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N. 8 - Agosto 2008 (XXXIX)

G8 2001: una non giustizia

i casi Diaz e Bolzaneto

di Laura Novak

 

Nessuno vedrà mai com’è fatta una galera.

Di sicuro nessuno dei 45 accusati per le torture inflitte a ragazzi e ragazze esattamente 7 anni fa nella caserma di Bolzaneto.

Una settimana fa solo 15 di loro sono stati condannati. 30 assolti dal tribunale di Genova.

 

Tra un anno esatto, quando l’intero iter della giustizia italiana, noiosamente burocratico, sarà terminato, i reati contestati ai 15 agenti condannati, cadranno in prescrizione.

Poco ci sarà poi da ultimare, magari un indulto, indetto dall’ennesimo governo fantoccio e qualunquista d’Italia.

Nessuno di loro alla fine avrà un solo giorno di prigione.

 

Eppure tra la notte del 21 e del 22 luglio del 2001 quel luogo è stato spazio abominevole di torture e minaccie psicologiche.

Lo testimoniano le prove audio, quelle poche prove video in cui vittime e i carnefici pentiti testimoniano quello che è realmente accaduto.

 

La verità è nascosta ancora in quella caserma.

 

Urla fasciste dei militari, minacce sessuali alle donne, costrizioni ad atteggiamenti umilianti (rimane piegati per ore, accovacciarsi come cani, rimane in piedi una notte intera, spogliarsi e subire visite sotto lo scherno di militari e dottori), ossa rotte dai manganelli, calci, pugni e abusi inferti a circa 100 persone.

 

Ma veramente cosa è successo in quella notte, lì nella caserma Bolzaneto, e prima ancora nella scuola Diaz, da cui provenivano la maggior parte degli arrestati?

 

Genova dopo il 20 luglio 2001 non era più la stessa.

Mentre gli 8 grandi della terra manovravano da avari burattinai le sorti e gli equilibri del mondo, chiusi in un summit blindatissimo, la città era in subbuglio.

Una guerriglia urbana senza nessun precedente.

 

Il cosidetto popolo di Seattle si era dato appuntamento tutto lì, a Genova.

Era nato durante il WTO del 1999, svoltosi proprio a Seattle. Le organizzazioni cittadine ed umanitarie di ogni parte del globo erano scese in campo a manifestare con la voce e con la forza delle idee, contrarie alla politica della globalizzazione dei paesi più influenti del mondo. Un esercito pacifico e disarmato.

 

Da quel momento in poi i No Global  saranno la voce del popolo sotterraneo, dimenticato, schiacciato dalle decisioni politiche ed economiche di chi li governa senza coscienza.

 

E’ il 2001 quando Genova è scelta come luogo per il summit G8 di quell’anno.

Le contro manifestazioni dei No Global, tutte autorizzate, hanno luogo ovunque nella città. Gli assediamenti militari servono forse più a proteggere le 8 teste preziose, piuttosto che a mantenere l’ordine.

I manifestanti, le famose tute bianche, marciano senza sosta, con l’obiettivo, svelato dallo stesso Luca Casarini, leader dei No Global italiani, di creare tanto rumore mediatico da bloccare i lavori del G8.

Nella sua dichiarazione di guerra ai leader mondiali, avvenuta qualche giorno prima l’inizio del vertice, forse la volontà di utilizzare la violenza verbale come arma di pubblicità eclatante al suo movimento.

 

E’ però intorno alle 13:00 di quel giorno che l’aspetto della manifestazione volta faccia.

 

Un gruppo estremo, I Black Bloc, una macchia nera nel corteo multicolore dei No Global, inizia una marcia solitaria e distruttrice.

Frangia anarchica e rivoluzionaria internazionale, striscia da anni nei movimenti di contestazione dei vari paesi del mondo, senza mai però essere estirpato volontariamente e a fondo.

Dalle ideologie eterogenee, ma uniti dalla convinzione dell’attivazione violenta di un modello di stato anarchico, fanno dell’abbigliamento, tute e maschere militari nere (in riferimento all’abbigliamento adottato dai movimenti autonomi tedeschi degli anni 80), il loro segno distintivo.

