Storia del comune di Gaiole in
Chianti
Il centro del Chianti
di Francesco Giannetti
Tracce di insediamenti umani nel
Chianti le troviamo sin dalla più
lontana preistoria, più evidenti
certamente quelle di Cetona, dove
nelle grotte dell’antichissimo
vulcano si sono rinvenuti reperti
importantissimi dell’epoca
paleozoica, con moltissimi manufatti
dell’era preistorica; ma non è da
meno quanto si è scoperto nella cava
di lignite di Bossi, per la strada
che conduce a San Felice, ai limiti
dell’antichissimo lago del Miocene.
Qui forse esisteva una palude
residua nelle cui prossimità, come
dimostrano i rudimentali strumenti
trovati misti alle scaglie della
lignite estrattiva, c’era un
antichissimo villaggio.
Le viti fossili inserite nelle falde
di travertino di San Vivaldo,
secondo i geologi, risalgono a
un’era immediatamente precedente a
quella in cui apparve l’uomo sulla
Terra, ma si tratta di vitis
vinifera, che ritroveremo in
fossili più recenti del Paleolitico
superiore; ciò conferma come già
nella più tarda antichità questa
pianta esistesse, se non addirittura
già coltivata dai primi agricoltori.
Epoca Etrusca e Romana
Reperti di civiltà più recente,
quella etrusca, si ricordano fino
dal XVI secolo, quando nel 1500 fu
scoperto casualmente un sepolcreto
nei pressi di Castellina in Chianti.
L’ipogeo di Castellina risale al VII
secolo a.C. ma non è il solo, perché
altri sepolcreti etruschi sono stati
trovati in tempi recenti a Brolio, a
San Marcellino, a Cacchiano e in
numerose altre località e dimostrano
come gli etruschi abitarono quasi in
ogni parte della zona del Chianti.
Ma a queste località, già conosciute
in passato, se ne sono aggiunte
recentemente molte altre che hanno
contribuito a una conoscenza più
vasta corrispondente al periodo
storico della civiltà arcaica, come
quella di Cetamura del Chianti.
“Valle del Chianti”, così nel
Medioevo veniva chiamato l’ampio
bacino del torrente Massellone, il
corso d’acqua che scaturisce dal
poggio di Montegrossi, bagna Gaiole
e scorre poi sino a confluire
nell’Arbia al ponte alle Granchiaie,
in prossimità del castello di
Tornano. La vallata del Massellone
copre gran parte dell’attuale
territorio del comune di Gaiole,
dove non a caso, sono ubicate le
località per le quali possediamo le
prime attestazioni documentarie che
fanno menzione del territorio
“Chianti”. La più antica di esse
risale all’ultimo decennio del XII
secolo: si tratta di un documento
dell’Archivio dell’Abbazia di
Coltibuono nel quale, riferendosi a
un non meglio precisato castello, si
dice che esso è posto “in
Clanti…anteposto Montegrosso”. Fanno
poi egualmente riferimento località
situate nella valle del Massellone
documenti di natura fiscale o
amministrativa del XIII secolo che,
ai fini di una migliore
identificazione dei luoghi, imputano
gli stessi a una più vasta entità
territoriale, a un comprensorio, il
Chianti appunto.
Sulla base di ciò si può ipotizzare
che originariamente “Chianti” sia
stato il nome del torrente
Massellone ed abbia così fatto
nascere l’espressione “valle del
Chianti”. I nomi dei corsi d’acqua,
infatti, sono quelli che più
tenacemente si conservano, tanto che
non pochi fiumi e torrenti otscani
sono riconducibili a etimi etruschi
o a basi mediterranee. E Chianti, è
altamente probabile e verosimile che
risalga alla base “-CLAN”, tipica di
una serie di idromi particolarmente
concentrati nella zona aretina e
fiorentina. Si comprende quindi
perché nella valle del Massellone o
del Chianti che dir si voglia,
abbondino le testimonianze
archeologiche e toponomastiche
attestanti l’antichità di
insediamento nella zona, nonché la
stabilità dei punti insediativi. Per
i nomi di luogo ad esempio, è
particolarmente presente la
stratificazione linguistica etrusca,
con i vari Rietine, Rufena, Vertine,
Spaltenna, Perano, Rentennano ecc.;
e notevole è anche la diffusione dei
toponimi derivati da personali
latini, con la caratteristica
terminazione “prediale” in “-ANO”:
Bricciano, Buriano, Cacchiano,
Lucignano, Metrano, Nebbiano.
