N. 44 - Agosto 2011
(LXXV)
Genova, dieci anni dopo
2001-2011
di Alessandro Ortis
19 luglio 2001. A Genova si apre il vertice del G8 che rimarrà nella storia non per le decisioni prese, non per le nuove azioni proposte per combattere i mali che affliggono il nostro mondo, ma per la violenza, l’odio e la follia che sono andate in scena per le strade delle città, fuori dai palazzi del potere, per tre giorni. In quel fine settimana di luglio di dieci anni fa si scrisse una delle pagine più tragiche e scure della recente storia d’Italia.
Una
città
messa
a
ferro
e a
fuoco
da
migliaia
di
contestatori
venuti
da
ogni
parte
d’Europa
e
del
mondo,
provenienti
dalle
file
di
quel
movimento
no-global
violento,
chiamato,
spesso
generalizzandolo
troppo,
“black-bloc”.
Amnesty
International
ha
definito
i
fatti
di
Genova
come
«la
più
grave
sospensione
dei
diritti
democratici
in
un
paese
occidentale
dopo
la
Seconda
Guerra
Mondiale»:
centinaia
di
persone
ferite,
decine
di
arresti
tra
i
manifestanti
e
una
vita
spezzata,
quella
di
Carlo
Giuliani,
di
soli
23
anni.
Dieci
anni
sono
passati
da
quei
cruenti
giorni,
ma
le
ferite
restano
ancora
aperte.
L’insoddisfazione,
per
molti,
per
l’assoluzione
per
legittima
difesa,
del
carabiniere
Mario
Placanica
che,
dall’interno
di
una
camionetta
dei
militari
dell’arma,
in
piazza
Alimonda,
sparò
i
due
colpi
che
ferirono
a
morte
il
giovane
Giuliani.
Le
accuse
ai
vertici
della
polizia,
non
solo
genovese,
riguardano
l’incapacità
nella
gestione
dell’infuocata
situazione
di
quei
giorni,
la
mancata
prevenzione
nell’arrivo
dei
manifestanti
più
violenti
e
nella
complicità
degli
atti
di
forza
di
cui
molti
agenti
si
sono
macchiati:
gli
scontri
di
via
Tolemaide,
il
blitz
alla
scuola
Diaz
e le
violenze
nella
caserma
di
Bolzaneto.
A
questi
fatti,
sono
seguiti
processi
giudiziari,
interviste,
libri,
film.
Tutti,
per
cercare
di
rivelare
una
verità
che
ancora
oggi
non
sembra
essere
stata
svelata.
La
storia
di
quel
vertice
maledetto,
però,
inizia
ben
prima
del
luglio
2001.
Più
precisamente
nel
dicembre
1999,
quando
viene
scelta
come
sede
la
città
ducale,
stretta
tra
l’Appennino
e il
mar
Ligure.
Il
mondo,
allora,
era
assai
diverso
da
quello
che
conosciamo
oggi,
e il
G8
era,
per
Genova
e
l’Italia,
un’occasione
da
non
perdere.
Si
voleva
allestire
un
vertice
sul
modello
di
quello
di
Napoli
del
1994,
che
aveva
rappresentato
un’ottima
vetrina
per
la
città
partenopea,
con
nuovi
lavori
di
riqualificazione
urbana
e un
notevole
incremento
turistico.
A
Genova
sarebbe
dovuto
essere
lo
stesso,
e
invece…
La
stessa
pianta
della
città
era,
di
per
sé,
un
problema:
strade
strette,
un
centro
storico
pieno
di
vicoli,
spesso
senza
sbocco,
in
cui
è
difficile
mantenere
l’ordine
pubblico
in
caso
di
disordini.
Non
sarebbe
stato
molto
arduo
pensare
che,
ad
un
incontro
al
quale
avrebbero
preso
parte
gli
otto
capi
di
stato
delle
nazioni
più
economicamente
avanzate
del
mondo,
ci
sarebbero
state
occasioni
di
protesta,
magari
anche
violente.
