N. 38 - Febbraio 2011
(LXIX)
a PROPOSITO DI GIULIO CESARE
IL POLITICO, IL GENERALE, LO SCRITTORE
di Danilo Caruso
L’allargamento
del
campo
geografico
d’influenza
della
civiltà
greco-romana
merita
a
Gaio
Giulio
Cesare
il
riconoscimento
di
un
contributo
basilare
alla
crescita
di
un’omogenea
idea
d’Europa.
La
poliedrica
valenza
della
sua
personalità
lo
ha
reso
un
personaggio
autorevole
nel
retaggio
dell’antichità.
Nacque
a
Roma
il
13
luglio
di
un
anno
tra
il
102
ed
il
100
a.C.
(le
date
seguenti
sono
a.C.):
proveniva
dalla
patrizia
gens
Iulia,
indebolitasi
economicamente,
che
si
proclamava
discendente
dell’eneide
Iulo
(Ascanio).
A 16
anni
gli
morì
l’omonimo
padre.
Ricevette
un’iniziale
istruzione
dalla
madre,
l’aristocratica
Aurelia
Cotta,
ebbe
poi
maestro
un
noto
grammatico
di
origine
gallica.
Nipote
di
Gaio
Mario
(che
ne
aveva
sposato
una
zia
paterna)
e
cugino
di
Mario
(l’antagonista
di
Silla),
scelse
di
parteggiare
in
favore
dello
schieramento
politico
dei
populares
(opposto
a
quello
oligarchico
degli
optimates).
La
prima
moglie,
Cornelia
Minore
sposata
a 17
anni,
era
figlia
del
democratico
Cinna
(collaboratore
di
Mario),
il
che
gli
procurò
seri
problemi
(rischiò
di
essere
ammazzato
durante
le
proscrizioni
sillane):
si
sposò
tre
volte
(morta
Cornelia
di
parto
nel
68,
nel
62
ripudiò
la
seconda
moglie,
Pompea,
una
nipote
di
Silla,
a
causa
di
manifesto
tradimento).
Allontanatosi
dalla
capitale
per
sicurezza,
precedentemente
alla
fine
del
regime
sillano
(avvenuta
nel
78),
fu
militare
in
Asia
Minore.
Ritornato,
il
processo
con
l’imputazione
di
concussione
a
Gaio
Cornelio
Dolabella,
un
ex
console
sostenitore
di
Silla,
andato
assolto
senza
far
chiarezza,
di
cui
egli
fu
avvocato
accusatore,
lo
mise
in
risalto
sullo
scenario
forense.
Perfezionò
il
percorso
di
formazione
culturale
nel
74 a
Rodi
(ebbe
in
comune
con
Cicerone
il
maestro
Apollonio
Molone):
all’andata
rapito
dai
pirati,
e
rilasciato
dopo
il
riscatto,
si
adoperò
per
catturare
– in
modo
sarcastico
glielo
aveva
promesso
– ed
uccidere
i
suoi
sequestratori.
Nel
73,
assoldate
delle
milizie,
s’impegnò
a
sostenere
la
guerra
contro
Mitridate
VI
re
del
Ponto.
Fece
dunque
ritorno
a
Roma.
Di
eloquio
attico
(fu
autore
di
un
trattato
sull’uso
della
lingua
nel
54),
bloccato
il
colpo
di
Stato
del
63,
in
senato
a
differenza
di
Catone
si
espresse
a
sfavore
della
condanna
capitale
dei
catilinari
superstiti:
sembra
che
assieme
a
Marco
Licinio
Crasso,
che
gli
prestava
i
soldi
necessari
a
sovvenzionare
le
proprie
campagne
politiche,
fosse
stato
vicino
a
quel
progetto
che
coinvolgeva
le
classi
deboli
(patrizi
caduti
in
disgrazia,
reduci
di
guerra,
proletariato).