Circa i ritrovamenti archeologici,
non è un caso che proprio all’inizio
della vallata del Massellone, a
Cetamura, sia stata appurata
l’esistenza del più importante
stanziamento etrusco-romano della
regione chiantigiana. Individuati
nel 1964b da Alvaro Tracchi, i resti
dell’abitato si trovano all’inizio
dello sperone che dalla dorsale
principale dei monti del Chianti si
dirige verso Castellina. La prima
grande fioritura è databile intorno
al III secolo a.C., epoca alla quale
risalgono i resti di una fornace di
laterizi individuata nella zona nord
dell’abitato. Nata come sito di
altura, evidentemente con intenti
difensivi, Cetamura in età romana
assunse un ruolo di centro
commerciale, trovandosi all’incrocio
del percorso di crinale che
collegava il Chianti con Volterra,
con l’antico itinerario svolgentesi
lungo tutto lo sviluppo della catena
chiantigiana, che conduceva da
Chiusi a Marzabotto, attraverso
Pistoia e il valico Porretta.
Del periodo romano di Cetamura si ha
la testimonianza di una villa eretta
sulla cima dell’ “arce”, messa in
evidenza dagli scavi diretti dalla
dottoressa Nancy Thomson de Grummond
della Florida State University, nel
corso dei quali è stato individuato,
tra l’altro, un impianto termale del
II secolo d.C.; con tanto di
tepidarium e di calidarium.
L’archeologia ha inoltre confermato
la frequentazione del sito di
Cetamura per buona parte dell’età
medievale, come del resto è
attestato da documenti del XII
secolo che ricordano la località
come sede di un “castrum”.
Tra gli altri ritrovamenti
archeologici avvenuti nella valle
del Massellone emergono per la loro
importanza quelli pertinenti a una
villa romana “alquanto estesa e
lussuosa”, che doveva sorgere presso
la pieve di San Marcellino. La
chiesa stessa, seppur ricostruita
ex-novo nell’Ottocento, dimostra di
aver riutilizzato colonne di marmo
pregiato e capitelli corinzi di
marmo bianco provenienti dalla
villa. Altri capitelli e colonne
erratiche sono poi conservati nella
canonica, mentre fabbricati annessi
alla chiesa provengono due cippi con
iscrizioni databili intorno al I-II
secolo d.C.
Il Medioevo
La continuità degli insediamenti
dall’antichità all’alto medioevo è
testimoniata dalle prime fonti
scritte, essendo documentata
l’esistenza nel territorio di pievi,
cioè di chiese che funsero da poli
aggregativi della popolazione
rurale, adeguandosi alla tipologia
insediativa altomedievale imperniata
sul villaggio, piccolo agglomerato
formato da poche modestissime case,
nel quale vivevano i coltivatori.
L’organizzazione ecclesiastica del
territorio, andò infatti costellando
la campagna di pievi, cioè di chiese
rurali che per lo più sorsero, non
in corrispondenza del villaggio
demograficamente più consistente,
bensì di quello più agevolmente
raggiungibile dalle popolazioni dei
villaggi all’intorno, in quanto
posto sulla principale via di
comunicazione transitante per il
territorio sottoposto al governo
religioso della pieve.
Nella campagna gaiolese si
costituirono in età altomedievale
cinque chiese plebane: San Vincenti,
San Marcellino, San Pietro in
Avenano, San Polo in Rosso e San
Giusto in Salcio. Già nel 715
troviamo infatti menzionata la pieve
di San Vincenti, mentre risalgono
alla seconda metà del X secolo i
documenti che ricordano per la prima
volta le pievi di San Marcellino e
San Pietro in Avenano. Sono
successive al Mille le prime notizie
riguardo alle altre due chiese
plebane, sebbene non sia improbabile
una loro maggiore antichità.
A eccezione della pieve si San
Marcellino, che come abbiamo
accennato fu radicalmente
ricostruita nell’Ottocento, tutte le
altre chiese si presentano oggi
nella veste loro conferita dal
generale rinnovamento che a partire
dall’XI-XII secolo interessò anche
il Chianti l’edilizia religiosa.
