Friedrich
Hölderlin
UN poeta tra il cielo
e l’abisso
di Gaetano
Cellura
La natura luminosa d’immagini
schiude all’uomo il cuore del mondo;
e di letizia, bontà e virtù glielo
riempie. La natura con le sue aurore
e le sue stagioni. Il rigoglio degli
alberi, il “frutto dei raccolti”, il
profumo dei fiori. E con la mite
primavera, quando “l’uomo scorda i
tormenti dello spirito”.
Nella natura, che gli “abbellisce i
giorni”, è la sua salvezza. E se di
“alta mente” l’uomo è dotato, nuove
“ambizioni intime” animeranno il suo
spirito e potrà allora “conoscere il
senso sovrano della vita”. La natura
rimane. Il tempo passa.
Anima sensibilissima che si cullava
in sogni sin dalla fanciullezza:
questo era il poeta Friedrich Hӧlderlin,
adoratore delle querce “cariche
d’anni, e l’una all’altra ignota” –
“felice abiterei per sempre,/figlie
della montagna, in mezzo a voi!”.
Adoratore delle querce e poeta dalla
vita dimezzata e illusoria, come
scrive Wilhelm Waiblinger, il suo
più affezionato biografo, autore di
Hӧlderlin,
Vita, poesia e follia.
Anche il vento del Nordest,
d’infuocato spirito, gli era caro.
Il vento della sua ispirata Andenken
(Rimembranza). E le cullanti brezze
di marzo, quando giorno e notte sono
uguali e dorati e dolci i sogni tra
le ombre. Nonché i giovani poeti,
che chiamava fratelli e cui chiedeva
d’esser “pii, come furono i Greci”.
All’Ellade è legata l’anima del
poeta. Simbiosi di natura, sogno e
Grecia antica fu la sua poesia. “Con
avidità insaziabile – scrive
Waiblinger – si dissetava a quelle
fonti di pura bellezza, a quei
frutti della natura più integra, del
pensiero più semplice,
dell’ambizione più illimitata”.
Nel suo Iperione o l’eremita in
Grecia, romanzo epistolare e insieme
raccolta di liriche, pubblicato tra
il 1797 e il 1799, racconta
all’amico Bellarmin il suo amore per
Diotima, ”ellenica fanciulla”; parla
del destino – un destino che
prefigura il suo – e mette in campo
divinità della natura e divinità
greche, che per lui erano tutt’altro
che astratte.
Nella luce del cielo, sul morbido
suolo delle nuvole queste divinità
si aggirano, sfiorate da “raggianti
aure”. A contrasto degli uomini, che
“ciecamente giù cadon, nell’Incerto,
qual di balza in balza onda
sbattuta”.
Se nel cielo è la luce, l’olimpica
serenità, nell’incerto abisso,
sprofondo di vulcano, è il mistero
del mondo. Nelle fiamme dell’Etna si
scaglia Empedocle, vate eroico. Nel
“calice in fermento” immola la sua
poetica ricchezza.
Al pari del filosofo agrigentino, Hӧlderlin
anela all’indistinto Tutto,
all’unione di spirito e natura che
solo come martirio si realizza.
Poesia e follia hanno lo stesso
volto. E l’una vibra come l’altra.
In Empedocle e nel suo suicidio, Hӧlderlin
vede la grecità ricostruita, la
dissoluzione come rinascita mediata
dal fuoco, il divino che rivive
nella natura, il sacrificio del
poeta come necessario alla
rigenerazione di un mondo dominato
dalla cupa notte.
L’Iperione e le tre stesure della
tragedia In morte di Empedocle,
tutt’e tre rimaste incomplete,
vengono composti, gigli candidi
della sua giovinezza, negli anni di
maggiore creatività di Hӧlderlin,
tra il 1792 e il 1800.
Il ritorno all’antico, la fuga nella
Grecia del mito rappresenta per il
poeta tedesco una nuova età del
mondo, l’uscita dalla sua Notte, da
un tempo esistenziale avvertito come
di profonda crisi. Spirituale e
culturale.
Ma presto il poeta capisce che
nemmeno lì, nel ritorno alla
bellezza del mondo antico, si trova
rimedio alla Notte, al cielo vuoto e
senza Dio. Ed è anche per questo,
crediamo, che le tre stesure
dell’Empedocle, restano incomplete.
Perché questa ansiosa ricerca di
classica bellezza, di una nuova età
del mondo rimane nel suo autore
insoddisfatta.
