N. 10 - Ottobre 2008
(XLI)
Furor
gallicus
lo spirito
guerriero e la
morte del mondo
celtico
di Lawrence M.F.
Sudbury
Sia Cesare che Tacito che molti altri dopo di loro ci
parlano di una strana condizione che i guerrieri celti
mostravano in guerra: si presentavano sul campo di
battaglia seminudi, vestiti solo di un succinto
perizoma, digrignando i denti, urlando e mordendo gli
scudi (che battevano con la spada creando il celebre “tumultus
celticus”), con gli occhi vitrei e iniettati di
sangue. Improvvisamente si lanciavano contro i nemici,
completamente incuranti di ricevere colpi e senza
nessuna paura della morte, colti da una sorta di
violenza parossistica e con un solo scopo: uccidere.
Questa particolare caratteristica bellica era così
comune e ricorrente che i Romani trovarono addirittura
un nome per definirla, un nome che non poteva non
incutere terrore ai componenti delle legioni: “furor
gallicus”.
A dire il vero, il furor non era una
caratteristica unicamente celtica. Già nel mondo antico
esempi di violenza parossistica e allucinata in
occasione di battaglie campali erano ben presenti: si
pensi, ad esempio, ad Achille nell’Iliade o ad Ercole
nella mitologia classica, entrambi presentati come in
preda ad una sorta di “smania di sangue”.
Anche nello scontro con le popolazioni germaniche i
Romani si trovarono di fronte a qualcosa di molto
simile: parlando di furor guerresco, tornano
immediatamente alla mente le figure di quei combattenti
germano-scandinavi conosciuti col nome di Berserker
e Ulfedhnar, guerrieri che, coperti unicamente di
pelli d'orso i primi e di lupo i secondi, si sentivano
impossessati dallo spirito del loro animale totemico e
si gettavano in battaglia in preda ad una estasi mistica
che li portava a dimostrare una forza disumana, a non
avvertire il dolore delle ferite subite e a massacrare
indistintamente tanto i nemici che i loro alleati.
Di fatto i Berserkr e gli Ulfhednar erano
guerrieri sacri ad Odino (anticamente Wotan, o Woden,
dalla radice germanica “Wut-“, che significa appunto
“Furia”) e, secondo il mito, era proprio lui ad indurre
l'estatico stato del furor, fino a provocare
delle vere e proprie trasformazioni sul piano fisico.
I Berserker si facevano un punto d'onore di non
ritirarsi mai dalla battaglia, e per questo motivo
facevano spesso parte della guardia del corpo dei re
vichinghi, normalmente in numero di dodici, combattendo
sempre in prima linea e seminando lo sconcerto tra i
nemici.
Il "furor teutonicus" dei Germani prima e dei
Vichinghi poi, ha, però, un carattere costitutivo che lo
differenzia dal "furor gallicus" del quale ci
parlano i Romani riguardo ai Celti. La figura del
Guerriero Sciamanico germanico si fonda principalmente
su un credo: quello del “contratto con Dio". Di fatto,
il guerriero dimostra sprezzo del pericolo andando in
battaglia con minimi mezzi, e Odino lo ricambia
donandogli qualità prodigiose e deviando le armi dei
nemici.
Il "furor gallicus" invece si fonda su basi ben
diverse e, per comprenderle, dobbiamo procedere ad una
breve analisi della spiritualità celtica.
Sostanzialmente, se dal punto di vista sociale,
notoriamente, come in molte culture arcaiche coeve (con
elementi perduranti fino almeno all'inizio del basso
medioevo), la società celtica si struttura in una
classica tripartizione tra “coloro che combattono”,
“coloro che pregano” e “coloro che lavorano”, dal punto
di vista culturale possiamo notare una nettissima
divisione tra una classe colta, di cui fanno parte
druidi, bardi, parzialmente il nucleo più “spirituale”
dei guerrieri nobili, e una classe “popolare”,
comprendente tutti gli altri. Una tale divaricazione si
riflette naturalmente anche nella comprensione
spirituale e nel vissuto religioso quotidiano.
In quest'ottica, uno degli elementi di più comune
conoscenza in relazione al popolo celtico riguarda il
suo straordinario pantheon, comprendente addirittura 374
divinità. In effetti, molte di tali divinità erano
“copie” (in ambito regionale e con denominazioni e,
talora, caratteristiche lievemente differenti) di altre,
per cui possiamo in effetti parlare di circa 60 dei veri
e propri, che risultano essere per lo più
impersonificazioni di forze naturali.