Aveva
continuato
il
suo
cursus
honorum,
dopo
alcune
esperienze,
anteriormente
come
questore
nel
69
ed
edile
curule
nel
65,
fu
pontefice
massimo
nel
63
(designato
corrompendo
gli
elettori),
quindi
pretore
nel
62 e
propretore
in
Spagna
nel
61.
Emerse
nel
tempo
in
cui
il
post-sillano
Gneo
Pompeo
rinsaldava
ed
allargava
il
dominio
romano
nel
Mediterraneo
orientale
ed
in
Asia
Minore
(67-62).
In
questo
periodo
gli
introiti
annui
statali
risultavano
quintuplicati
rispetto
al
secolo
passato,
però
bastavano
a
coprire
solo
metà
della
spesa
pubblica
(il
resto
di
copertura
proveniva
da
proventi
di
guerra).
Quando
il
senato,
che
temeva
le
conseguenze
dell’accresciuta
forza
clientelare
di
Pompeo,
non
acconsentì
alle
sue
richieste
sull’approvazione
dell’assetto
politico
dato
in
Oriente
e
sui
premi
di
guerra
ai
suoi
militari,
costui
strinse
nel
60
un
accordo
di
natura
privata
con
Cesare
e
Crasso
(primo
triumvirato):
a
Crasso
spettò
una
competenza
in
Asia
Minore
ed a
Cesare
toccò
il
consolato
nel
59
ed
il
governo
quinquennale
(più
avanti
prorogato)
delle
province
galliche.
Quest’ultimo
da
console
ratificò
le
richieste
pompeiane,
assegnando
ai
suoi
veterani
terreni
demaniali
(e
togliendoli
alla
speculazione
oligarchica),
ed
in
favore
di
Crasso
attuò
la
riduzione
del
costo
delle
concessioni
sul
recupero
delle
imposte;
dispose
inoltre
che
gli
atti
delle
attività
in
senato
fossero
pubblici.
Da
proconsole
nelle
Gallie
Cisalpina
e
Narbonese
(58-50)
sottomise
l’intera
regione
barbara.
I
suoi
Commentarii
de
bello
gallico
sono
dedicati
a
questa
conquista
(58-52):
sette
libri,
redatti
forse
nel
52-51,
cui
se
ne
aggiunse
un
altro
di
un
suo
sostituto,
Aulo
Irzio,
che
narra
gli
eventi
del
51-50.
Dall’iniziale
proposito
difensivo
di
fronte
alle
pressioni
di
Elvezi
e
Svevi,
la
campagna
militare
si
tramutò
in
offensiva
(senza
la
necessaria
approvazione
del
senato):
risalito
dal
Rodano
verso
il
Reno,
occupò
la
Gallia
Belgica
e in
seguito,
girando
lungo
la
fascia
dalla
Senna
alla
Loira
alla
Garenna,
l’intero
territorio
celtico.
Dopo
aver
posto
fine
all’insurrezione
dei
Treviri
e
degli
Eburoni
(54-53),
con
la
sconfitta
dei
rivoltosi
Arverni
e la
cattura
del
loro
re
Vergingetorige
(51)
–
superato
il
reciproco
assedio
di
Alesia
–
terminarono
le
operazioni.
La
Gallia,
acquisita
all’ordine
sociale
romano,
meno
iniquo
di
quello
barbaro,
rappresentava
un’ottima
base
di
potere
grazie
alle
sue
ricchezze
umane
e
materiali.
Nel
corso
della
sua
esperienza
gallica
Cesare
si
era
spinto
sino
in
Britannia
(55
e
56)
ed
al
di
là
del
Reno.
Nel
frattempo
un
nuovo
accordo
triumvirale
a
Lucca
nel
56
aveva
prorogato
il
suo
proconsolato
di
un
altro
quinquennio,
ed a
Pompeo
e
Crasso
erano
andati
il
consolato
per
il
55 e
poi
rispettivamente
i
proconsolati
di
Spagna
e
Siria:
Crasso
sarà
ucciso
dai
Parti
in
battaglia
nel
53 a
Carre
(Haran)
mentre
cercava
di
raggiungere
successi
militari
pari
a
quelli
cesariani
e
pompeiani.
