[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 203 / NOVEMBRE 2024 (CCXXXIV)


arte

Friedrich Hölderlin
UN poeta tra il cielo e l’abisso

di Gaetano Cellura

 

La natura luminosa d’immagini schiude all’uomo il cuore del mondo; e di letizia, bontà e virtù glielo riempie. La natura con le sue aurore e le sue stagioni. Il rigoglio degli alberi, il “frutto dei raccolti”, il profumo dei fiori. E con la mite primavera, quando “l’uomo scorda i tormenti dello spirito”.


Nella natura, che gli “abbellisce i giorni”, è la sua salvezza. E se di “alta mente” l’uomo è dotato, nuove “ambizioni intime” animeranno il suo spirito e potrà allora “conoscere il senso sovrano della vita”. La natura rimane. Il tempo passa.


Anima sensibilissima che si cullava in sogni sin dalla fanciullezza: questo era il poeta Friedrich H
ӧlderlin, adoratore delle querce “cariche d’anni, e l’una all’altra ignota” – “felice abiterei per sempre,/figlie della montagna, in mezzo a voi!”. Adoratore delle querce e poeta dalla vita dimezzata e illusoria, come scrive Wilhelm Waiblinger, il suo più affezionato biografo, autore di Hӧlderlin, Vita, poesia e follia.


Anche il vento del Nordest, d’infuocato spirito, gli era caro. Il vento della sua ispirata Andenken (Rimembranza). E le cullanti brezze di marzo, quando giorno e notte sono uguali e dorati e dolci i sogni tra le ombre. Nonché i giovani poeti, che chiamava fratelli e cui chiedeva d’esser “pii, come furono i Greci”.


All’Ellade è legata l’anima del poeta. Simbiosi di natura, sogno e Grecia antica fu la sua poesia. “Con avidità insaziabile – scrive Waiblinger – si dissetava a quelle fonti di pura bellezza, a quei frutti della natura più integra, del pensiero più semplice, dell’ambizione più illimitata”.


Nel suo Iperione o l’eremita in Grecia, romanzo epistolare e insieme raccolta di liriche, pubblicato tra il 1797 e il 1799, racconta all’amico Bellarmin il suo amore per Diotima, ”ellenica fanciulla”; parla del destino – un destino che prefigura il suo – e mette in campo divinità della natura e divinità greche, che per lui erano tutt’altro che astratte.


Nella luce del cielo, sul morbido suolo delle nuvole queste divinità si aggirano, sfiorate da “raggianti aure”. A contrasto degli uomini, che “ciecamente giù cadon, nell’Incerto, qual di balza in balza onda sbattuta”.


Se nel cielo è la luce, l’olimpica serenità, nell’incerto abisso, sprofondo di vulcano, è il mistero del mondo. Nelle fiamme dell’Etna si scaglia Empedocle, vate eroico. Nel “calice in fermento” immola la sua poetica ricchezza.


Al pari del filosofo agrigentino, H
ӧlderlin anela all’indistinto Tutto, all’unione di spirito e natura che solo come martirio si realizza. Poesia e follia hanno lo stesso volto. E l’una vibra come l’altra.
In Empedocle e nel suo suicidio, H
ӧlderlin vede la grecità ricostruita, la dissoluzione come rinascita mediata dal fuoco, il divino che rivive nella natura, il sacrificio del poeta come necessario alla rigenerazione di un mondo dominato dalla cupa notte.


L’Iperione e le tre stesure della tragedia In morte di Empedocle, tutt’e tre rimaste incomplete, vengono composti, gigli candidi della sua giovinezza, negli anni di maggiore creatività di H
ӧlderlin, tra il 1792 e il 1800.


Il ritorno all’antico, la fuga nella Grecia del mito rappresenta per il poeta tedesco una nuova età del mondo, l’uscita dalla sua Notte, da un tempo esistenziale avvertito come di profonda crisi. Spirituale e culturale.


Ma presto il poeta capisce che nemmeno lì, nel ritorno alla bellezza del mondo antico, si trova rimedio alla Notte, al cielo vuoto e senza Dio. Ed è anche per questo, crediamo, che le tre stesure dell’Empedocle, restano incomplete. Perché questa ansiosa ricerca di classica bellezza, di una nuova età del mondo rimane nel suo autore insoddisfatta.