Forse,
però,
chi
decise
Genova
come
sede,
non
era
attento
a
cosa
si
stava
muovendo
dentro
i
movimenti
no-global
che,
in
tutto
il
mondo,
andavano
nascendo
e
organizzandosi.
Ufficialmente
nati
nel
novembre
1999,
durante
il
Millennium
Round
di
Seattle
il
loro
obiettivo
era
contestare
la
globalizzazione
che
stava
avendo
forti
ripercussioni
negative
per
i
paesi
più
poveri
del
mondo.
Oltre
a
chi
protestava
pacificamente,
con
striscioni
e
slogan,
si
aggiungeva
un
altro
movimento,
molto
più
violento
e
pericoloso:
i
Black-bloc.
Anch’esso
nato
nei
giorni
di
Seattle,
il
gruppo
si
fece
notare
in
altri
vertici
internazionali
prima
del
2001,
come
Davos,
Nizza
e
Praga,
fino
ad
arrivare
a
Napoli,
nel
maggio
2001,
per
contestare
l’incontro
sul
digital-divide
dei
paesi
più
industrializzati.
È un
gruppo
per
lo
più
composto
da
giovani
provenienti
dal
nord-Europa,
il
cui
unico
scopo
è
danneggiare
e
distruggere
i
simboli
del
capitalismo
moderno:
ristoranti
fast-food,
banche,
agenzie
di
lavoro
interinale.
Tutto
deve
essere
accompagnato
da
atti
di
forza,
da
assalti,
da
blitz.
Non
è
mosso
da
un’idea
diversa
del
mondo;
è un
movimento
volto
soltanto
alla
violenza,
che
appare,
colpisce
e
poi
si
dilegua,
lasciando
dietro
di
sé
bancomat
assaltati,
vetrine
infranti
e
molti
feriti.
Il
ramo
italiano
del
movimento
no-global
pacifico
era
capeggiato
dal
Genoa
Social
Forum,
che
già
dal
dicembre
2000
organizzava
riunioni
e
incontri
per
preparare
le
manifestazioni
del
luglio
successivo.
«Il
nostro
slogan
era
voi
otto,
e
noi
sei
miliardi,
per
rivendicare
la
contrapposizione
tra
la
popolazione
mondiale
e
otto
potenti
che
rivendicavano,
in
modo
arrogante,
il
diritto
di
decidere
le
sorti
del
mondo»
ha
affermato,
in
una
recente
intervista,
Vittorio
Agnoletto,
medico
ed
ex-europarlamentare
delle
file
di
Rifondazione
Comunista,
e al
tempo
portavoce
del
movimento.
Il
Forum
era
un
gruppo
dall’anima
non
violenta,
sorto
spontaneamente
dalla
gente
comune,
in
cui
prendevano
parte
giovani,
lavoratori
di
ogni
estrazione
sociale
e di
ogni
credo
religioso.
Ricorda
ancora
Agnoletto:
«Mai
avevamo
pensato
di
poter
dare
vita
ad
atti
di
violenza,
come
lanci
di
sassi
e
bottiglie
molotov.
Volevamo
protestare
pacificamente,
senza
che
si
sparasse
un
colpo».
Contrapposto
a
questo,
c’era
il
movimento
delle
Tute
Bianche,
dei
Disobbedienti
guidato
da
Luca
Casarini.
«I
ragazzi
del
Genoa
Social
Forum
ci
chiamarono
per
dire
di
venire
a
Genova,
perché
stava
nascendo
un
forte
gruppo
pacifico
di
protesta,
a
cui
noi
non
potevamo
mancare»
ha
dichiarato
tempo
dopo.
Il
suo
gruppo,
però,
si
era
distinto
per
essere
l’anima
più
intransigente
del
movimento
no-global,
mosso
da
una
contestazione
più
radicale.
Quando,
però,
il
gruppo
di
Casarini
giunse
a
Genova,
trovò
l’esercito
schierato
per
proteggere
la
città,
e
dichiarò
formalmente
guerra
al
governo
e ai
militari:
era
il
26
maggio
2001.