Tutte le pievi ricordate sono così
accomunate dal possedere un identico
impianto basilicale, a tre navate,
divise da pilastri e concluse da una
o tre absidi. Comune è anche il tipo
di copertura lignea, fatta eccezione
per la pieve di San Polo in Rosso,
che nella seconda metà del Trecento
sostituì le capriate con ogivali
volte a crociera che conferirono
all’edificio un aspetto
romanico-gotico. Con ogni
probabilità nella stessa occasione a
San Polo in Rosso fu realizzata, un
ciclo di affreschi con scede della
vita di Cristo e della sua Passione,
che mostrano assonanze con la
pittura di Bartolo di Fedi e di Luca
di Tommè.
In tutte le pievi è rilevabile una
notevole accuratezza dei
rivestimenti murari, sempre
realizzati a regolari filaretti di
bozze di alberese ben scalpellinate.
L’assenza di motivi decorativi fa sì
che la preziosità del paramento
murario costituisca l’unica forma di
ornamentazione. Anche i campanili
hanno caratteri non dissimili nelle
varie chiese, essendo sempre
costituiti da semplici torri,
naturalmente sempre rivestite
accuratamente a filaretti di
alberese, la bella pietra calcarea
locale, con cella per le campane
alla sommità. Eccezionalmente
conservate sono le torri campanarie
delle pievi di Spaltenna e di San
Polo in Rosso. Quest’ultima tra
l’altro, si trovò a fungere da
cassero castellano quando nel
Quattrocento la pieve fu inserita
entro una fortificazione che fece
assumere al complesso l’aspetto di
un vero e proprio fortilizio.
Il territorio gaiolese si distingue
per aver conservato più di altre
zone del Chianti, una diffusa
testimonianza dell’insediamento
rurale tipico dell’età pre-comunale.
Numerosi villaggi, infatti, ancora
punteggiano la campagna,
alternandosi alle case coloniche
isolate, frutto della successiva
evoluzione della struttura agraria.
Ama, Adine, Casa Nuova di Ama,
Galenda, San Marcellino, San Sano,
Rietine, Fietri, Linari, Nusenna,
Starda, ancora conservano la modesta
consistenza urbana del piccolo
villaggio medievale e talvolta anche
case-torri o costruzioni
due-trecentesche di notevole rilievo
come a San Sano e a Galenda.
I villaggi ci permettono anche di
verificare la capillarità della
diffusione delle manifestazioni del
rinnovamento dell’edilizia religiosa
nel periodo romanico, e di
constatare come essa avvenne ovunque
con le stesse modalità, di alto
livello qualitativo. Non di rado ci
è dato infatti di scoprire
all’interno dei villaggi che abbiamo
menzionato le primitive chiesette
rurali, dipendenti dalle pievi. Si
tratta di piccoli edifici ad aula
absidata che si caratterizzano
anch’essi per la perfetta esecuzione
delle varie componenti
architettoniche. Esempi giunti a noi
perfettamente integri sono
rilevabili ad Adine, a San Sano, a
San Marcellino, e ad Ama.
A Casanuova di Ama si conserva anche
una quattrocentesca cappella
stradale affrescata con un ciclo
pittorico rappresentante una
“Maestà” che per la grandiosità
della composizione e i caratteri del
disegno, si richiama alla pittura
fiorentina del primo Rinascimento.
Sulla parete di fondo si staglia la
figura della Madonna col Bambino in
trono, con ai lati due angeli, San
Michele Arcangelo e San Francesco,
mentre lungo le pareti laterali è
raffigurata tutta una serie di Santi
scelti in ordine ai bisogni
religiosi della popolazione
contadina: Sant’Antonio Abate con ai
piedi un maialino cintato, Santa
Lucia con i simboli del martirio,
San Giovanni Battista, San Pietro,
l’Evangelista Luca e Santa Maria
Maddalena.
