FUGA DAL CARCERE
1944: La liberazione di Giovanni Roveda
di Raffaele Pisani
È la testimonianza per un’azione
generosa e temeraria della
Resistenza veronese compiuta da sei
intrepidi gappisti il 17 luglio del
1944: la liberazione di Giovanni
Roveda dal carcere degli Scalzi. Era
una figura di primo piano nel
Partito Comunista, di cui aveva
partecipato alla fondazione nel 1921
con Bordiga, Gramsci, Togliatti e
Terracini; era stato anche
segretario della Camera del Lavoro
di Torino.
Gianfranco De Bosio (1924-2022)
negli ultimi anni di vita racconta
in un libro con passione e lucidità
quest’impresa, inserendola nella
situazione generale di Verona dal
settembre del 1943 alla primavera
del ’45.
Nella città, che era già
praticamente in mano ai Tedeschi a
seguito dell’operazione Alarico
iniziata subito dopo il 25 luglio,
nei giorni immediatamente seguenti
l’8 settembre si verificarono
significative azioni di resistenza
da parte di reparti militari e di
gruppi di civili. Gli eventi
successivi che porteranno
all’istituzione della Repubblica
Sociale Italiana faranno di Verona
la sede di importanti comandi
germanici, di uffici della neonata
repubblica fascista, di tribunali di
guerra e di ben sette prigioni.
Ma anche le forze che si opponevano
ai nazifascisti si stavano
organizzando, già nel ’43 si formò
il primo Comitato di liberazione
nazionale cittadino, che ebbe vita
breve, come il secondo dell’anno
successivo, che subì dolorose
perdite. Nel pronao del palazzo
comunale si ricordano i nomi dei
deportati che terminarono la loro
vita nei lager nazisti: Guglielmo
Bravo, Angelo Butturini, Giuseppe De
Ambrogi, Giovanni Domaschi, Giuseppe
Marconcini, Pietro Meloni, Francesco
Vivani. Accanto a questi stanno
idealmente tanti altri nomi di
quanti nella città e nella provincia
ebbero a soffrire persecuzione,
deportazione e morte.
De Bosio farà parte del terzo
Comitato, quale rappresentante della
componente democratico cristiana,
sarà quello che vedrà la Liberazione
del 25 aprile. Venne incaricato di
questo impegnativo compito da Egidio
Meneghetti, capo del Partito
d’Azione veneto e professore
all’Università di Padova, che De
Bosio, studente non ancora ventenne,
frequentava. Così racconta: «Il
Cln Veneto si era costituito in seno
all’Università di Padova, dove io
stesso ero studente, con i
professori Silvio Trentin, Concetto
Marchesi ed Egidio Meneghetti, per
l’appunto, che costituivano il punto
di forza dell’attività clandestina»
(De
Bosio 2021, p. 22). Fra le
mura dell’Ateneo c’era un certo
spazio per l’azione degli
antifascisti, è De Bosio stesso che
racconta di scritte e manifesti e
anche di ordigni preparati nei
sotterranei dell’Istituto di
Farmacologia e fatti esplodere in
almeno due occasioni.
A Verona, sua città natale, sotto
falso nome era almeno nell’immediato
un po’ più al sicuro dalla rabbiosa
reazione dei servizi di repressione
italiani e tedeschi e poteva anche
agire per portare a termine
l’incarico assegnatogli. È in questa
situazione che ha avuto modo di
osservare e ha creduto bene di
descrivere, a tanti anni di
distanza, quanto accadeva nel
carcere degli Scalzi. In questa
prigione ricavata da un ex convento
dei Padri Carmelitani ebbero a
soggiornare, in qualche caso anche
contemporaneamente, fascisti e
antifascisti: i membri del Gran
Consiglio che il 25 luglio del ’43
avevano sfiduciato Mussolini e gli
oppositori al regime come appunto
Giovanni Roveda, e anche alcuni alti
ufficiali del Regio Esercito.
De Bosio annota ciò che vede
personalmente: una città spettrale,
sotto il giogo delle truppe
nazifasciste presenti in misura
maggiore rispetto ad altre città; la
sua posizione all’imbocco della
valle dell’Adige e i suoi importanti
nodi stradali e ferroviari la
predisponevano particolarmente alle
incursioni aeree anglo-americane e
certi quartieri erano diventati un
ammasso di rovine. Ciò che succedeva
dentro le mura del carcere lo ha
saputo dal racconto che ne ha fatto
Roveda stesso, qui condotto nei
primi giorni del 1944, in tempo per
sentire le voci e i rumori degli
imputati, mentre andavano e
tornavano delle udienze del processo
ai traditori del fascismo che si
teneva in Castelvecchio.