Negli
stessi
giorni,
la
città
subiva
l’arrivo
di
più
di
13.000
tra
soldati,
poliziotti
e
carabinieri,
che
resero
Genova
una
città
militarizzata.
Per
proteggere
l’incolumità
delle
delegazioni
partecipanti
al
vertice,
intorno
alla
cosiddetta
“zona
rossa”,
ovvero
le
vie
e le
strade
vicine
ai
palazzi
dove
si
sarebbe
tenuti
gli
incontri,
vennero
erette
grate
ferree
alte
più
di
cinque
metri,
con
limitazioni
al
passaggio
anche
per
gli
stessi
cittadini
genovesi.
L’aria,
in
città,
era
davvero
pesante:
c’era
la
sensazione,
da
più
parti
sostenuta,
che
i
giorni
che
sarebbero
seguiti
sarebbero
stati
assai
difficili,
caratterizzati
da
scontri
violentissimi
con
i
manifestanti,
e
provocando
un
alto
numero
di
feriti.
Quel
che
più,
tuttavia,
preoccupava
i
vertici
della
polizia,
era
la
sensazione
che
a
Genova
ci
potesse
essere
qualche
vittima,
tra
i
manifestanti
o
tra
le
stesse
forze
dell’ordine.
Il
vertice,
insomma,
iniziava
nel
peggior
clima
possibile.
Giovedì
19
luglio.
Prima
manifestazione
in
città:
si
tratta
del
corteo
dei
migranti,
un
pacifica
contestazione
della
globalizzazione
e
della
sue
conseguenze,
che
porta
in
strada
più
di
50.000
persone.
Tutto
si
svolge
in
un’atmosfera
rilassata,
senza
quella
tensione
di
cui
tanto
si
era
parlato
nelle
ore
precedenti.
Tuttavia,
qualcun
altro
stava
già
preparando
la
sommossa.
Venerdì
20
luglio,
ore
11.30.
In
alcune
vie
della
città,
si
verifica
il
primo
blitz
dei
black-bloc.
Come
nel
loro
stile,
si
sono
radunati
in
folti
gruppi
apparentemente
dal
nulla,
e
iniziano
ad
armarsi.
Sassi,
ringhiere
divelte,
spranghe.
Tutto
quanto
è
buono
per
distruggere
cassonetti,
incendiare
auto
e
infrangere
vetrine.
Poco
dopo,
il
primo
contatto
con
i
carabinieri
che
li
stanno
sorvegliando
da
qualche
ora.
In
seguito
ad
una
carica
dei
militari,
i
black-bloc
si
dileguano,
per
ricomparire
verso
ora
di
pranzo,
in
via
Tolemaide,
sul
percorso
che
il
corteo
delle
Tute
Bianche
di
Casarini
avrebbe
dovuto
prendere.
Dopo
qualche
ora,
il
gruppo
si
ritira,
e si
spostano
verso
il
carcere
di
Marassi,
dall’altra
parte
delle
città.
Qui,
il
gruppo
di
carabinieri
che
presidia
il
penitenziario,
abbandona
la
zona
e
lascia
che
i
black-bloc
lancino
contro
la
struttura
bottiglie
molotov,
sassi.
Nel
frattempo,
la
centrale
operativa
della
questura
di
Genova
ordina
al
3°
battaglione
Lombardia
dei
carabinieri,
di
dirigersi
verso
Piazza
Giusti,
nel
cuore
della
zona
gialla,
dove
«alcune
migliaia
di
anarchici
stanno
sfasciando
tutto»,
secondo
le
registrazioni
originali
della
centrale
operativa.
L’autocolonna
delle
forze
dell’ordine
deve
percorrere
un
tragitto
che
taglia
quello
del
corteo
delle
Tute
Bianche,
che,
in
modo
pacifico,
sta
scendendo
da
via
Tolemaide.