A partire dall’XI secolo, accanto ai
piccoli villaggi rurali fecero la
loro comparsa nuove realtà
insediative: i castelli. Essi
nacquero per lo più in
corrispondenza dei centri della
proprietà agraria signorile e si
caratterizzarono per essere dotati
di un apparato difensivo costituito
da cinte murarie rafforzate da
torri. Già nella prima dell’XI
secolo sono ricordati come sedi
castellane Brolio, Montegrossi,
Vertine, Barbischio e Lucignano; in
seguito si aggiungeranno Tornano,
Castagnoli, Cacchiano, Campi,
Monteluco di Lecchi, Monteluco della
Berardenga, Montecastelli e Stielle.
Seppur espressione della piccola
aristocrazia rurale, i castelli in
questione nel XII secolo facevano in
qualche modo capo alle grandi
famiglie comitali dei Guidi, degli
Alberti e dei Berardenghi, o ai
locali e potentati come la
consorteria dei Firidolfi, nella
quale è da collocare l’origine dei
Ricasoli. Ma nel corso dello stesso
secolo la crescita dei Comuni di
Firenze e di Siena, con la sconfitta
del feudalesimo determinò la
sottomissione dei “signori di
castello” chiantigiani, e gli stessi
Firidolfi, da fieri oppositori,
divennero i principali alleati della
Repubblica fiorentina.
All’inizio del Duecento, con il
“Lodo di Poggibonsi”, il formarsi
nel Chianti di una precisa linea di
confine tra gli stati fiorentino e
senese, fece sì che non pochi dei
castelli ricordati divennero i punti
forti dell’organizzazione difensiva
gigliata nel Chianti. La successione
dei fortilizi fiorentini iniziava da
Brolio e per Montecastelli,
Rentennano, Cacchiano, Tornano e
Monteluco a Lecchi, giungeva sino
alla pieve di San Polo in Rosso,
fronteggiando le fortezze senesi di
Aiola, Selvole, Cerreto, Sesta e
Cetamura.
Seppur rimaneggiati in più epoche
per motivo dei danneggiamenti subiti
nel corso delle ricorrenti guerre
tra Firenze e Siena o per successivi
cambiamenti di destinazione, la
maggior parte dei castelli del
territorio gaiolese ancora conserva
consistenti strutture degli apparati
difensivi medievali. Sempre,
comunque le murature superstiti sono
cronologicamente collocabili nel
Due-Trecento e in alcuni casi, a
un’epoca ancora più tarda.
Fa eccezione il fortilizio di
Montegrossi che, per essere stato, a
partire dalla seconda metà del XII
secolo, uno dei punti di appoggio
dell’autorità imperiale in Toscana,
anche se ridotto allo stato di
rudere, denuncia nei suoi caratteri
stilistici e nell’imponenza delle
sue strutture, una maggiore
antichità e una qualità
architettonica decisamente
superiore, quale si conveniva a un
edificio che costituiva un emblema
del potere dell’Imperatore.
Di alcuni castelli non rimangono che
pochi, suggestivi ruderi: vedi
Monteluco della Berardenga, e
Montecastelli. Altre volte le
strutture superstiti sono modeste:
vedi Barbischio, Campi e Lucignano.
In tutti questi casi per
ricostruire, anche se con larga
approssimazione, i caratteri delle
antiche fortificazioni, non possiamo
che rifarci alla preziosa
testimonianza iconografica delle
cinquecentesche “Mappe di Popoli e
Strade” della Magistratura
fiorentina dei Capitani di Parte
Guelfa. Ma vi sono anche castelli
che hanno conservato consistenti
residui dell’antico apparato
fortificatorio: Vertine, Castagnoli,
Monteluco di Lecchi, Tornano,
Cacchiano ancora posseggono, in
maggiore o minore misura, le cinte
murarie che richiudevano gli
abitati, le torri di difesa e i
poderosi casseri in cui si
ritiravano i difensori quando gli
assedianti fossero riusciti a
forzare le mura. Vertine, in
particolar modo, mostra ancora nel
suo impianto approssimativamente
ovale, la struttura urbana
originaria, con il tessuto abitativo
due-trecentesco, anche di notevole
qualità, disposto attorno a un
anello interno di strade e di
slarghi. Lo stesso può dirsi di
Castagnoli e di Monteluco di Lecchi,
anche se minore è la consistenza
urbana dei due abitati, entrambi
ugualmente racchiusi entro un
circuito murario presso a poco
ellittico.
