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N. 19 - Dicembre 2006

GAZA

Una verità raccontata a metà

di Daniel Arbib Tiberi

 

Sono passate solo poche settimane dalla fine della guerra del Libano e il medioriente continua ad essere un luogo tutt’altro che calmo, oramai costantemente al centro della cronaca internazionale. Questa volta a finire sotto l’attenzione delle telecamere è stata la recente operazione dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza, il lembo di terra palestinese al confine con il Sinai egiziano, abbandonato dalle forze di Tel Aviv nel 2004.

 

L’operazione, denominata in codice “Nubi d’Autunno”, ha sinora causato la morte di 57 palestinesi, tra cui 18 innocenti civili di Beit Hanun raggiunti da un colpo d’artigliera finito, per colpa di un radar difettoso, su una zona abitata.

 

Israele si è immediatamente scusato per il tragico evento (offrendo anche risarcimento monetario alle famiglie delle vittime e nominando una speciale commissione di inchiesta interna), ma ha rifiutato di terminare immediatamente le azioni militari, così come richiesto da una risoluzione non vincolante dell’Assemblea delle Nazioni Unite. Al contrario Tel Aviv ha invocato il suo legittimo diritto ad agire contro i miliziani palestinesi che, giornalmente, attaccano le vicine cittadine israeliane (si pensi a Sderot) con una pioggia di razzi kassam che, recentemente, hanno provocato la morte di una donna e il ferimento di tre altri civili inermi.

 

Ma le ragioni di Israele alla Comunità internazionale sono interessate relativamente poco. Pochi giorni prima della risoluzione dell’Assemblea infatti, l’ambasciatore USA all’ONU John Bolton, si era visto costretto a porre il veto su una proposta di risoluzione del Consiglio di Sicurezza che, così come richiesto da alcuni leader europei (tra cui anche il nostro Ministro degli Esteri Massimo D’Alema) prospettava l’invio di una forza di interposizione al confine tra Gaza e Israele.

 

Sebbene in principio tale opzione possa sembrare una ottima soluzione a tutti i mali, gli analisti mondiali non paiono tenere in debito conto un aspetto fondamentale: il diritto di Israele a non fidarsi delle missioni di peacekeaping che sinora sono state messe in pratica dal Palazzo di Vetro. Cominciando con la missione del 1956 e terminando con la UNIFIL 1 (sulla seconda ancora non è lecito pronunciarsi), le forze di interposizione si sono sempre dimostrate impotenti davanti all’intimazione di abbandono di dittatori carismatici (Nasser) o, peggio ancora, indifferenti spettatori dinnanzi a illeciti traffici di armamenti (il caso emblematico del tunnel pieno di razzi scovato dalle forze di Tzahal a dieci metri dalla torretta dei caschi blu in Libano).

 

Va aggiunto inoltre un altro aspetto, a mio parere, abbastanza inquietante. I media europei hanno trasmesso rarissime volte (e solo per pochi secondi) le immagini dei danni causati dai razzi dei palestinesi, preferendo dedicare la loro attenzione al “cattivo” israeliano sempre pronto a sparare e ad uccidere. Poco si è detto inoltre, almeno in Italia, del bieco uso da parte dei miliziani di donne e bambini come scudi umani per proteggere capi terroristi e case piene di armi. Tutto questo per molti, rappresenta semplicemente un lecito diritto di resistenza, un diritto però poi negato all’altra parte che, troppe volte, si vorrebbe immobile e inerme davanti al rischio quotidiano di essere sopraffatta in una intera regione quasi totalmente ostile.

 

In mezzo a tutto questo marasma non mancano alcune novità importanti, sia militari che politiche. La novità militare riguarda il probabile uso di “calabroni-robot” da parte israeliana per fotografare i movimenti dei gruppi armati a Gaza e in Cisgiordania. L’obiettivo è quello di agire preventivamente e cercare così, per quanto possibile, di non ripetere più drammatiche stragi come quella di Beit Hannun. Sotto il profilo politico è da registrare invece l’iniziativa fraco-italo-spagnola per ottenere una celere tregua tra le parti in conflitto. Cinque sono i punti fondamentali di tale piano: un immediato cessate il fuoco, la formazione di un governo di unità nazionale palestinese, lo scambio di prigionieri e, infine, una missione internazionale a Gaza per monitorare il cessate il fuoco stesso.

 

A chiosa di tale processo dovrebbe successivamente tenersi una conferenza di pace come quella di Madrid che, nel 1991, avviò le trattative che portarono alla firma degli accordi di Oslo I nel 1993. Tutto questo sempre sperando che Zapatero and Co. riescano a convincere i palestinesi a terminare le violenze (seguite a ruota da rappresaglie israeliane) e Hamas a riconoscere finalmente, come fece Arafat allora, il diritto di Israele ad esistere e a vivere in sicurezza.

 

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