Le
comunicazioni
tra
centrale
operativa
e
mezzi
sul
campo,
tuttavia,
è
assai
difficoltosa;
la
sala
operativa,
vista
la
situazione
a
Marassi,
impartisce
l’ordine
di
proseguire
verso
il
carcere,
senza
fermarsi
in
Piazza
Giusti.
Invece,
i
blindati
dei
carabinieri,
anziché
rispettare
l’ordine
impartito,
si
fermano
su
una
strada
traversa
al
percorso
del
corteo,
Corso
Torino.
I
militari
scendono
dai
mezzi,
e
iniziano
a
prepararsi
allo
scontro
con
i
manifestanti
delle
Tute
Bianche.
Questo
è
stato
il
primo
dei
tanti
errori
commessi
dalle
forze
dell’ordine
al
G8
di
Genova,
per
il
quale
si
terrà
anche
un
processo
penale
negli
anni
successivi.
Nelle
dichiarazioni
al
procedimento
per
i
fatti
di
Via
Tolemaide,
uno
degli
imputati,
il
vice-questore
Mario
Mondelli,
nel
novembre
2004,
disse
che
«vicino
a
noi
c’era
un
gruppo
di
manifestanti,
qualche
centinaio,
che
lanciava
pietre,
bastoni
e
oggetti
contundenti
contri
gli
agenti.
Volevamo
sgomberare
l’area,
e
poi
proseguire
per
Marassi».
Invece,
quello
sgombero
si
trasformò
in
un
scontro
vero
e
proprio.
I
carabinieri
lanciarono
lacrimogeni
tra
i
manifestanti,
al
fine
di
disperderli,
per
poi
caricarli
definitivamente.
Via
Tolemaide
è un
lungo
viale
che
corre
parallelo
alla
sede
rialzata
della
ferrovia.
Si è
chiusi
da
entrambi
i
lati,
ed è
difficile
trovare
una
via
di
fuga
in
caso
di
pericolo.
Alle
15,
inizia
lo
scontro.
Il
corteo
era
arrivato
sul
luogo
presidiato
dai
carabinieri.
I
militari
iniziano
a
caricare
le
Tute
Bianche,
che
rispondono,
con
lancio
di
sassi
e
bottiglie,
da
dietro
i
loro
scudi
fatti
di
plastica.
La
sala
operativa
della
polizia
tenta
ripetutamente,
e
invano,
di
contattare
il
battaglione
Lombardia
che
non
dovrebbe
trovarsi
in
via
Tolemaide,
ma
avrebbe
dovuto
proseguire
verso
il
carcere
di
Marassi.
I
militari
sono
isolati,
e
tentano
in
tutti
i
modi
di
disperdere
il
corteo.
La
sala
operativa
è
nel
caos
più
assoluto.
Forse
avevano
scambiato
quei
pacifici
manifestanti
per
i
black-bloc,
forse
i
messaggi
dalla
questura
non
erano
stati
chiari.
Eppure,
le
immagini
che
testimoniano
quelle
ore
rappresentano
una
vera
guerriglia
urbana
tra
le
strade
di
Genova:
carabinieri
che
prendono
manganellate
chiunque
si
trovi
davanti
a
loro,
mezzi
blindati
che
sfrecciano
a
forte
velocità
tra
le
vie
per
rompere
il
corteo,
lanci
di
lacrimogeni
che
offuscano
l’aria
del
centro
storico.
Alla
fine
di
quello
scontro,
sul
campo
restano
solo
feriti,
cassonetti
divelti
e
tanto
sangue.
In
soccorso
del
battaglione
Lombardia,
la
sala
operativa
invia
il
12°
battaglione
Sicilia,
in
cui
presta
servizio
il
carabiniere
ausiliario
Mario
Placanica,
all’epoca
ventunenne.
Il
giovane
calabrese,
in
forza
all’arma
da
soli
dieci
mesi,
si
trova
su
una
jeep
Defender,
diretta
verso
via
Tolemaide.