Ancora diverso è il caso di Meleto,
che non fu propriamente un castello,
bensì una residenza padronale
fortificata di pertinenza dei
Ricasoli. Siamo stavolta difronte a
un insediamento che più di qualunque
altro nel Chianti evoca una
struttura castellana, presentandosi
come una grande costruzione
quadrilatera dalle alte muraglie
rafforzate agli angoli da torri
cilindriche o da ballatoi sporgenti
sostenuti da mensole. Ma a un
attento esame delle murature ci si
rende conto come il complesso sia il
frutto di una serie di successivi
ingrandimenti che portarono la
primitiva casa-torre duecentesca,
ora all’interno del quadrilatero, a
dotarsi di cinte murarie sempre più
ampie e nel Quattrocento
all’aggiunta delle torri cilindriche
e dei ballatoi.
Infine, Brolio, senza dubbio il più
famoso castello chiantigiano,
anch’esso appartenente ai Ricasoli.
Per la sua posizione strategica, ai
margini del contado fiorentino e a
solo poche miglia da Siena, Brolio
fu particolarmente munito dalla
repubblica gigliata che, sul finire
del Quattrocento, ne fece una delle
prime fortezze bastionate della
Toscana, all’interno delle quali
furono accolte le primitive
fortificazioni duecentesche. È
rimasto pressoché integro con il suo
grandioso circuito murario scarpato,
a forma di pentagono irregolare
rinforzato agli angoli da cinque
bastioni: le mura hanno uno sviluppo
di ben 450 metri e un’altezza
variabile tra i 14 e i 16 metri.
Per completare il quadro degli
insediamenti medievali del nostro
territorio rimane da accennare a
quelli relativi a due altri tipi di
enti ecclesiastici, entrambi legati
alla presenza di comunità di
religiosi: le chiese monastiche e le
chiese canonicali. A parte il
piccolo cenobio femminile di San
Giusto a Rentennano, sul cui sito
sorge oggi una fattoria la cui
costruzione ha inglobato i pochi
resti del monastero, l’unico
complesso monastico esistente nel
territorio di Gaiole è rappresentato
da San Lorenzo a Coltibuono, che fu
una delle principali abbazie della
congregazione vallombrosana.
Soppresso nel 1810 e successivamente
trasformato in fattoria, il cenobio
ha però conservato i caratteri
dell’insediamento monastico, con il
chiostro e i diversi ambienti che un
tempo ospitavano i monaci. Gli
accrescimenti e gli abbellimenti
frutto delle ristrutturazioni
susseguitosi nel corso dei secoli
nascondono quasi ovunque le
strutture medievali, che invece sono
ancora ben visibili nella chiesa,
una bella costruzione romanica a
un’unica navata, con pianta a croce
latina e transetto absidato.
All’incrocio della navata con il
corpo trasversale della chiesa si
eleva una cupola, sormontata da un
tiburio quadrangolare con una
singolare copertura a pagoda. Una
possente torre campanaria si eleva
tra il braccio sinistro del
transetto e la navata: le sue
eccezionali dimensioni l’assimilano
piuttosto a un cassero e
all’occorrenza, è assai probabile
dovesse svolgere funzioni difensive.
Assai più modesta è in genere la
consistente dimensionale delle
chiese che in epoca medievale
ospitarono delle piccole comunità
canonicali. Si tratta di edifici
religiosi che per grandezza, non si
discostano molto dalle chiesette dei
villaggi: vedi le canoniche di
Mello, Sereto e Monteluco a Campi,
edifici ad aula che hanno
sostanzialmente conservato gli
originali caratteri romanici solo
parzialmente modificati dai
successivi rimaneggiamenti. Fa
eccezione la canonica di San Pietro
in Avenano, già pieve come abbiamo
visto, che possiede una struttura
basilicale a tre navate. La chiesa
presenta poi un’altra particolarità:
sebbene ricostruita nei primi
decenni del XVI secolo, ha caratteri
gotici nella successione dei
pilastri ottagoni che la spartiscono
in tre navate e nella copertura,
realizzata mediante ogivali volte a
crociera.