 

Le immagini di quel 20 luglio, rubate dai free lance, li catturano mentre lentamente si staccano dal corteo, per poi riaggregrarsi velocemente, e alla fine disperdersi in piccoli gruppi, occupando vari punti della città.

Ed è quì che la violenza acceca gli individui; le scelte personali e le travisazioni mentali di ideologie estremiste impongono il loro pugno.

 

La follia ha inizio.

 

Maschere nere ovunque, vetrine spaccate, negozi e supermercati svaligiati, cassonetti ed auto bruciati, molotov e spranghe nelle mani, marciapedi sventrati, ricerca spietata di ogni genere di oggetto che possa trasformarsi in arma.

Ed è un tutti contro tutti: cittadini inferociti contro il popolo, per la maggioranza pacifico, della manifestazione; manifestanti pacifici contro i black bloc; polizia in assetto da guerra che attacca, respinge e attacca chiunque incontri sulla propria strada.

Senza nessun senso civile, gli uni contro gli altri.

 

E’ una guerra nella strade della città, nel porto, nelle stradine del centro, nei viali della periferia.

La pazzia prende gli animi di tutti gli schieramenti. Combattere con ferocia per avere la meglio sul proprio avversario alla fine conduce alla morte, spietata ed isantanea.

 

Carlo Giuliani rimane a terra, ucciso alla testa da un colpo di pistola di un carabiniere. Le immagini del suo corpo, smembrato e fratturato dal passaggio della camionetta blu, quando era già a terra sanguinante, e del suo viso, scoperto dal passamontagna nero che lo celava, sono cronaca serrata di quelle ore.

 

L’indignazione seguente, il clamore e le polemiche che ne seguirono, non furono le ultime ceneri dopo la fine del fuoco della rivoluzione, ma solo un’altra miccia.

La notte tra il 21 e il 22 luglio, nella scuola Diaz, che alcuni manifestanti avevano occupato come appoggio, le teste di cuio fecero il resto.

L’ordine era preciso: arrestare il maggior numero di persone, non importa chi, come o perchè. La polizia doveva essere ripulita dall’immagine di assassina impulsiva di quegli ultimi due giorni. Il corteo doveva all’improvviso diventare un corteo completamente nero composto da sovversivi e violenti, giudati dal gruppo dei Black Bloc. Un popolo pericoloso, armato e sanguinario che doveva essere fermato con ogni mezzo dalle forze dell’ordine salvatrici.

 

 

In questi giorni il processo ai dirigenti della polizia e agli esecutori degli ordini di quel blitz è ancora in essere; le condanne richieste dall’accusa sono pesanti, macigni per coloro che hanno deciso di picchiare selvaggiamente e alla fine arrestare senza movente o prove ( se non costruite ad arte), ragazzi e ragazze disarmati, nel cuore della notte.

 

Di certo si sa che molti di questi arrestati, quelli che non furono trasportati direttamente in ospedale per le violenze subite, furono condotti in arresto nella caserma Bolzaneto.

In quel luogo, già dalle prime ore del pomeriggio ne erano stati rinchiusi parecchi, presi a caso tra le strade della città, in mezzo al corteo.

 

I soprusi messi in atto tra quelle mura sono racchiusi nelle testimonianze delle vittime.

Ma, per i giudici di Genova, non sono abbastanza, per provare che la violenza c’è stata in quelle modalità e da tutti gli imputati.

Solo 15 sono stati condannati.

 

Ad oggi, nonostante un processo, quello appunto che riguarda la caserma Bolzaneto, sia finito, ed un’altro, quello per la responsabilità delle violenze e della costruzione di prove false a carico di cittadini inermi nel blitz alla Diaz, sia sulla via della conclusione, non hanno un vero volto nè i Black Bloc, nè coloro che nelle schiere di forze armate hanno alzato davvero i manganelli.

 

Costoro che hanno ucciso vigliaccamente la cronaca di quei giorni, violentando gli occhi degli italiani con immagini, atti e parole di fango.

Atti ignoranti e bestiali, che non hanno bandiera, ideologia, convinzione politica o stato di servizio che li renda legittimi.

 

 

 

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