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N. 138 - Giugno 2019 (CLXIX)

LA PARABOLA DEL BOIA FRANZ STANGL

TRA MEMORIA, RIGURGITI NAZIFASCISTI E TEORIE NEGAZIONISTE - PARTE II
di Francesco Cappellani

 

Il campo di Treblinka “era una catena di morte, primitiva, certo, ma che funzionava bene”, così racconta nel dopoguerra il sottufficiale delle SS Franz Suchomel, di stanza in quel lager. I convogli si susseguivano ininterrottamente con un carico medio di 5.000 persone fermandosi davanti a una stazione finta con un grande orologio con le lancette immobili, costruita nel Natale del 1942 su ordine di Stangl per tranquillizzare gli ebrei che arrivavano.

 

Si diceva loro che sarebbero ripartiti per lavorare all’Est. In realtà venivano fatti scendere, spogliati nudi in un apposito reparto, e quindi condotti nelle camere a gas. Tutta l’operazione durava circa tre ore fra l’arrivo del treno e la morte dei deportati. Grazie alle nuove camere a gas che divennero operative all’inizio dell’autunno del 1942, era possibile eliminare 3.000 persone in due ore e da 12.000 a 15.000 vittime al giorno con un massimo di 22.000 morti in 24 ore. Si calcola che dal 1941 al 1943 Stangl sia stato corresponsabile dell’assassinio di circa 900.000 persone.

 

Occorre ricordare che in tutti i campi di concentramento, compreso quello di Birkenau che era la sezione di sterminio di Auschwitz, c’era una speranza seppur modesta di sopravvivere. Nei campi di sterminio, come quello di Treblinka, gli unici che potevano avere qualche probabilità di sopravvivenza, di giorno in giorno, erano i pochissimi “ebrei di lavoro” che provvedevano al funzionamento del lager.

 

Stangl si adopera per rendere il campo esteticamente gradevole facendo piantare alberi sui viali e, nella primavera del 1943, fa costruire anche un piccolo zoo nel quartiere delle guardie. A differenza dei suoi sottoposti delle SS, non si comporta in modo brutale nei confronti degli internati che l’avevano soprannominato “morte bianca” in quanto era vestito sempre con una giacca immacolata con in mano una frusta e spesso si aggirava tra le vittime in sella a un cavallo bianco.

 

L’alcool lo aiuta a sopportare la fatica e la realtà mostruosa del suo lavoro; dirà in seguito che Treblinka era l’inferno dantesco materializzato. Fu giudicato dai comandi nazisti il miglior comandante nella Polonia occupata per il suo encomiabile impegno e capacità nella gestione industriale della logistica dello sterminio.

 

Nell’autunno del 1943 Stangl è inviato a Trieste per operare nella repressione degli antifascisti italiani e dei partigiani jugoslavi nonché degli ebrei presenti nella regione, usando come lager di appoggio la Risiera di San Sabba. All’inizio del 1945 ritorna a Vienna per partecipare all’Alpenfestung (fortezza delle Alpi) dove i gerarchi del Terzo Reich e quello che restava dell’esercito tedesco avrebbero dovuto posizionarsi per l’ultima resistenza contro l’invasione delle truppe alleate.

 

Nell’immediato dopoguerra è catturato dalle forze americane e internato nel lager per gli ex-nazisti di Glasenbach. Condannato nel 1947 nell’Euthanasie Prozess viene incarcerato a Linz, ma nel 1948 riesce a fuggire dirigendosi in Italia dove può contare sull’aiuto di alcuni religiosi.

 

A Roma infatti il vescovo austriaco cattolico Alois Hudal, rettore di Santa Maria dell’Anima e simpatizzante nazista, lo alloggia per un paio di settimane e gli procura un passaporto della Croce Rossa grazie al quale scappa prima in Siria dove lo raggiunge la sua famiglia e, dopo tre anni, nel 1951, in Brasile dove lavora alla Volkswagen do Brasil nella fabbrica di Sao Bernardo do Campo mantenendo il proprio nome e cognome.

 

Nel 1961 le autorità austriache, che sono a conoscenza del suo ruolo nello sterminio di massa di centinaia di migliaia di persone, spiccano un mandato di arresto, ma ci vorranno ancora sei anni prima che Stangl venga individuato dal cacciatore di criminali nazisti Simon Wiesenthal grazie alla delazione per denaro di un ex ufficiale della Gestapo, e arrestato dalla polizia brasiliana il 28 febbraio 1967.

 

Estradato in Germania con molte difficoltà, in quanto il Brasile fino e allora non aveva mai concesso estradizioni per casi simili, al punto che dovette intervenire anche il senatore Robert Kennedy presso l’ambasciata del Brasile a Washington, è processato a Düsseldorf e il 22 dicembre 1970 condannato all’ergastolo. Muore nella prigione di Düsseldorf il 28 giugno del 1971 all’età di 63 anni.

 

Ma al di là della carriera militare brillante e ricca di soddisfazioni e riconoscimenti (l’aveva terminata col grado di SS-Hauptsturmführer), quale era la dimensione umana di Franz Stangl?

