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N. 32 - Agosto 2010 (LXIII)

UCCIDETE QUELL’UOMO
GAETANO COSTA 30 ANNI DOPO

di Giuseppe Tramontana

 

Eroe è chi fa quello che può.” (R. Rolland, Jean-Christophe)

Non fosse che per un solo giusto, il mondo meritava di essere creato.” (Talmud)

Fa caldo a Palermo, il 6 di agosto. Un caldo sciroccoso. “Scirocco quagghiato”, lo chiamano i palermitani, grumoso, appiccicoso come cotognata, che si attacca alla pelle, ai pensieri, che rende le palpebre pesanti, pesanti…

In quel 6 agosto, verso le 19 di sera, un uomo distinto, ben vestito, si trova accanto ad una bancarella di libri, nella centralissima Via Cavour.

Non abita lontano. Alle spalle di quella via famosa, c’è l’ancora più famosa Via Maqueda. Non molto distante un’altra via, questa volta tristemente famosa: Via Isidoro Carini.

L’uomo, apparentemente sulla sessantina, alto, capelli all’indietro, sta sfogliando alcuni libri. È un uomo di cultura, potrebbe essere un insegnante o persino un professore universitario.

Di fronte, il cinema Excelsior. La via echeggia di auto, moto, delle canzoni dell’ultimo festival di Sanremo: siamo ormai ad agosto, ma Alice con la sua Per Elisa, vincitrice al festival, si suona ancora.

Una 112 celeste si ferma accanto al marciapiede, proprio alle spalle dell’uomo. Un ragazzo, tra i 18 e i 23 anni, dirà un testimone, ne scende. In mano stringe una pistola. Con due salti gli è proprio addosso. E spara.

Uno, due, tre colpi. L’ultimo gli sfigura il viso. L’uomo cade bocconi, rantola. Morirà dissanguato nel giro di pochi secondi. Il killer si allontana indisturbato. La 112 verrà ritrovata alla periferia della città qualche ora dopo.

Chi è quel signore ammazzato così, a tradimento, sotto i colpi di un killer di Cosa Nostra?

È Gaetano Costa, il Procuratore capo della Repubblica di Palermo. Muore come sono morti tanti, come tanti altri dopo di lui. Muore sul marciapiede di una via centrale di Palermo, mentre sfiora le copertine di alcuni libri usati e con l’odore denso dello scirocco che gli impregna i vestiti.

Ma, soprattutto, muore solo. Solo. Senza protezione, senza scorta. Lui, l’unico che all’epoca avrebbe potuta averla, pare ci abbia rinunciato per non metterla in pericolo.

La moglie, Rita Bartoli Costa, invece, racconterà nel libro dedicato al marito, Una storia vera a Palermo (Sciascia editore, 2001), che il 6 agosto erano iniziate le ferie per loro.

L’indomani, il 7, sarebbero partiti per Vulcano.

Il 6, insomma, era il giorno dell’organizzazione della partenza. “Alla Questura – scrive la signora Costa – era stato deciso che durante il viaggio per Vulcano saremmo stati scortati fino a Milazzo dalla Polizia, dove quest’ultima ci avrebbe dato in consegna ai carabinieri di quella cittadina, che ci avrebbero dovuto scortare fino a Vulcano consegnandoci infine ai carabinieri dell’isola…

Ricordo che fu il capo della Squadra mobile a comunicargli quella decisione di tutela per il periodo delle vacanze: non capivo, qualcosa non era chiaro, come un vuoto, uno strano vuoto per la mancanza di un progetto di tutela per il ritorno”.

Uno strano vuoto. Molto strano. Se si considera che siano ad agosto, che gli uomini a disposizione sono ridotti al minimo per le ferie e che stiamo parlando della tutela dell’uomo più in vista nella lotta alla mafia.

Sembra quasi che la moglie adombri l’ipotesi di un complotto: non è stata prevista una scorta di ritorno perché tanto non sarebbe servita….

Ha 64 anni il Procuratore Costa ed una vita in magistratura. È nato nel 1916 a Caltanissetta, ha fatto la resistenza tra le file del PCI clandestino, e agli inizi del ‘40 è entrato in magistratura.

Giudice, dapprima a Roma, poi a Caltanissetta dal ‘44 al ‘65, infine a Palermo. Procuratore capo dal gennaio 1978.