Al
termine
del
comando
in
Gallia,
tramontata
l’aspettativa
di
raggiungere
in
maniera
pacifica
il
consolato
per
il
48 –
cosa
che
in
precedenza
era
stata
convenuta
con
Pompeo
tramite
una
norma
ad
hoc
–,
Cesare
avrebbe
dovuto
rimettere
i
suoi
incarichi,
ma
dato
che
in
opposizione
al
parere
del
senato
gli
fu
negato
che
Pompeo
–
illegalmente
consul
sine
collega
nel
52 a
seguito
dell’omicidio
del
tribuno
filocesariano
Clodio
(tuttavia
col
consenso
di
Cesare
disapprovante
l’estremismo
democratico)
–
facesse
lo
stesso,
il
10
gennaio
del
49
decise
di
rompere
gli
indugi
davanti
all’alleanza
pompeiano-senatoria
e
calò
in
armi
nella
penisola
italiana
dove
era
proibito
ad
un
magistrato
in
carica
avere
un
comando
militare.
Al
passaggio
del
Rubicone,
che
segnava
il
confine
provinciale,
(forse
in
realtà
in
lingua
greca)
esclamò:
«Alea
iacta
est!».
La
visione
politica
cesariana
contemplava
la
soppressione
delle
sacche
di
privilegio
nel
sistema
romano
incentrato
sull’oligarchia
senatoria
di
origine
italica,
che
teneva
in
proprio
potere
lo
Stato,
non
sovvertendo
d’altro
canto
alla
radice
l’ordine
costituito:
occorreva
dare
spazio
di
rappresentanza
ad
ogni
classe
sociale
ed
ai
popoli
dell’impero
in
base
ad
un
criterio
di
migliore
equilibrio.
Il
suo
feeling
con
i
propri
soldati
fu
fondamentale
per
la
sua
azione
militare
e
politica
poiché
era
considerato
un
generale
ed
un
leader
obiettivo
ed
orientato
ad
incoraggiare
la
partecipazione
della
plebe
attraverso
un
ruolo
attivo
dei
tribuni.
Gli
altri
suoi
Commentarii
de
bello
civili,
la
cui
redazione
potrebbe
risalire
al
45,
sono
dedicati
al
conflitto
(49-48)
con
il
senato
e
Pompeo
(al
quale
aveva
dato
antecedentemente
in
moglie
la
figlia
Giulia
nel
60,
morta
nel
54):
altre
opere
di
completamento
storico-narrativo
sono
di
autore
ignoto.
Pompeo,
che
contava
sulle
sue
clientele
spagnole
ed
orientali,
lasciò
Roma
accompagnato
da
quasi
tutti
i
senatori,
in
gran
parte
maldisposti
verso
questa
strategia,
e
riparò
in
Grecia
a
pianificare
la
reazione.
In
quei
mesi
Cesare
s’insediò
nell’Urbe
e
batté
i
pompeiani
in
Spagna
(ne
acquisì
le
legioni
con
la
garanzia
di
un
significativo
pagamento).
Designato
console
per
il
seguente
anno,
dopo
aver
indetto
le
elezioni
con
l’ufficio
straordinario
di
dictator
comitiorum
habendorum
causa,
si
scontrò
con
Pompeo
in
battaglia:
in
inferiorità
per
numero
ed
armamenti
fu
sconfitto
a
Durazzo
nel
luglio
del
48,
ma
il 9
agosto
a
Farsalo
ottenne
una
vittoria
che
spinse
Pompeo
a
fuggire
nell’Egitto
tolemaico,
dove
sbarcato
fu
assassinato
(28
settembre)
nell’illusione
degli
uomini
di
corte
di
riuscire
graditi
a
Cesare,
che
giunto
qui
però
rese
onore
al
rivale.