Giunti
sul
posto,
il
mezzo
si
trova
di
fronte
ad
un
nutrito
gruppo
di
manifestanti
che
gli
avanza
contro.
Il
blindati
tenta
di
tornare
indietro,
ma
dopo
una
manovra
maldestra,
resta
bloccato
su
piazza
Alimonda,
a
causa
di
un
cassonetto
che
gli
sbarra
la
strada.
Dietro,
i
giovani
no-global
si
fanno
avanti,
armati
di
spranghe
di
ferro
e
bastoni.
Tra
loro,
c’è
anche
Carlo
Giuliani,
genovese
di
23
anni,
con
il
viso
coperto
da
un
passa
montagna.
Il
ragazzo
si
trova
lì,
dietro
al
mezzo,
che
viene
assaltato
ripetutamente
da
altri
manifestanti.
Placanica
viene
anche
colpito
alla
testa,
non
respira
bene,
a
causa
dei
lacrimogeni,
e
non
riesce
a
far
allontanare
i
rivoltosi
dal
blindato.
In
questo
momento,
il
carabinieri
matura
l’idea
di
estrarre
la
pistola
e
sparare.
«Io
dicevo
andatevene,
allontanatevi,
ma
non
si
placavano.
È
qui
che
ho
deciso
di
sparare
due
colpi»
ha
affermato
Placanica
nei
mesi
successivi.
Giuliani,
che
si
trova
dietro
al
mezzo,
raccoglie
un
estintore
da
terra,
forse
per
scagliarlo
contro
i
carabinieri.
Prima,
però,
che
potesse
farlo,
due
colpi
lo
feriscono
mortalmente,
e
cade
a
terra.
Sono
le
17.27,
e il
G8 e
iniziato
da
appena
quattro
ore.
La
jeep,
nel
tentativo
di
superare
il
cassonetto,
passa
con
le
ruote
due
volte
sopra
il
corpo
straziato
di
Giuliani.
La
morte
del
giovane
segna
tutti
i
giorni
a
venire
del
vertice,
e fu
il
più
grave
errore
commesso
dalla
forze
dell’ordine.
La
mancanza
di
comunicazioni
tra
le
centrale
operative
e il
battaglione,
l’incompetenza
dei
suoi
dirigenti
ha
fatto
sì
che
la
situazione
degenerasse
a
tal
punto,
con
una
città
in
fiamme
a
causa
di
informazioni
sbagliate.
Dirà
Placanica,
per
difendersi:
«Ho
sparato
non
per
colpire,
ma
per
allontanarli».
Nel
corso
del
processo
che
si è
aperto
in
seguito
all’omicidio
in
Piazza
Alimonda,
è
emersa
l’ipotesi
che
non
sia
stato
il
carabiniere
a
sparare,
ma
un
alto
funzionario
dell’arma
anche
lui
sulla
jeep,
e
che
il
nome
di
Placanica
sia
servito
solo
da
copertura.
L’esito
del
procedimento
penale,
apertosi
presso
la
Procura
di
Genova
pochi
mesi
dopo,
ha
visto,
però,
l’assoluzione
totale
del
carabiniere
nel
maggio
2003,
perché
egli
sparò
in
aria,
senza
puntare
l’arma
contro
alcuno,
e i
colpi
sarebbero
stati
deviati
da
un
calcinaccio
lanciato
dai
manifestanti.
La
morte
di
Giuliani
sarebbe,
per
la
magistratura,
solo
una
tragica
fatalità.
Nella
sera
dello
stesso
tragico
venerdì,
il
Presidente
della
Repubblica
Carlo
Azeglio
Ciampi,
assieme
al
Presidente
del
Consiglio
Silvio
Berlusconi,
tenne
un
discorso
in
televisione
in
cui
si
augurava
che
le
manifestazioni
e le
violenze
cessassero
da
subito.
Alla
fine
del
G8,
però,
mancavano
ancora
due
giorni.
Sabato
21
luglio.