 

Su questo tema si è cimentata la giornalista inglese, ma nata a Vienna da padre ungherese, Gitta Sereny che aveva assistito al processo di Norimberga contro i criminali nazisti nel 1945 e al processo a Stangl nel 1970. Dal 2 aprile al 27 giugno del 1971 ha una serie di colloqui per oltre 70 ore col gerarca nel carcere di Düsseldorf dove era detenuto. La giornalista racconterà questi incontri in una serie di articoli sul Daily Telegraph Magazine nel 1971, raccolti poi e ampiamente integrati in un libro esemplare: Into the Darkness.

 

La Sereny, dopo i colloqui, controlla con un impegno quasi ossessivo la veridicità delle testimonianze di Stangl, estendendo le sue indagini a tutto l’entourage dell’ex camp-Kommandant, interrogandone la moglie, le figlie e alcuni suoi colleghi delle SS sopravvissuti, e mettendo inoltre in luce una certa acquiescenza della Chiesa Cattolica sia riguardo al programma di eutanasia, che alle notizie degli stermini degli ebrei in Polonia e sulle fughe di molti gerarchi nazisti nel dopoguerra grazie all’aiuto di alte autorità ecclesiastiche del Vaticano.

 

Le prime schermaglie difensive di Stangl alle accuse della Sereny sono identiche a quelle già sentite in tutti gli altri processi per crimini nazisti: «Lui non aveva fatto nulla di male; c’erano sempre stati altri sopra di lui; lui non aveva fatto altro che obbedire agli ordini; non aveva fatto del male a un solo essere umano. Ciò che era accaduto era una tragedia di guerra».

 

Ma la Sereny incomincia caparbiamente a scavare nel suo passato, a partire dall’infanzia, nel tentativo di trovare una risposta, una spiegazione alla stringente domanda su come una persona sicuramente intelligente, fosse stata alla fine fagocitata dall’ideologia nazista al punto da azzerare in sé ogni scrupolo morale e ogni responsabilità personale, arrivando a collaborare agli efferati progetti di sterminio in piena coscienza e cognizione dell’operato, restando totalmente estraneo e indifferente al destino delle vittime.

 

Mano a mano che il dialogo procede e si fa sempre più franco e consapevole da parte di Stangl, la Sereny realizza che nella personalità complessa e tormentata dell’uomo comincia a affiorare, se non il pentimento, almeno un senso di rimorso per le scelte di vita che avevano finito per incatenarlo dentro un percorso allucinante senza via d’uscita.

 

Appare chiaramente, e non solo nell’intervista a Stangl, ma anche a sua moglie, sua cognata, e a membri delle SS sopravvissuti, “l’orrore della quotidianità vissuta in un campo di sterminio, l’eclissi della coscienza che permette di trattare esseri umani come oggetti inutili dei quali liberarsi, la quantità di cieca e ottusa crudeltà e di morte alla quale – pare incredibile ma è così – ci si riesce e assuefare. Un viaggio spaventoso nel buio dell’animo umano”.

 

Nell’ultimo colloquio, il 27 giugno del 1971, durato quattro ore, Stangl aveva iniziato con la solita frase: «Io non ho mai fatto del male a nessuno, intenzionalmente».

 

Ma, dopo varie domande sul concetto di Dio, Stangl chiede a sua volta: «Se l’uomo ha una meta ch’egli chiama Dio, che cosa può fare per raggiungerla? Lei lo sa?». La Sereny risponde che, nel suo caso, potrebbe essere la ricerca della verità, “il mettersi di fronte a se stesso (…) ciò che ha cercato di fare in queste ultime settimane”.

 

Dopo un lungo intervallo di quasi mezz’ora in cui la Sereny rimane in silenzio, Stangl parla con un tono di stanca rassegnazione: «Ma ero lì. E perciò sì, in realtà, condivido la colpa (…) perchè la mia colpa (…) la mia colpa solo adesso, in queste conversazioni (…) ora che ho parlato (…) ora che per la prima volta ho detto tutto (…)». 

 

Una frase fondamentale, ci aveva messo trent’anni per pronunciarla. Dopo qualche minuto prosegue: «La mia colpa è di essere ancora qui. Questa è la mia colpa (…) avrei dovuto morire».

 

«Bè, lo dice adesso, ma allora?» - «Questo è vero. Ho avuto altri vent’anni, venti buoni anni. Ma, mi creda, adesso preferirei essere morto allora (…) Non ho più speranza» e poi, sempre in tono pacato «e comunque basta così. Porterò a termine queste conversazioni con lei, e poi (…) che sia finita. Che sia finita».

 

Morirà 19 ore dopo la fine del colloquio. Una accurata autopsia confermò che non si era suicidato, ma era morto per problemi cardiaci di cui soffriva da tempo.

 

Secondo la giornalista inglese: «Io credo sia morto allora perché alla fine, sia pure per un momento, s’era messo di fronte a se stesso e aveva detto la verità; era stato uno sforzo ciclopico, per raggiungere quel momento fuggevole in cui era divenuto l’uomo che avrebbe dovuto essere».

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

A. Tiburzi, Franz Paul Stangl, austriaco, il boia dell’eutanasia: con il programma Aktion T4 assassinò cinquemila ragazzi fino ai 16 anni, in “Triangolo Rosso”, anno XXXII, nn. 7-10, luglio-dicembre 2016;

C. Lanzmann, Shoah, Bompiani, Milano 2000;

G. Sereny, Into the darkness (1974), ed. italiana In quelle tenebre, Adelphi, Milano 1975. 



 

 

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