Passatovi
dalle
province
d’Asia
rafforzò
sul
trono
la
posizione
di
Cleopatra
VII
–
dalla
quale
sembra
abbia
avuto
un
figlio
(Tolomeo
Cesare)
– a
discapito
dei
fratelli
Tolomeo
XIII
e
Tolomeo
XIV
(48-47).
Ottenuti
dunque
dal
senato
un
consolato
quinquennale,
la
facoltà
del
diritto
di
veto
tribunizio
(a
qualsiasi
provvedimento
pubblico)
e la
dittatura
per
un
anno
(in
qualità
di
magister
populi
indicò
suo
luogotenente,
magister
equitum,
Marco
Antonio),
sconfisse
nel
47
in
territorio
asiatico
Farnace
II
re
del
Ponto
(che
preoccupava
gli
interessi
romani),
e i
pompeiani,
nel
46
in
territorio
africano
sostenuti
dai
Numidi
(la
Numidia
fu
annessa
come
nuova
provincia)
e
definitivamente
nel
45
in
territorio
spagnolo.
Dalla
seconda
metà
del
46 –
che
vide
le
celebrazioni
a
Roma
dei
trionfi
bellici
cui
presenziarono
Cleopatra,
un
fratello,
ed
il
figlio
soprannominato
in
Egitto
piccolo
Cesare
–
sino
all’uccisione
si
dedicò
al
riordino
statale.
Assunse
l’attributo
di
imperator
nella
funzione
di
praenomen.
Nel
46
ebbe
conferito
un
incarico
dittatoriale
di
durata
decennale,
e
nel
gennaio
del
44
diventò
dittatore
a
vita
(dictator
perpetuus).
Concentrò
su
di
sé:
la
potestà
tribunizia
(il
che
gli
concedeva,
oltre
al
veto,
la
speciale
immunità
personale
ed
il
diritto
di
convocare
l’assemblea
della
plebe,
le
cui
deliberazioni
– i
plebisciti
–
avevano
valore
di
legge,
ed
il
senato);
i
poteri
della
censura
(riguardanti
il
rinnovo
degli
elenchi
dei
senatori
e
dei
cavalieri);
la
prerogativa
di
stabilire
le
candidature
dei
magistrati;
la
facoltà
di
deliberare
norme
che
impegnavano
il
senato
all’impegno
di
rispetto;
il
potere
proconsolare
di
governo,
civile
e
militare,
sulle
province
(esercitato
attraverso
delegati).
Soppresse
i
raggruppamenti
religiosi
dei
ceti
inferiori
fonte
di
divisione
ed
agitazione
sociali,
ceti
ai
quali
altresì
dimezzò
l’assegnazione
gratuita
di
alimenti;
diede
il
via
alla
costruzione
di
nuove
infrastrutture
al
fine
di
risolvere
il
problema
della
disoccupazione;
favorì
l’emigrazione
dall’Italia
verso
le
province
per
offrire
prospettive
di
vita
migliore
e
per
rafforzare
il
controllo
territoriale
(soprattutto
ad
Oriente);
estese
il
diritto
di
cittadinanza
ai
Galli;
stabilì
misure
di
estinzione
dei
debiti
che
non
tenessero
conto
della
forte
inflazione
del
denaro
(in
passato
era
intervenuto
ad
aiutare
gli
indebitati
applicando
delle
agevolazioni).
Elevò
il
numero
dei
senatori,
da
600
a
900,
per
mezzo
dell’ingresso
di
nuovi
elementi
provenienti
dalle
province
e
dall’insieme
degli
ufficiali
minori
dell’esercito
(tra
i
nuovi
alcuni
di
etnia
gallica),
e
quello
dei
questori
da
20 a
40
(questi,
eletti
da
tutti
i
cittadini,
avevano
mansioni
giudiziarie
e di
vigilanza
sulla
pubblica
finanza).
Garantì
alla
classe
equestre,
a
vocazione
affaristica,
lo
stesso
numero
di
rappresentanti
dati
alla
classe
senatoria
nelle
commissioni
di
sorveglianza
sulle
province.