Era un siciliano di provincia anche lui. Schivo, riservato, acuto. Appena giunto nella capitale siciliana aveva capito due cose: 1) che non si poteva parlare di mafia se non si parlava di poteri pubblici; 2) che la mafia andava colpita, sì, certo, con la repressione, ma soprattutto negli interessi economici giacché sono questi che fanno lievitare il suo potere.

Aveva capito, come pochi altri in quel periodo assieme a lui, che la mafia si stava trasformando.

Stava diventando, anzi si stava inventando imprenditrice, quella dei ‘colletti bianchi’, che andava a braccetto con i politici, che frequentava i salotti buoni, che aveva la faccia rispettabile e volitiva dei capitani d’industria.

È la mafia che offre e riceve appoggi a tutti i livelli, che, in maniera pulita, suadente, ovattata, è penetrata nelle stanze dei Comuni e delle Province per condizionare appalti, forniture, gestire e manovrare i soldi che arrivano da Roma, dalla Cassa per il Mezzogiorno, dai fondi per il Belice.

Insomma, una manna. Costa capisce, sa.

E con lui pochi altri. Tra costoro, Rocco Chinnici, il capo dell’Ufficio Istruzione di Palermo, e Cesare Terranova, suo amico stimatissimo. Con Chinnici – raccontano al Palazzo di Giustizia di Palermo - si incontrava in ascensore e andavano su e giù, su e giù, per sfuggire alle orecchie indiscrete, alle talpe annidate in ogni dove. Parlavano, si confrontavano, facevano il punto sulla situazione.

All’epoca si indagava sulla mafia siculo-americana e sulle famiglie Spatola, Gambino, Inzerillo.

Si sapeva del traffico di droga. Si sapeva di come arrivasse a Palermo e poi prendesse il volo per tutte le destinazioni del mondo: Nizza, Marsiglia, Milano, Amsterdam, Londra, Amburgo, Atene. Su questo aveva lavorato molto Boris Giuliano, prima di essere ammazzato al Bar Lux il 21 luglio del 1979. Ed il lavoro di Giuliano era stato preso in mano da Emanuele Basile, il capitano dei carabinieri di Monreale.

Era bravo anche Basile. Era riuscito a ricostruire i vari passaggi del traffico, probabilmente era sul punto di dare un volto agli assassini di Boris, ma venne ucciso pure lui. Era il 4 maggio 1980. Venne colpito, a Monreale, da Vincenzo Puccio mentre stava per assistere ai fuochi artificiali: in braccio aveva la figlia di nemmeno tre anni.

Grazie ad intercettazioni telefoniche, prove fotografiche, ma soprattutto in virtù di un peculiare acume nello studiare le carte, a Costa erano apparsi chiari i nessi tra i personaggi chiave della mafia siculo-americana, nonché tutta la catena di collegamenti, rapporti societari, amicizie e parentele, appoggi e trattative, referenti e padrini politici.

Tanto era bastato per individuare 55 personaggi da arrestare. Il gotha mafioso, tra Palermo e gli USA. Il 9 maggio aveva convocato i suoi sostituti.

L’aggiunto non si era neppure fatto vivo. Ai sostituti aveva illustrato la situazione: occorreva spiccare i mandati di cattura per quella gente. Ma i sostituti non ne avevano voluto sapere.

Ma siamo sicuri? Ci sono tutti elementi? Abbiamo le prove? Sono affidabili? Cosa dirà l’opinione pubblica? E via di questo passo. In quell’occasione, tutto il garantismo dei magistrati (non degli avvocati) era stato squadernato per stoppare sul nascere ogni iniziativa del Procuratore.

Alla fine, tra porte sbattute, voci che si alzavano, minacce e controminacce, i sostituti avevano fatto sapere che loro non avrebbero firmato. Bene, aveva detto Costa, quel che c’è da fare, lo faccio io. Un uomo che aveva combattuto contro i nazisti non poteva farsi bloccare dall’ostruzione di un paio di malcelati pusillanimi. Li aveva firmato direttamente lui, quei mandati, informandone anche la stampa. E, con questo – a detta di Buscetta – aveva firmato anche la propria condanna a morte.