E allora non gli resta altro che principiare il suo dialogo con i fantasmi. Empedocle sprofonda e brucia tra le fiamme dell’Etna. H
ӧlderlin, come lui vagabondo lirico, lentamente si perde nei labirinti della follia.


La vita del pensatore e poeta, iniziatore dell’idealismo tedesco, è perfettamente divisa in due metà. Sino ai trentasei anni, cioè sino al 1806, il nostro Friedrich è sano di mente. Da quel momento si manifestano in lui i primi accessi di follia. Probabilmente originati da varie cause.


Tra queste: il carattere eccentrico e malinconico che lo porta spesso a isolarsi da tutti, gli studi teologici in cui pur eccelle ma verso cui non mostra alcuna disposizione, l’ansia di uscire dalla dimensione regionale e di veder riconosciuto il proprio talento (apprezzato da Schiller ma non da Goethe), un cristianesimo che avverte come privo di misticismo, l’impossibilità di esprimere l’impensato e l’aorgico; e infine ma non ultimo l’amore segreto e impossibile per una donna sposata: Susette Gontard, la sua idealizzata Diotima.


Quando il loro amore venne scoperto e finì, continuarono a tenerlo appassionatamente vivo scrivendosi. E si promisero di ritrovarsi, come magnificamente racconta Waiblinger, in una stella guardata insieme nello stesso momento.


Fu poi la notizia della morte (per rosolia) di Susette a sconvolgerlo del tutto e a procurargli quell’accesso di follia da cui più non si riprese. Le condizioni di H
ӧlderlin peggiorarono al punto da renderne necessario il ricovero al Klinikum di Tubinga, dove rimase due anni. Dimesso, trova accoglienza nella casa del colto falegname Zimmer, la cosiddetta Torre, una casetta con vista sul fiume Neckar. Lì incomincia, isolato dal mondo, la seconda parte della sua vita.


Tra le cose che continua a fare quando qualche amico, raramente, va a visitarlo c’è quella di suonare il pianoforte o il violino, oppure di scrivere versi, di getto su dei foglietti, e di regalarli ai visitatori che gliene facevano richiesta.


Sono le Poesie della Torre cui metteva strane e impossibili date – 1641, 1748 – e che firmava con falsi nomi: Scardanelli, Buonarroti, Salvator Rosa. Solo una volta, ci dice Waiblinger,”li suggellò con un: Vostro umilissimo H
ӧlderlin”.


Si trattava di versi confusi, soprattutto gli ultimi, ma che pur dimostrano in qualche modo come nella malattia il poeta fosse in lui sopravvissuto al pensatore. Il libero verso alla durezza del pensiero. Un dio è l’uomo che sogna, un mendicante l’uomo che riflette, aveva scritto quando era ancora sano di mente.


Chiamava gli amici Vostra Maestà oppure Vostra Santità o Reverendo Padre. Non parlava mai del passato, amava fiutare tabacco e passeggiare con Waiblinger sulle sponde del Neckar.


Sul tavolo aveva pochi libri: tra cui le Odi di Klopstock e, sempre aperto, il suo Iperione. Più volte l’affettuoso amico gli disse che era stato ristampato e che stavano per essere pubblicate anche le sue poesie. Lui rispondeva sempre con un inchino e con le stesse parole: “Voi siete assai misericordioso, signor Waiblinger! Io vi sono molto obbligato”.


Trascorse la seconda parte della vita tra deliri, allucinazioni, smemoratezze. Parlava da solo, si poneva domande e si rispondeva con un sì o con un no,”spesso in entrambi i modi”.


Dopo la morte di Zimmer, fu la figlia del falegname a prendersi cura di lui nella Torre. Morto nel 1843, il folle H
ӧlderlin sopravvisse anche a Waiblinger che, giovanissimo, muore di tisi a Roma, dove è sepolto; e che era stato uno dei primi a riconoscerne la grandezza poetica.


Della natura H
ӧlderlin ha un sentimento panteistico. In lei vive il divino e il poeta deve esserne l’instrumentum vocale. Per lui, come dimostra la fine di Empedocle, dissoluzione e rinascita sono inscindibili, divenire nel trapassare.


E gli elementi dell’universo in perpetuo scontro. Per il filosofo Remo Bodei il poeta tedesco era più avanti del proprio tempo. E forse per questo si è capito in ritardo che proprio con lui inizia la poesia moderna.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]