedizione.
Infatti, mentre i primi partecipano in forma
ufficiale e unanime per ottenere comunemente dei
meriti agli occhi del pontefice, così non è nel caso
di Genova, il cui contingente è formato da volontari
filo-riformisti, che partecipano all’impresa per
loro propria iniziativa, anche – ma non solo – a
motivo della fedeltà imperiale del vescovo Corrado.
Questo carattere ‘individualista’ rimarrà anche
nelle modalità di partecipazione dei genovesi alle
stesse Crociate.
Scrive Renato Bordone che «anche le successive e
più note spedizioni genovesi in Terrasanta […]
sembrano conservare sino alla fine del secolo questo
carattere di non unanimità, ma di iniziativa
individualistica».
La Genova di fine XI secolo è quindi, come spero di
aver sommariamente dimostrato, una città vivace, con
una coscienza politica fragile, ma comunque già
abbozzata, in grado di allestire flotte imponenti e
capace di creare una rete commerciale estesa dalle
coste provenzali a quelle egiziane, pronta quindi a
emergere, a seguito delle crociate, come uno dei
protagonisti più importanti dello scacchiere
internazionale, tanto a oriente che a occidente del
mediterraneo.
Riferimenti bibliografici:
G. Petti Balbi, Genova e il Mediterraneo
occidentale nei secoli XI-XII, in
Comuni
e memoria storica. Alle origini del Comune di Genova,
Atti del Convegno di Studi. Genova, 24-26 settembre
2001, in “Atti della Società Ligure di Storia
Patria”, Nuova serie (42/1), pp. 503-526.
R. Bordone, Origini del Comune di Genova in Comuni
e memoria storica. Alle origini del Comune di Genova,
Atti del Convegno di Studi. Genova, 24-26 settembre
2001, in Atti della Società Ligure di Storia
Patria,Nuova serie (42/1), pp. 237-59.
S.A. Epstein, Genoa and the Genoese, 958-1528,
The University of North Carolina Press, Chapel Hill
1996.
G. Petralia, Le “navi” e i “cavalli”: per una
rilettura del Mediterraneo pienomedievale in
“Quaderni storici”, Gennaio 2000, Nuova serie, Vol.
35, No. 103 (1), pp. 201-222.
E. Salvatori, Lo spazio economico di Pisa nel
Mediterraneo in “Bullettino per l’Istituto
Italiano per il Medioevo”, 115 (2013), pp. 119-152.
V. Polonio, Tra universalismo e localismo:
costruzione di un sistema (569-1321), in Il
cammino della Chiesa genovese, dalle origini ai
giorni nostri, a cura di D. Puncuh, 1999, in
“Atti della società ligure di storia patria”, Nuova
serie, vol. XXXIX (CXIII), Fasc. II, pp. 77-210. |