Sino a tutto il XII secolo il
toponimo “Gaiole” costituiva un
semplice “luogo detto”, un modesto
agglomerato rurale situato alla
confluenza del Borro Grande con il
torrente Massellone. Il villaggio
nel corso del Duecento acquistò
sempre più importanza: trovandosi in
posizione baricentrica nei confronti
dei castelli che punteggiavano le
colline intorno (Barbischio,
Vertine, Castagnoli, Montegrossi) vi
furono infatti trasferiti i mercati
che sin dal 1077 è documentato si
tenevano presso il castello di
Barbischio. Poi a partire dai primi
anni del XVI secolo, la crescita fu
ulteriormente favorita dalla
costruzione della “Lega del
Chianti”, nella quale Gaiole sarebbe
divenuto capoluogo di “Terziere”.
Gaiole nacque quindi come luogo di
mercato e dovette la sua fortuna al
fatto di trovarsi in un punto
particolarmente felice, in un’area
cioè ad ampio respiro, sulla strada
che risaliva la dorsale chiantigiana
per poi digradare nel Valdarno
superiore, all’incrocio con le vie
che conducevano ai principali
abitati dell’ampia valle del
torrente Massellone.
Già nel 1215 sembra attestata la
presenza di un mercato a Gaiole, in
una pergamena dell’abbazia di
Coltibuono la località trovandosi
menzionata quale sede di “forum”,
mentre nella seconda metà del
Duecento è documentata la
sorveglianza del mercato gaiolese da
parte del Comune di Firenze, come
provano le “Consulte della
repubblica”, che contengono atti del
Governo fiorentino riguardanti
l’assegnazione della gestione del
mercato stesso.
Ancor oggi Gaiole, disteso lungo la
strada che porta al Valdarno, ha un
abitato che si apre a formare una
grande piazza centrale a forma di
imbuto, con ciò denunciando
chiaramente di essersi strutturato
sull’area di un mercatale. Questa
caratteristica conformazione urbana
è testimoniata alla fine del
Cinquecento dalle “Mappe di Popoli e
Strade” dei Capitani di Parte
Guelfa, che rappresentano il borgo
di Gaiole con la configurazione
tipica dei mercatali, evidenziata
dalla oblunga piazza centrale e dai
dettagli delle stesse unità
abitative, molte delle quali sono
raffigurate con le aperture degli
sporti delle botteghe in facciata.
Un’attenta lettura della planimetria
dell’abitato, specie nella versione
offerta dalla mappa catastale del
1832 consente di individuare nel
tessuto urbano di Gaiole addirittura
due aree destinate a un mercato: una
sulla sinistra del Massellone, è
rappresentata dalla grande piazza
che ancor oggi costituisce il fulcro
dell’insediamento; l’altra anch’essa
grossolanamente imbutiforme, è
ubicata più a monte, sulla destra
del torrente. Quest’ultima
costituisce il primitivo mercatale,
come attestano i caratteri
architettonici due-trecenteschi di
molti edifici di questa parte
dell’abitato che mostrano elementi
tecnico-decorativi d’impronta
medievale, del tutto assenti invece
nelle costruzioni che si affacciano
sull’altra piazza, evidentemente più
recente.
La mappa ottocentesca, se
raffrontata con la situazione
odierna, testimonia anche dello
sviluppo urbano che ha interessato
Gaiole, specie dopo la seconda
guerra mondiale, determinando la
dilatazione del tessuto abitativo,
grazie al quale il paese si è
arricchito anche di edifici pubblici
nonché della neoromanica chiesa
parrocchiale di San Sigismondo,
eretta nei primi anni del Novecento
con il concorso di tutto il popolo
gaiolese.
Età Moderna
Con l’affermarsi della struttura
agraria moderna a base poderile, la
rete degli insediamenti andò
modificandosi per il diffondersi
delle case isolate, “su podere”. Già
a partire dal Due-Trecento, il
territorio gaiolese andò
punteggiandosi di “case da padrone”
e “case da lavoratore”, che si
aggiunsero ai villaggi rurali e ai
castelli, talvolta sostituendosi a
essi. Esempi di turrite case
padronali del medioevo,
successivamente declassate a case
coloniche, sono a Monteluco di
Lecchi, Cancelli, Le Morelline,
Monte Lodoli, Tarci, Le Selve,
Camporata; ma tracce di costruzioni
signorili due-trecentesche sono
riconoscibili anche altrove,
inglobate in edifici che hanno
riutilizzato le loro strutture.