Come ricorda Giuseppe Casarrubea, quando era giunto a Palermo, conscio delle difficoltà che lo attendevano, aveva dichiarato: “Vengo, in un ambiente dove non conosco nessuno, sono distratto e poco fisionomista. Sono circostanze che provocheranno equivoci. In questa situazione è inevitabile che il mio inserimento provocherà anche dei fenomeni di rigetto. Se la discussione però si sviluppa senza riserve mentali, per quanto vivace, polemica e stimolante, non ci priverà di una sostanziale serenità. Ma ove la discussione fosse inquinata da rapporti d’inimicizia, d’interlocutori ostili e pieni di riserve, si giungerà fatalmente alla lite”. Era stato buon profeta.

Eppure la storia degli ordini di cattura non firmati non è l’unica vicenda ambigua su cui porre attenzione. Com’è emerso nel corso del processo tenutosi a Catania, il Procuratore aveva ordinato delle indagini alla Guardia di Finanza il 14 luglio 1980 – cioè meno di un mese prima di essere ucciso. Bisognava svolgere attività investigativa a largo raggio, su tutto il territorio nazionale, su intrecci, rapporti economici, finanziari, bancari e societari, non solo sui mafiosi palermitani, ma anche sui loro amici e complici – più o meno occulti – in giro per l’Italia.

Quelle indagini erano pericolose, molto pericolose. E Costa lo sapeva. Sperava probabilmente di poter far luce, in questo modo, sugli omicidi di Piersanti Mattarella, il Presidente della Regione Siciliana ucciso all’inizio di quello stesso anno, e dell’amico giudice Cesare Terranova, caduto il 25 settembre dell’anno precedente.

E di queste indagini aveva sicuramente parlato con Rocco Chinnici, dentro l’ascensore della Procura. Di queste indagini si stava occupando il colonnello Pascucci, della Guardia di Finanza. Tra l’altro, come lei stessa racconterà ai giudici catanesi, pochi giorni dopo l’avvio delle indagini da parte del marito, la signora Pascucci era stata avvicinata per strada da uno sconosciuto che aveva “raccomandato al comandante di non approfondirle troppo”, quelle indagini.

Poi era arrivata la mano del killer a fermare Costa. Subito dopo, accaddero delle cose strane. Decisamente strane. Il colonnello Pascucci, apparentemente senza motivo, venne trasferito. Al processo, chiesero al colonnello Pizzuti, collaboratore di Pascucci, se fosse a conoscenza dei motivi del trasferimento del collega.

Pizzuti risponde in maniera indiretta, facendo riferimento alla propria sostituzione con il col. Mola, avvicendamento effettuato anch’esso in quel torno di tempo, subito dopo l’omicidio Costa.

Il colonnello interrogato dal giudice catanese esordiva sottolineando come già le modalità del passaggio delle consegne fossero inusuali: “le consegne da parte del colonnello Mola – con buona pace di Mola – che comandava il Nucleo di polizia tributaria di Palermo avvennero in mezz’ora e non ho avuto nemmeno il tempo di chiedergli alcunché tra cui notizie sul precedente trasferimento di Pascucci che io conoscevo personalmente in quanto mio compagno di corso...”, tuttavia un’idea Pizzuti se l’era fatta: “quanto sopra detto circa l’ingerenza della P2 nel mio trasferimento posso motivarlo in relazione al fatto che la P2 di Licio Gelli aveva in Arezzo la sua sede operativa e che il comandante generale della Guardia di Finanza generale Giannini risultò poi essere un’aderente a tale loggia massonica (tessera nr. 832, n.d.a.); probabilmente avevo messo le mani su qualche cosa che non andava toccato -... Il generale Giannini mi telefonò direttamente ..anche ciò è insolito… dicendomi che dovevo andare via da Firenze e proponendomi di andare alla Criminalpol di Roma ... o a dirigere il Nucleo di polizia tributaria di Palermo. ... pur non competendomi tale destinazione in quanto io ero al mio terzo comando di legione mentre di solito a Palermo si mandano dei colonnelli... al loro primo incarico a Palermo, optai per Palermo intendendo restare nell’ambito della Guardia di Finanza... il passaggio di consegna tra Mola e me avvenne come ho detto in mezz’ora, mi limitai a firmare il registro delle comunicazioni riservate e ritirare le chiavi della cassaforte, per il resto mi disse il Mola te la vedrai con l’aiutante maggiore del quale non ricordo il nome.”