Riformò
il
calendario,
da
lunare
a
solare,
ed
il
mese
di
nascita
gli
fu
intitolato
(Iulius).
Ebbe
inizio
il
culto
religioso
della
sua
persona
proseguito
dopo
la
sua
morte.
L’auspicio
cesariano
di
ammodernare
l’ordinamento
repubblicano
con
la
collaborazione
della
vecchia
oligarchia,
fondandolo
sulla
figura
di
un
princeps,
nonostante
la
sua
proverbiale
clemenza
verso
i
pompeiani
ed
il
conferimento
di
incarichi
politici
ad
esponenti
oligarchici,
non
ebbe
realizzazione
per
la
diversità
di
interessi
tra
optimates
e
populares.
Dopo
che
il
15
febbraio
del
44 a
Roma
aveva
rifiutato
la
triplice
offerta
in
pubblico
di
una
corona
fatta
dal
collega
console
Marco
Antonio,
cadde
il
15
marzo,
vittima
di
una
congiura,
dentro
l’aula
del
senato
davanti
alla
statua
di
Pompeo
–
che
aveva
fatto
divinizzare
–,
sotto
i
colpi
di
23
pugnalate
(di
cui
mortale
la
seconda
di
uno
dei
fratelli
Casca).
Allora
si
apprestava
a
due
campagne
belliche
contro
i
Parti
ed i
Daci,
che
se
vittoriose
avrebbero
consolidato
il
suo
potere,
e
ciò
non
piaceva
ai
congiurati
guidati
dai
pretori
Marco
Giunio
Bruto
e
Gaio
Cassio
Longino:
la
loro
preoccupazione
principale
era
che
Cesare
trasformasse
la
repubblica
in
una
monarchia
di
tipo
orientale
accompagnata
dalla
deificazione
del
re.
Bruto
era
nipote,
genero
ed
ammiratore
di
Catone
l’Uticense,
ma
anche
figlio
di
un’amante
di
Cesare
e
suo
sospetto
illegittimo;
vistolo
tra
i
senatori
aggressori,
probabilmente
in
greco
(e
non
in
latino),
gli
disse:
Tu
quoque,
Brute,
fili
mi».
Il
17
marzo
Marco
Antonio,
ricevuto
il
testamento
cesariano
dall’ultima
moglie
Calpurnia,
ne
diede
pubblica
lettura:
risultava
tra
l’altro
l’adozione
del
pronipote
Gaio
Ottavio
(più
conosciuto
poi
come
Augusto),
cui
lasciava
il
grosso
delle
sue
sostanze
(il
75%),
ed
il
lascito
di
300
sesterzi
ad
ogni
cittadino
dell’Urbe.
Il
20
si
tenne
la
pubblica
cerimonia
funebre
di
cremazione
del
corpo
in
mezzo
al
cordoglio
popolare,
alla
quale
seguirono
violenti
disordini.
Nel
giro
di
pochissimi
anni
tutti
i
cesaricidi
finirono
uccisi.
Cesare
in
gioventù
era
stato
autore
di
scritti
in
versi
– il
suo
corpus
ha
conservato
solo
i
Commentarii
– la
cui
diffusione
fu
scoraggiata
durante
il
principato
augusteo.
Del
46
era
un’opera
intitolata
Iter,
e
posteriore
l’Anticato,
che
demitizzava
la
figura
dell’Uticense
(il
quale
anticesariano
fino
al
suicidio
era
stato
pure
sostenitore
dell’inutilità
della
conquista
gallica).
Rimane
notizia
di
due
raccolte
cesariane:
le
Epistulae
(ad
Senatum,
ad
Ciceronem,
ad
Familiares)
e le
Orationes.
Dal
suo
cognomen
latino
–
Caesar,
assorto
a
titolo
imperiale
romano
–
hanno
avuto
origine
etimologica
gli
appellativi
di
kaiser
e
zar.