Il
vertice
degli
otto
grandi
è
ormai
oscurato
da
quello
che
succede
fuori
da
Palazzo
Ducale,
sede
degli
incontri.
La
manifestazione
del
Genoa
Social
Forum,
300
mila
persone,
con
in
prima
fila
Vittorio
Agnoletto
e le
Tute
Bianche
di
Luca
Casarini
- in
forse
fino
all’ultimo
dopo
la
morte
di
Carlo
Giuliani
- si
tiene
ugualmente,
sul
lungomare
di
Genova.
Per
il
leader
delle
Tute
Bianche,
«bisognava
scendere
per
strada,
per
combattere
le
provocazioni
di
quelli
in
divisa
e
non.
Sabato
era
la
giornata
della
rabbia».
Ben
presto,
anche
in
questo
giorno,
ricomparvero
i
black-bloc,
che
ripresero
a
devastare
la
città.
Alle
15,
dopo
alcuni
lanci
di
lacrimogeni,
il
corteo
è
spezzato
in
due
tronconi.
Le
forze
dell’ordine,
come
il
giorno
prima
in
via
Tolemaide,
perdono
il
controllo
della
piazza,
e
non
riescono
a
separare
i
violenti
dai
manifestanti
pacifici.
Lo
stesso
corteo
è
privo
di
un
proprio
servizio
d’ordine,
e
questo,
secondo
Agnoletto,
era
stato
deciso
per
poter
dare
«un
segno
di
discontinuità
col
passato,
di
una
manifestazione
pacifica,
in
cui
i
ragazzi
procedessero
a
mani
alzate,
dipinte
di
bianco,
senza
violenza».
L’allora
Ministro
degli
Interni,
Claudio
Scajola,
ha
ammesso:
«Le
forze
dell’ordine
si
trovarono
davanti
a
fatti
eccezionali,
ai
quali
non
erano
preparati
né
formati
professionalmente.
Cercare
di
dividere
i
violenti
era
difficile,
perché
questi
di
certo
non
avevano
un
segno
di
riconoscimento
al
braccio».
Il
bilancio
della
giornata
è di
più
di
trecento
feriti
tra
manifestanti
e
poliziotti,
e
solo
160
arresti.
Il
vertice,
in
quelle
stesse
ore
in
cui
per
strada
si
combatteva,
si
stava
per
chiudere.
La
polizia,
però,
anche
se
il
G8
si
avviava
al
termine,
voleva
colpire
i
più
violenti,
stanarli
nei
luoghi
dove
trascorrevano
la
notte.
I
funzionari
della
questura
credono
di
averne
individuato
uno:
la
scuola
“Armando
Diaz”,
in
cui
si
trovano
molti
degli
aderenti
al
Genoa
Social
Forum
di
Agnoletto.
Alle
23,
il
blitz.
Più
di
400
poliziotti
circondano
l’edificio
e
tentano
l’irruzione
da
più
parti.
All’interno,
il
panico.
Le
varie
testimonianze
di
chi,
quella
sera,
si
trovava
nella
scuola,
parlano
di
persone
che
fuggivano
ai
piani
alti
e si
rifugiavano
negli
sgabuzzini.
Centinaia
di
filmati
amatoriali,
caricati
su
YouTube
e
altri
siti
internet,
mostrano
come
gli
agenti
siano
intervenuti
con
la
forza,
colpendo
con
il
manganello
chiunque
si
trovasse
loro
davanti,
e
prendendoli
a
pugni
e
calci.
La
perquisizione
dura
più
di
mezz’ora,
in
cui
vengono
messe
a
soqquadro
le
aule
dove
dormono
i
ragazzi.
Dalla
scuola,
intanto,
escono
decine
di
barelle
con
giovani
feriti
gravemente;
dei
temuti
black-bloc,
tuttavia,
non
c’è
traccia.
In
un’intervista
del
22
luglio
2002,
il
vice-capo
della
polizia
Ansoino
Andreassi
affermava
che
all’interno
della
scuola
Diaz
«vennero
trovate
bottiglie
molotov,
coltelli
e le
tute
nere
che
contraddistinguono
i
black-bloc».