La successiva trasformazione del
sistema poderile in sistema
fattoria, per l’accentuarsi delle
componenti capitalistiche della
struttura agraria, porterà alla
sostituzione delle case-torri
padronali con costruzioni più ed
articolate, a sviluppo
prevalentemente orizzontale. Negli
esempi più antichi, come il grande
edificio di San Pietrino presso
Avenano, verrà conservato l’elemento
turrito, ma in seguito, a partire
dal XVI secolo, le case da padrone
abbandoneranno ogni riferimento
all’edilizia medievale e daranno
vita a costruzioni a impianto
quadrangolare, con tetti a
padiglione e con le facciate
scandite dall’ordinata disposizione
delle aperture, secondo moduli
stilistici d’impronta chiaramente
rinascimentale.
Nasceranno così grossi complessi che
in taluni casi occuperanno i siti
già occupati da castelli e villaggi:
i manieri di Cacchiano e di Brolio
ospiteranno così le omonime
fattorie, entrambe dei Ricasoli,
trasformando e integrando le
strutture medievali degli antichi
fortilizi. Nel caso di Brolio poi si
avrà l’ulteriore intervento
ottocentesco, a opera di Bettino
Ricasoli, che stravolgerà
completamente la preesistente casa
di fattoria facendola divenire un
castello neo-gotico, peraltro di
pregevole fattura, su progetto
dell’architetto Pietro Marchetti. A
San Donato in Perano e a Vistarenni,
entrambi documentati come
villaggetti ancora all’inizio del
Quattrocento, i modesti edifici che
componevano i due piccoli
agglomerati rurali saranno
sostituiti da due grandi fattorie.
Nelle “Mappe di Popoli e di Strade”
dei Capitani di Parte Guelfa, alla
fine del Cinquecento, in
corrispondenza di San Donato in
Perano è già raffigurata una
costruzione signorile, indicata come
“Palazzo de GiouaniStrozi”, nucleo
più antico della grandiosa casa di
fattoria che nel XVII secolo
ingloberà anche la chiesetta e gli
altri edifici a essa contermini. Lo
stesso accadde a Vistarenni, dove in
luogo del villaggio sorgerà un
grande edificio quadrilatero,
probabilmente a opera della famiglia
chiantigiana dei Pianigiani, che nel
1714 ne acquisì la proprietà. Poi
nei primi del Novecento, la casa di
fattoria venne “ammodernata” dai
nuovi proprietari, i Sonnino, che
aggiunsero la scenografica facciata
dal ricco apparato decorativo.
A Meleto le trasformazioni della
grande casa padronale fortificata
riguardarono soprattutto l’interno e
l’organizzazione dell’ambiente tutto
intorno. Ma qui più che l’aggiunta
di locali funzionali all’attività
produttiva, si badò ad arricchire la
dimora signorile, realizzando tutta
una serie di sale con decorazioni in
stucco ed affreschi e costruendo
addirittura un piccolo teatro. Il
proprietario Giovan Francesco
Ricasoli, progettò egli stesso nel
1738 la trasformazione che fece del
turrito maniero di Meleto una “villa
di delizia”.
Ma non mancarono i casi in cui si
preferì costruire ex-novo gli
edifici: è quello che avvenne ad
esempio, a Castagnoli dove nel
Settecento i Tempi, la facoltosa
famiglia fiorentina che ne era
proprietaria, realizzò l’abitazione
padronale a lato dell’antico
castello, dirottando nei locali di
quest’ultimo gli ambienti e le
attrezzature per la trasformazione e
conservazione dei prodotti. Un altro
esempio di fattoria che non nacque
sovrapponendosi a un insediamento
preesistente è offerto da “La
Torricella”. Anche se
successivamente declassata a casa
colonica, l’edificio ha conservato
il regolare impianto geometrico
delle costruzioni signorili del
Cinquecento, con l’ordinata
disposizione delle aperture dotate
delle caratteristiche membrature in
arenaria, così come del resto appare
nelle “Mappe di Popoli e Strade” dei
Capitani di Parte Guelfa.