Il Presidente gli chiese, allora, se il col. Mola gli avesse mai chiesto delle indagini in corso a Palermo. Pizzuti rispondeva sicuro: “il colonnello Mola non mi ha minimante accennato alle indagini giudiziarie in corso e alla attività demandata alla Guardia di Finanza. Faccio presente che solo da notizie attinte dai miei dipendenti nonché dagli atti d’ufficio, appresi delle indagini delicate e particolari in corso e tra esse quelle relative all’appalto di sei scuole collegate all’omicidio Mattarella.

Ricordo che i miei dipendenti brancolavano nel buio – ci ritorneremo fra un momento – non essendo riusciti ad acquisire elementi utili... Debbo però far presente ... che c’era una situazione alquanto insolita in questo comando... mentre normalmente in un Nucleo di polizia tributaria vi sono diversi ufficiali superiori quali tenenti e colonnelli, nel Nucleo di Palermo trovai ufficiali giovanissimi il più anziano dei quali era il maggiore Tramet…”

Insomma, tutto appare preordinato a bloccare le indagini. E il primo passo potrebbe essere stato l’omicidio del Procuratore. Infatti, sotto la direzione del col. Mola, lentamente, ma irreversibilmente le indagini si arenarono, le informazioni si estinsero, il filone si esaurì. Senza giungere ad alcuna conclusione.

Caso? Non proprio, se è vero che anche la Corte d’Assise d’Appello di Catania (che, confermando la sentenza di primo grado, assolse, pur tra mille dubbi e perplessità, dall’aver commesso l’omicidio il mafioso Totuccio Inzerillo) si lasciò andare a questa considerazione molto impegnativa: “È aleggiata su alcuni episodi (e ciò dicasi per i continui avvicendamenti ai vertici della Guardia di Finanza di Palermo: v. dichiarazioni del Mola e soprattutto del Pizzuti) l’ombra nefasta della P2 di Licio Gelli. Occupandosi quindi di tali moventi (la vendetta di Inzerillo per gli arresti dei 55 suoi gregari e la volontà di qualcuno, più in alto, di fermare le indagini, n. d. a.) ritiene la Corte di non essere assolutamente nelle condizioni di potere affermare che il primo (convalida degli arresti) costituisca il vero ed esclusivo movente dell’omicidio e di potere escludere che sussista altro movente alternativo o concorrente.”

Quindi, ancora una volta, per una corte di giustizia italiana, la P2 è qualcosa di diverso di una bocciofila o di una sezione del touring club.

Ma, intanto, un altro giusto è morto. Un uomo corretto, intransigente, pervicace, onesto. E solo. Di una solitudine cupa.

Lasciato solo dai suoi collaboratori, dalle istituzioni. È in fondo, la solita storia dell’eroe moderno, siciliano soprattutto. Che muore per il suo impegno, che va verso il compimento del proprio destino a testa alta. Muore sapendo di morire. Pere difendere le istituzioni, per nobilitare le istituzioni.

Quelle istituzioni che spesso lo scaricano o sono anch’esse rappresentati da uomini che pensano più alle carriere, alle conferenze stampa, alle auto blu, agli ermellini, che non a percorrere, silenziosamente e sobriamente, l’erta strada della giustizia.

Ma Costa fu qualcosa in più. Costa, infatti, è stato anche dimenticato. Semplicemente dimenticato. Molti altri hanno fatto la sua stessa fine. L’elenco è lungo, lunghissimo, lugubre. A snocciolarlo si prova una stretta al cuore, a raccontare quelle storie, quelle vite, i loro sogni interrotti, ti afferra un senso di nausea, e poi un brivido, una scossa tipo doccia gelata.

Di Costa un suo sostituto disse che era un uomo “di cui si poteva comperare solo la morte”. Aveva ragione. La morte arrivò. Puntuale. La giustizia no.

Non ci sono colpevoli per il suo omicidio. E, da trent’anni, giorno dopo giorno, lo stiamo seppellendo definitivamente, una scaglia, una briciola, un mattone, una balàta di indifferenza alla volta.

Fino a tumularne la memoria, le battaglie di giustizia, il senso di legalità e il coraggio insopportabilmente fastidiosi per un popolo che si appresta alla servitù.

Rapido oblio, secondo sudario dei morti.


 

 

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