Non
era
della
stessa
idea
il
ministro
Scajola
che,
dopo
un’indagine
interna,
qualche
giorno
dopo
sospese
Andreassi,
il
vice-questore
di
Genova
e un
altro
funzionario
della
polizia.
Non
è
finita,
ancora.
Qualche
giorno
dopo
la
fine
del
G8,
sui
quotidiani
e
sulle
televisioni
emerge
la
notizia
che,
nella
caserma
della
polizia
di
Bolzaneto,
piccola
località
vicina
a
Genova,
sarebbero
state
consumate
delle
violenze,
da
parte
di
alcuni
agenti,
ai
danni
dei
manifestanti
fermati
durante
gli
scontri.
Secondo
le
varie
testimonianze,
sia
dei
fermati
che
di
poliziotti
che
hanno
rilasciato
interviste
sotto
anonimato,
nella
caserma
ci
sarebbe
stata
una
“sospensione
dei
diritti
umani,
un
vuoto
della
Costituzione”.
I
ragazzi
che
arrivavano
venivano
picchiati
appena
scendevano
dai
mezzi,
e
poi
portati
nelle
celle.
Qui,
passavano
anche
dieci
ore
in
piedi
con
la
faccia
contro
il
muro,
senza
mangiare
né
bere.
L’odore
di
sangue
era
insopportabile.
Non
si
ha,
ancora
oggi,
una
certezza
su
questi
fatti,
anche
se
sono
stati
celebrati
alcuni
processi,
che
hanno
visto
la
condanna
per
alcuni
medici
e
membri
delle
forze
dell’ordine.
Per
gli
scontri
in
Via
Tolemaide,
il
processo
ha
condannato
a
pene
tra
gli
8 e
15
anni
di
reclusione
24
manifestanti
in
primo
grado,
ridotti
a 14
dalla
Corte
d’Appello.
La
maggior
parte
di
questi
sono
anarchici
e
autonomi.
Nel
processo
che
si
aperto
per
l’assalto
alla
scuola
Diaz,
durante
una
deposizione
del
maggio
2007
, il
vice-questore
aggiunto
di
Genova,
Michelangelo
Fournier
definiva
il
blitz
«una
macelleria
messicana
[…],
in
cui
quando
sono
arrivato
ho
visto
due
quattro
poliziotti
che
infierivano
su
una
decina
di
persone
a
terra».
E
Massimo
D’Alema,
in
un
discorso
al
Parlamento
sui
fatti
di
quella
sera,
ha
parlato
di
“notte
cilena”.
Il
13
luglio
2008,
il
Tribunale
di
Genova
ha
condannato
13
agenti
operativi
della
polizia
ma
assolve
altri
16
imputati,
tra
cui
alti
dirigenti.
Nella
sentenza
d’appello
del
2010,
invece,
vengono
incriminati
28
imputati,
tra
cui
il
Capo
della
Polizia
dell’epoca,
Gianni
De
Gennaro.
Il
G8
di
Genova
del
luglio
2001
è
stato
contraddistinto
da
errori,
incomprensioni,
violenze
e
prove
di
forza.
A
farne
le
spese,
però,
non
sono
stati
solo
i
manifestanti,
violenti
e
non,
ma
un
intero
paese,
che,
a
dieci
anni
di
distanza,
non
ha
ancora
fatto
pace
con
sé
stesso,
non
chiarendo
definitivamente
la
posizione
di
tutti
i
protagonisti
e
facendo
emergere
la
verità
che
sia
valida
per
tutti
e
non
solo
per
una
parte.
È
interessante,
dopo
questa
ricostruzione,
riportare
una
frase
del
Presidente
del
Consiglio
Silvio
Berlusconi,
il
quale
dichiarava,
qualche
giorno
prima
del
vertice:
«La
città
di
Genova
è la
meno
adatta
a
garantire
lo
svolgimento
tranquillo
del
G8».