E allora non gli resta altro che
principiare il suo dialogo con i
fantasmi. Empedocle sprofonda e
brucia tra le fiamme dell’Etna. Hӧlderlin,
come lui vagabondo lirico,
lentamente si perde nei labirinti
della follia.
La vita del pensatore e poeta,
iniziatore dell’idealismo tedesco, è
perfettamente divisa in due metà.
Sino ai trentasei anni, cioè sino al
1806, il nostro Friedrich è sano di
mente. Da quel momento si
manifestano in lui i primi accessi
di follia. Probabilmente originati
da varie cause.
Tra queste: il carattere eccentrico
e malinconico che lo porta spesso a
isolarsi da tutti, gli studi
teologici in cui pur eccelle ma
verso cui non mostra alcuna
disposizione, l’ansia di uscire
dalla dimensione regionale e di
veder riconosciuto il proprio
talento (apprezzato da Schiller ma
non da Goethe), un cristianesimo che
avverte come privo di misticismo,
l’impossibilità di esprimere
l’impensato e l’aorgico; e infine ma
non ultimo l’amore segreto e
impossibile per una donna sposata:
Susette Gontard, la sua idealizzata
Diotima.
Quando il loro amore venne scoperto
e finì, continuarono a tenerlo
appassionatamente vivo scrivendosi.
E si promisero di ritrovarsi, come
magnificamente racconta Waiblinger,
in una stella guardata insieme nello
stesso momento.
Fu poi la notizia della morte (per
rosolia) di Susette a sconvolgerlo
del tutto e a procurargli
quell’accesso di follia da cui più
non si riprese. Le condizioni di Hӧlderlin
peggiorarono al punto da renderne
necessario il ricovero al Klinikum
di Tubinga, dove rimase due anni.
Dimesso, trova accoglienza nella
casa del colto falegname Zimmer, la
cosiddetta Torre, una casetta con
vista sul fiume Neckar. Lì
incomincia, isolato dal mondo, la
seconda parte della sua vita.
Tra le cose che continua a fare
quando qualche amico, raramente, va
a visitarlo c’è quella di suonare il
pianoforte o il violino, oppure di
scrivere versi, di getto su dei
foglietti, e di regalarli ai
visitatori che gliene facevano
richiesta.
Sono le Poesie della Torre cui
metteva strane e impossibili date –
1641, 1748 – e che firmava con falsi
nomi: Scardanelli, Buonarroti,
Salvator Rosa. Solo una volta, ci
dice Waiblinger,”li suggellò con un:
Vostro umilissimo Hӧlderlin”.
Si trattava di versi confusi,
soprattutto gli ultimi, ma che pur
dimostrano in qualche modo come
nella malattia il poeta fosse in lui
sopravvissuto al pensatore. Il
libero verso alla durezza del
pensiero. Un dio è l’uomo che sogna,
un mendicante l’uomo che riflette,
aveva scritto quando era ancora sano
di mente.
Chiamava gli amici Vostra Maestà
oppure Vostra Santità o Reverendo
Padre. Non parlava mai del passato,
amava fiutare tabacco e passeggiare
con Waiblinger sulle sponde del
Neckar.
Sul tavolo aveva pochi libri: tra
cui le Odi di Klopstock e, sempre
aperto, il suo Iperione. Più volte
l’affettuoso amico gli disse che era
stato ristampato e che stavano per
essere pubblicate anche le sue
poesie. Lui rispondeva sempre con un
inchino e con le stesse parole: “Voi
siete assai misericordioso, signor
Waiblinger! Io vi sono molto
obbligato”.
Trascorse la seconda parte della
vita tra deliri, allucinazioni,
smemoratezze. Parlava da solo, si
poneva domande e si rispondeva con
un sì o con un no,”spesso in
entrambi i modi”.
Dopo la morte di Zimmer, fu la
figlia del falegname a prendersi
cura di lui nella Torre. Morto nel
1843, il folle Hӧlderlin
sopravvisse anche a Waiblinger che,
giovanissimo, muore di tisi a Roma,
dove è sepolto; e che era stato uno
dei primi a riconoscerne la
grandezza poetica.
Della natura Hӧlderlin
ha un sentimento panteistico. In lei
vive il divino e il poeta deve
esserne l’instrumentum vocale. Per
lui, come dimostra la fine di
Empedocle, dissoluzione e rinascita
sono inscindibili, divenire nel
trapassare.
E gli elementi dell’universo in
perpetuo scontro. Per il filosofo
Remo Bodei il poeta tedesco era più
avanti del proprio tempo. E forse
per questo si è capito in ritardo
che proprio con lui inizia la poesia
moderna.