Erano solo sei, perché gli altri
erano riusciti a mettersi in salvo,
i loro nomi sono i seguenti: Tullio
Cianetti, Galeazzo Ciano, Emilio De
Bono, Luciano Gottardi, Giovanni
Marinelli e Carlo Pareschi; solo
Cianetti evitò la condanna a morte
che colpì gli altri cinque. Anche
Ciano, genero di Mussolini, non poté
sfuggire alla fucilazione, che fu
eseguita l’11 gennaio a Forte
Procolo. Roveda nella sua cella
rifletteva su quello che stava
succedendo e pensava quando sarebbe
toccato a lui, non sapeva che fuori
qualcuno progettava di liberarlo.
De Bosio in un colloquio con Idelmo
Mercandino, attivista comunista che
operava per il costituendo Cln
veronese, venne a sapere cose
interessanti: «Roveda adesso è
qui, a Verona. Lo hanno incarcerato
agli Scalzi e vogliono giustiziarlo.
Noi del partito stiamo pensando a un
piano per farlo evadere». Si
trattava certo di un’impresa
difficile, al limite
dell’impossibile; doveva essere ben
pianificata ma bisognava far presto
perché l’esecuzione di Roveda si
prospettava come imminente.
Un giorno di maggio, don Chiot,
cappellano delle carceri, annunciò a
Roveda che la moglie Caterina veniva
a fagli visita, non la vedeva da
tanti anni e l’emozione di entrambi
era molto grande. Quando la mise al
corrente del progetto d’evasione lei
rispose: «Lo so. Ne ho già
parlato con i compagni di Roma. So
cosa devo fare, abbiamo già ideato
un piano, dobbiamo solo metterlo a
punto» (De
Bosio 2021, p. 84).
Non ebbero alcun esito alcuni
tentativi di evasione con il
classico “buco nel muro” né con
copie di chiavi nonostante, ironia
della sorte, avesse ricevuto l’aiuto
di Tulio Cianetti, che risparmiato
dalla fucilazione stava scontando la
sua pena detentiva. Occorreva un
gruppo capace di entrare nel carcere
per liberare il prigioniero. I
cinque gappisti che erano stati
scelti per la squadra di Verona
erano coraggiosi e scaltri, gente
“di fegato”. De Bosio scrive che: «Si
trattava di cinque ufficiali
dell’esercito: Berto Zampieri,
Emilio Bernardinelli, Lorenzo Fava,
Danilo Preto, Vittorio Ugolini»
(De
Bosio 2021, p. 88). A essi si
aggiunse Aldo Petacchi mandato dalla
resistenza milanese.
Non tutto andò come sperato, il 14
luglio Radio Londra diffuse la
notizia che Roveda era fuggito dal
carcere, questo portò a un
rafforzamento della sorveglianza.
Altre contingenze portarono a
differire l’assalto di un paio di
giorni, si arrivò così al 17 luglio.
«A bordo della Lancia Artena
Erano partiti alle 17.30 da Borgo
Trento, in piazza Cittadella si
erano fermati a caricare Lorenzo
Fava e Vittorio Ugolini e avevano
poi proseguito fino al carcere degli
Scalzi, passando per corso Vittorio
Emanuele» (De
Bosio 2021, p. 92).
Bernardinelli, sceso dalla vettura
suonò alla porta, l’abbigliamento
borghese elegante e l’atteggiamento
calmo e sicuro trassero in inganno
la guardia, che aprì pensando si
trattasse di un agente dei servizi
segreti. Pistola alla mano, disarmò
la guardia, intanto altri quattro lo
seguirono lasciando uno solo alla
vettura. Senza sparare riuscirono a
neutralizzare le altre guardie e a
portar fuori Roveda; è in quel
momento che si cominciarono a
sentire i primi spari che
provenivano dalle finestre del
carcere. I gappisti scaricarono i
loro parabellum e lanciarono una
bomba a mano nel cortile per creare
scompiglio e garantirsi la fuga.
Sulla macchina, crivellata di colpi
e con una gomma forata finalmente
riuscirono a salire, alcuni erano
feriti, Danilo Preto il più grave.
Poi finalmente partirono per Borgo
Trento dove trovarono riparo in un
fabbricato del dottor Casu; il fatto
che ci fossero feriti, non si sa
quanto gravi, portò a dei
cambiamenti di programma. Scesero
qui Roveda, ferito all’inguine,
Zampieri, Petacchi e Ugolini;
Bernardinelli, che era alla guida,
con Preto e Fava cercò scampo nella
zona di Porto San Pancrazio.
Vista l’impossibilità di proseguire,
ferito ma in grado di muoversi,
lasciò la vettura con l’idea di
cercare soccorsi. Su questo punto De
Bosio non si dilunga, sappiamo da
altre fonti che i due feriti furono
presi dalla polizia e ricoverati
all’ospedale, il primo morì quasi
subito, Fava invece ebbe il tempo di
riprendersi, torturato invano perché
rivelasse i nomi dei gappisti, venne
lasciato morire per mancanza di cure
e altre privazioni. L’Università di
Padova che lo aveva visto studente
gli conferì la laurea ad honorem.
Giovanni Roveda, ma anche Petacchi e
Ugolini, i primi due con gravi
ferite, furono ospitati dalla
famiglia Dabini; la polizia fascista
che era sulle loro tracce fu sul
punto di catturarli, un
provvidenziale allarme aereo li
salvò. Era necessario cambiare aria
e allontanarsi da Verona, Roveda,
pur limitato dalle ferite ebbe modo
di continuare la sua attività nella
Resistenza prima a Milano e poi a
Torino, sua città natale.
A liberazione avvenuta ha ricoperto
la carica di sindaco della città
subalpina fino al 2 giugno del 1946,
quando fu eletto all’Assemblea
Costituente. Per i numerosi
contributi che la città ha offerto
in questo travagliato periodo
bellico, nel 1993 è stato conferito
questo solenne riconoscimento:
IL
PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
CONCEDE AL COMUNE DI VERONA
MEDAGLIA D’ORO AL VALOR MILITARE
“CITTA’ DI NOBILI TRADIZIONI
PATRIOTTICHE,
DAL RISORGIMENTO ALLA SECONDA GUERRA
MONDIALE PIU’ VOLTE VESSATA DA
OPERAZIONI
MILITARI E DA ESERCITI STRANIERI,
VERONA
OFFRI’ ALLA RESISTENZA L’OLOCAUSTO
DEL SUO
SECONDO COMITATO DI LIBERAZIONE
NAZIONALE
CHE VI ORGANIZZO’ LA GUERRIGLIA E
VENNE
STERMINATO NEI CAMPI NAZISTI; IL
SANGUE DEI
SUOI CONCITTADINI DEL CORPO ITALIANO
DI
LIBERAZIONE E DI QUANTI
VOLONTARIAMENTE
COMBATTERONO LONTANI DALLA PATRIA;
IL
SACRIFICIO DEGLI INTERNATI MILITARI
NEI LAGER
E QUELLO DEI DEPORTATI POLITICI E
RAZZIALI.
L’ARMISTIZIO DELL’8 SETTEMBRE 1943
VI
SUSCITO’ LA STRENUA DIFESA DI POPOLO
E DI
MILITARI DELL’8°REGGIMENTO
ARTIGLIERIA; IL 17
LUGLIO 1944 VIDE L’AUDACE ASSALTO AL
CARCERE DEGLI “SCALZI; LA NOTTE SUL
26
APRILE 1945 LA SOLIDARIETA’ DEL
POPOLO DI
AVESA NELLO SGOMBERO DELL’IMMENSA
POLVERIERA TEDESCA, PER LA SALVEZZA
DELLA
CITTA’. FEDELE CUSTODE DELLE SUE
GLORIE
MILITARI, ESPRESSE IN NUMEROSE
DECORAZIONI
AL VALORE, NON DOMA DAI
BOMBARDAMENTI
DEVASTANTI, DALLE DEPORTAZIONI,
DALLE
INSIDIE DELLE VARIE POLIZIE, DALLE
REPRESSIONI, FUCILAZIONI,
DISTRUZIONI DI
INTERE CONTRADE CHE COLPIRONO LA
PIANURA
E LA MONTAGNA, FU DEGNA PROTAGONISTA
DEL
SECONDO RISORGIMENTO D’ITALIA”
ROMA, 5 OTTOBRE 1993
Riferimenti bibliografici:
Gianfranco De Bosio, Fuga dal
carcere. 1944. La liberazione di
Giovanni Roveda, Neri Pozza
Editore, Vicenza 2021.