Ciò che è necessario comprendere è che stiamo parlando
di un livello appunto popolare, in cui la forma si fa
sostanza e concetti astratti devono essere concretizzati
in figure rappresentabili per essere compresi da tutti.
A livello più alto, cioè a livello druidico, una tale
trasmutazione risulta assolutamente inutile: l'istanza
astratta può rimanere tale perché il druida, grazie alla
sua preparazione culturale (della durata minima di 19
anni di studi), non necessità di alcun lavoro di filtro.
E' in quest'ottica che, come fonte ultima di ogni
manifestazione cosmica, come minimo comun denominatore
di ogni elemento naturale, e dunque come elemento
costitutivo e radicale di ogni istanza successivamente
concretizzata nelle varie divinità, la classe
sacerdotale (e ricordiamo che, prima ancora che
sacerdoti, i druidi, come facilmente comprensibile anche
dalla origine indo-europea del loro nome, *dru-wid-es,
che ha la stessa radice del latino “videre”, erano dei
sapienti in varie materie, dall'astronomia
all'erboristeria, dalla storia alla letteratura)
individuava la “Forza”, intesa come forza vitale e
denominata “Oiw”.
L'Oiw è l'elemento costitutivo primo di ogni entità ed è
qualità necessaria e sufficiente all'esistenza stessa di
ogni cosa, dunque anche degli dei.
Risulta chiaro, allora, tutto il senso della
profondissima meditazione druidica su questa forza
vitale, una meditazione che arriva a delineare una sorta
di metafisica dell'Oiw.
Sostanzialmente, allora, il principio unico e increato
dell'Oiw viene corredato da gerarchie celesti, che si
manifestano nelle forze della Natura.
Il Sole diventa, nel solito processo di
“visibilizzazione” dello spirituale, il simbolo evidente
dell'Oiw , e da esso emanano tre raggi, ovvero le tre
forme di energia da cui dipende l'ordine dinamico del
cosmo (Amore,Forza,Conoscenza).
La materia è, di conseguenza, solo ciò che dà prova di
questo dinamismo, nelle sue svariate e continue
determinazioni.
E' alla luce di questo quadro generale che deve essere
interpretata anche l'organizzazione della società. La
tripartizione a cui si accennava tra sacerdoti,
guerrieri e lavoratori, infatti, corrisponde
perfettamente alle tre forme che l'Oiw può assumere,
secondo uno schema molto chiaro:
1) i lavoratori erano legati all'aspetto femminino
dell'Oiw (detto “Karantez”), caratterizzato
dall'amore e dalla riproduzione. Sostanzialmente si
tratta di un calco dell'antico culto della Dea Madre
terra che, appunto lavorata dai contadini, dà frutti dal
suo ventre e, dal punto di vista della religiosità
popolare, è questo aspetto che viene impersonificato da
dee quali Myrionyme (preposta alla generazione) e
Cerridwen (dea dell'amore);
2) i guerrieri erano sotto l'influsso dell'aspetto
mascolino dell'Oiw (“Nertz”), che, naturalmente,
era l'aspetto della forza, dell'impeto e del desiderio
di potere, legato a Lug, dio principale del pantheon
celico, e a Nudd, capo della della stirpe divina dei
Tuatha de Danann (probabilmente una divinizzazione di un
antico clan irlandese);
3) ai druidi era, infine, legato l'aspetto della
saggezza dell'Oiw (“Skiant”). Tale aspetto nasceva
dall'unione (cioè, in un'ottica fortemente sincretica
come quella celtica, dal compimento e perfezionamento)
di principio maschile e femminile e rappresentava l'Oiw
nella sua interezza, attraverso il collegamento con il
simbolo solare.
A partire da questo “informare di sé” che l'Oiw compie
su tutti i livelli della società, la penetrazione, più o
meno consapevole, della “filosofia della forza” si
attua, nel concreto, in ogni aspetto della vita celtica,
attraverso un intensa opera di sviluppo di corollari che
si diramano dalla concezione di base fino a formare un
sistema di pensiero omninglobante.
Così, ad esempio, tutte le manifestazioni della natura,
anche quelle più violente, vengono vissute come un'
incarnazione dell'energia assoluta che presiede alla
creazione e alla distruzione del mondo, in un processo
ciclico di nascita e morte che si rinnova continuamente
e da cui deriva anche il concetto celtico della
reincarnazione. Da questa concezione ciclica dei tempi e
degli eventi e non, come molti ritengono, dalla paura o
dalla superstizione (comunque ben presente a livello
popolare) nasceva l'assoluto rispetto per la natura,
vista, con un ottica quasi orientale, come possibile
sede di reincarnazione.
Se i druidi erano coloro che vivevano immersi nello
“spirito dell'Oiw”, quasi paradossalmente coloro che più
di ogni altro vedevano ogni tratto della loro vita
concreta completamente influenzato da questa “filosofia
della forza” non erano loro (e, anzi, la loro posizione
privilegiata di intellettuali e “uomini sacri” preposti
al contatto e, per certi versi, all'“incanalamento”
della Forza, i sacerdoti celti finivano per essere più
liberi delle altre classi sociali dalle maglie
tradizionali che questa concezione imponeva a tutta la
società) ma i guerrieri.
Qual'era il senso dell'essere guerrieri all'interno di
un clan o di una tribù?
Si arrivava a esercitare la funzione guerriera solo dopo
una lunga e articolata iniziazione che includeva tanto
il rito del passaggio dalla minore alla maggiore età,
che per il giovane celta avveniva a diciassette anni,
quanto l'addestramento a passare da uno stato normale a
uno stato superiore di coscienza, che comportava la
capacità di attivare e controllare energie straordinarie
al momento del combattimento.
In questo modo, sia sul piano sociale sia su quello
operativo il guerriero diveniva semplicemente una
completa l'incarnazione dell'Oiw.
Solo dopo tale addestramento il guerriero, assunto in
piena consapevolezza il suo ruolo sociale, morale e
religioso, godeva della protezione divina. Da quel
momento in poi, egli doveva divenire, in qualunque
momento della sua vita, espressione vivente della Forza
e anche per questo, durante il periodo di preparazione,
viveva solo insieme ad altri maschi, fino al momento del
matrimonio, anche dopo il quale continuava, comunque, a
frequentare prevalentemente comunità maschili.
L'Oiw segnava ogni suo gesto: dai grandi banchetti, vere
e proprie agapi in cui, tra abbondanti libagioni (anche
il mangiare e bere molto erano espressioni della Forza),
non solo si rinnovavano i rituali di coesione interni al
clan, ma, attraverso il canto di gesta eroiche, si
otteneva il riconoscimento per il propria Oiw (per i
celti la fama era la cosa più importante) e,
eventualmente, attraverso duelli, si risolvevano le
contese interpersonali, alla scelta dell'acconciatura (a
cui si prestava grande importanza, con chiome fluenti,
spesso tenute dritte con impacchi di gesso, che erano
considerate una riprova della prestanza fisica del loro
proprietario).
Naturalmente, però, il luogo principe per la
dimostrazione del proprio Oiw era il campo di battaglia.
Il guerriero celta, in battaglia, si dipingeva il volto
(normalmente di blu), urlava a squarciagola e, si è
detto, combatteva praticamente nudo.
Ognuno di questi gesti aveva un senso rituale molto
forte: si urlava sì per spaventare il nemico, ma
soprattutto per accrescere, quasi a livello
parossistico, il “furor” omicida che la Forza faceva
nascere dentro di sé; ci si dipingeva il volto per
attirare e convergere le forze della natura verso la
propria testa, sede dell'Oiw; soprattutto, si combatteva
nudi per avere il massimo contatto con il nemico, con il
suo sangue e con la terra, che infondeva il "calore del
furore".
Oggi, in molti hanno cercato una spiegazione a questa
“brama bellicosa” che colpiva i guerrieri celti (in
particolare le truppe scelte, chiamate Gaesati).
Si è pensato che, in gran parte, fosse provocata, come
per i Mau-Mau keniani 2000 anni dopo, dall'utilizzo di
stupefacenti (in particolare derivati dall'Amanita
Muscaria o della Digitale), il che spiegherebbe perché
molti guerrieri, al termine della battaglia,
stramazzassero al suolo svenuti o, addirittura morissero
per attacchi cardiaci. In realtà però, sembra più
probabile che le famose pozioni celtiche (o Soma,
quelle, per intenderci, parodiate in Asterix),
avessero solo un effetto placebo e che il vero nucleo
costitutivo del furor derivasse da una sorta di
suggestione collettiva che, coltivata fin dall'infanzia
in durissimi addestramenti (anche contro animali feroci,
con i quali era necessario sorgesse una particolare
empatia imitativa), portava, in momenti di particolare
tensione, a tratti di schizofrenia allucinatoria
indotta.
Ciò che è certo, è che il concetto dell'Oiw fu, in buona
parte, causa dell'annientamento bellico delle
popolazioni celtiche da parte dei Romani.
Mossi dall'Oiw, i guerrieri celti prediligevano il corpo
a corpo e la carica d'impeto. Per questo con le spade
colpivano, menando dei fendenti, che non si rivelavano
mai colpi mortali. Polibio racconta addirittura che le
loro spade si piegavano dopo i primi colpi.
Gli scudi, poi, ben rifiniti ed incisi, erano piccoli
rispetto al corpo, sempre perché i Celti confidavano
nell’impeto dell’assalto. Dunque i Celti, per via del
loro furore e della scarsa tattica, erano destinati a
perdere le battaglie contro un esercito organizzato,
cosa che, contro Roma, puntualmente avvenne.
A Roma, il furor era stato, in qualche modo,
bandito fin dal periodo arcaico. Ce lo testimonia, ad
esempio, il racconto di uno dei primi scontri che vide i
Quiriti contrapporsi agli Etruschi, in cui il figlio del
condottiero romano, preso dal furore guerresco, esce
dalle ordinate fila dei suoi per scagliarsi contro il
nemico, e per tutta risposta viene abbattuto dal suo
stesso genitore che afferma: “Che questo sia da
monito a chi non rispetta la disciplina”. Il
furor, dunque, sacro alle altre popolazioni
indeuropee (Germani, Celti, Achei), dai Romani viene
represso perché elemento incontrollabile e
destabilizzante e questa risulterà la loro arma
vincente.
Il legionario, come lo spartano prima di lui, non
manifestava apparente ira, fino al momento in cui il suo
superiore urlava “Mars Exurgis”. Quello era il
segno che il Dio era presente, che ogni membro
dell'unità era membra di Marte stesso: solo allora i
‘silenziosi’ legionari emettevano il loro urlo di
guerra, perfettamente sincronico, perfettamente
terrificante.
Soltanto in pochissimi casi i celti, come testimonia
Tito Livio trattando della battaglia di Sentino,
copiarono modelli militari ordinati, come la
“testuggine”, ma, nella maggior parte dei casi, proprio
per la valenza costitutiva che l'Oiw assumeva in tutto
il loro modus vivendi, rimasero sempre ancorati ad un
sistema bellico basato sul furor.
Questa particolarità, tra l'altro, costituì un serio
pericolo per Annibale, nella sua calata in Italia,
poiché, in battaglia, la parte celtica del proprio
fronte di attacco era la prima a cedere. Il generale
punico seppe utilizzare questo potenziale difetto a
proprio vantaggio, inserendo i Celti al centro del
proprio schieramento, dando origine alla sua famosa
tattica a tenaglia, nella quale il centro cedeva e
risucchiava il nemico che veniva finito dalle ali, ove
era presente la cavalleria, ma una tale idea non sfiorò
mai, neppure minimamente, le menti dei condottieri
galli.
L'unico re celtico che capì che in battaglia bisognava
usare una strategia oltre al furore fu il gallo
Vercingetorige (del quale, per altro, non sappiamo il
vero nome, dal momento che “vercingetorix” significa
unicamente “comandante militare”), che mirava a colpire
gli approvvigionamenti dei Romani, ottenendo qualche
successo e avendo compreso che se avesse accettato lo
scontro diretto con i Romani avrebbe perso, ma un tale
sviluppo militare rimase un caso isolato.
Così, l'individualismo guerriero basato sul “furor”
dell'Oiw venne meno al confronto con la fredda e
calcolata strategia militare.
In questo modo, dunque, la più grande civiltà dell'età
del ferro, con la sola eccezione di Scozia e Irlanda,
venne sottomessa, inglobata nell'Impero, colonizzata e
romanizzata, snaturandosi e finendo per scomparire per
oltre 2000 anni.
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