Rifacimenti che implicarono la
realizzazione di nuove costruzioni
si ebbero anche nelle case di
fattoria che, a partire dal XVII
secolo, si costituirono ad Ama dove,
a opera dei Ricucci nel Settecento,
e dei Pianigiani e dei Montigiani,
nel secolo successivo, vennero a
esistenza tre ville-fattorie che
nella loro sobri eleganza formale si
rifanno alla tradizione
architettonica toscana, ripetendo
moduli ormai entrati a far parte
della coscienza artistica anche
delle più modeste maestranze
provinciali.
Con l’assestarsi del sistema di
fattoria andò prendendo consistenza
anche il patrimonio edilizio delle
case coloniche “su podere”, per
l’innanzi prevalentemente costruito
da edifici precari, quali erano le
cosiddette “case di terra” e le
dimore realizzate in materiali
vegetali. Il modello a cui ci si
rifece nel costruire case per
“lavoratori” fu offerto dalle “case
del padrone” due-trecentesche
declassate: si avranno così
costruzioni che nel loro impianto
plano-volumetrico ripeteranno, a
grandi linee e con scala ridotta, lo
schema delle case-torri. Su tale
nucleo originario si aggiungeranno
in seguito altri ambienti, in
relazione al mutare delle esigenze
produttive o all’accrescersi dei
membri della famiglia colonica,
tanto che gli edifici assumeranno i
caratteri delle costruzioni definite
“a crescita continua”. Queste case
coloniche all’impianto “organico”,
frutto del sommarsi delle aggiunte e
degli adattamenti, sono il più
diffuso: in esse la libera
distribuzione delle masse, che si
giustappongono e s’intersecano, crea
spesso gradevoli effetti
pittoreschi.
L’edilizia rurale riceverà un
ulteriore impulso a partire dalla
seconda metà del Settecento, con il
rilancio dell’agricoltura,
particolarmente favorita dalla
politica dei Lorena. Furono gli anni
in cui quei “buoni possessori
grossi”, particolarmente elogiati
dal granduca Pietro Leopoldo in
occasione della sua visita nel
Chianti nel 1773, si impegnarono a
rinnovare le loro case coloniche,
secondo i tipi elaborati dalla
cultura architettonica ufficiale.
Nasceranno così edifici dalle forme
regolari e volumetricamente
definite: masse compatte spesso
sormontate da un a torretta, con uno
schema che varierà solo per le
diverse soluzioni di superficie nel
prospetto principale, a seconda
della disposizione delle finestre e
dei loggiati. Siamo di fronte a una
produzione edilizia che denuncia
chiaramente di essere stata
realizzata sulla base di una
progettazione preliminare, del tutto
assente in precedenza. I Tempi di
Castagnoli furono tra i più solerti
nell’opera di rinnovamento, come
ancora attestano le case coloniche
della loro fattoria, che non di rado
recano ancorai cartigli con scolpita
la data della loro costruzione.
Nell’Ottocento proseguirà l’attività
edilizia, specie da parte delle
maggiori fattorie: l’agricoltura
chiantigiana cominciò infatti a
risentire della “rivoluzione
agraria” in atto in tutta Europa e
la struttura produttiva, pur
rimanendo ancora alla mezzadria,
tese a trasformarsi ancor in più in
senso capitalistico. Non a caso
proprio in questo periodo nacque il
moderno vino Chianti, a opera del
barone Bettino Ricasoli, e vennero
ulteriormente promossi i commerci su
larga scala. Di qui i consistenti
investimenti di capitali
nell’agricoltura, che porteranno a
nuovi dissodamenti e appoderamenti,
nonché alla realizzazione di
piantagioni di viti e olivi, per lo
più con sistemazioni del terreno
mediante quei costosissimi
terrazzamenti che riplasmarono i
dorsi di intere colline con
grandiose opere quasi del tutto
distrutte recentemente per far posti
ai moderni vigneti.
Naturalmente gli investimenti
comportarono anche il prosieguo del
rinnovamento dell’edilizia rurale,
secondo le stesse modalità
architettoniche affermatesi nel
Settecento, come è ampiamente
documentato ad esempio, dalle case
coloniche delle fattorie di Brolio e
di Coltibuono.
Riferimenti bibliografici: