[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

163 / LUGLIO 2021 (CXCIV)


moderna

FRANCISCO DE VITORIA

LA NASCITA DEL DIRITTO INTERNAZIONALE

di Enrico Targa

 

Francisco de Vitoria (1480-1546) titolare della cattedra di Prima Theologia già critico verso la sanguinosa conquista del Perù, raccogliendo la diffusa insofferenza del suo ordine (domenicano) in merito alle forme della presenza spagnola in America, affrontò il tema delle basi giuridiche della conquista nelle sue Relactiones (lezioni solenni tenute davanti all’intero copro docente) de Indis e de iure belli del 1539, che ebbero rilevanti conseguenze anche sul piano della prima formulazione di un diritto internazionale.

 

Vitoria partiva da un dato acquisito della teologia di San Tommaso (1225-1274) basata sul recupero del razionalismo aristotelico e cioè che la rivelazione cristiana perfeziona l’ordine della natura fondato su ragione e morale, e non lo sconvolge come le armi spagnole stavano sconvolgendo la vita delle popolazioni amerinde. Se dunque il diritto divino non cancella, ma completa quello naturale, ne consegue che le società politiche, tutte volute da Dio secondo e non contro la legge di natura, sono espressione dello spontaneo bisogno umano di associarsi per garantirsi sopravvivenza e sicurezza.

 

Come aveva già chiarito nella Relectio de potestate civili (1528), ogni società è pertanto naturalmente perfetta in sé e dotata di un potere politico che non necessita di legittimazioni da parte di autorità superiori, imperiali o pontificie. In quanto rispondenti a questo ordine teologico-razionale, edificato sulla giustizia perché stabilito da Dio, le comunità politiche fondano sé stesse, e le loro relazioni reciproche su un insieme di norme accettate dall’umanità perché scaturenti dalla ragione e dalla morale naturali presenti in tutti gli uomini.

 

Esiste quindi un diritto delle genti naturali (ius gentium naturale) e un conseguente diritto internazionale (ius gentium secondarium), che è la manifestazione storica e e positiva del primo. Entrambi sono universali e giusti e prevedono anche il rispetto della potestas spiritualis, della religione, considerata da Vitoria un diritto naturale.

 

In questo modo, Vitoria portava a definizione teologico-giuridica il tramonto dell’universalismo medievale, giacché dall’autofondazione naturale di ciascuna società derivava che il pontefice non poteva essere un dominus orbis, né poteva esserlo l’imperatore. E derivava altresì che il papa non poteva legittimare nessun dominio di un principe su terre vecchie e nuove, com’era accaduto per le colonie portoghesi e spagnole. Vitoria dunque contestava alla radice la legalità delle conquiste e il diritto pontificio a sanzionarle, negando altresì che la differenza di religione fosse motivo sufficiente per giustificare l’aggressione militare ai popoli amerindi riprendendo il pensiero del noto cardinale Tommaso de Vio detto Caietano e noto per la sua polemica antiluterana (1468-1533).

 

Nella Relectio de Indis Vitoria come de Vio citato nell’opera, sostenne che l’estraneità delle popolazioni d’oltreoceano alla comunità cristiana non inficiava la capacità di potestas e i diritti fondamentali, tra cui quello di proprietà sulle terre. A suo avviso, infatti, lo ius utendi re preesisteva al descubimiento spagnolo ed era stato illecitamente sottratto ai popoli indigeni in base a una loro condizione di peccato ed eresia per la quale sarebbe stata necessaria una sentenza di condanna mai emessa e che in Spagna implicava la confisca dei beni del condannato.

 

Per giungere a questa conclusione Vitoria doveva risolvere il problema del rapporto tra dominium e ius. Sebbene egli ripristinasse la tradizionale dottrina medievale dell’esistenza di un diritto “oggettivo”, trascendente gli individui, la sua affermazione che gli indigeni fossero veri signori (veri domini) delle proprie azioni e dei propri beni, accoglieva di fatto la concezione soggettiva del diritto dei giuristi moderni e apriva la strada all’idea dell’esistenza di diritti inviolabili dell’uomo.

 

La definizione contenuta nel De Indis, del dominium, come facoltà e potere di usare le cose secondo quanto stabilito dalla legge ne faceva un attributo intrinseco del soggetto, finiva per far coincidere il dominium con lo ius, l’ambito delle naturali e libere potestà soggettive con quello giuridico. Ciononostante questa concezione soggettiva dei diritti e della sfera di libertà dell’uomo doveva comunque essere tomisticamente resa compatibile con la legge divina che governa l’ordine naturale del mondo: il principio per cui l’uomo possedeva un pieno dominium su se stesso e sui propri beni trovava infatti fondamento per Vitoria e per l’intera scuola di Salamanca non nell’autonomia individuale, ma nella dottrina biblica della creazione dell’uomo a immagine e somiglianza di Dio.

 

Questo avvalora l’idea che la razionalità, in quanto espressione dell’imago Dei, non poteva non manifestarsi naturalmente in tutti gli uomini come loro caratteristica intrinseca, giacché era impensabile che Dio avesse creato una natura imperfetta, per un altro, però, circoscriveva la liceità delle manifestazioni di tale razionalità , e conseguentemente la sfera dei diritti soggettivi, esclusivamente nel quadro della legge divina cristiana: e ciò consentiva a Vitoria di scartare dai diritti dei veri domini amerindi, dal loro dominium, pratiche quali il cannibalismo e i sacrifici umani.

 

Ciò che dunque Vitoria negò non fu l’inaccettabilità di simili pratiche, ma l’ammissibilità della giurisdizione dei principi cristiani e della Chiesa sulle popolazioni amerinde e il loro conseguente diritto di intervenire nelle nuove terre. La perfezione naturale delle società politiche, che fondavano le loro relazioni su quel «diritto delle genti», che scaturendo dall’oggettività razionale-naturale della comunità umana, risultava come tale trascendere e limitare le volontà sovrane di ognuna di quelle società, implicava il riconoscimento di un pluralismo politico.

 

Anche gli indigeni amerindi potevano raggiungere la salvezza cristiana per via morale-naturale e ogni comunità possedeva per “natura” i requisiti religiosi, sociali e politici atti a farne una società perfetta e dunque un soggetto dello ius gentium, che per Vitoria si configurava come un diritto sovrastatale, impensabile entro un’unica monarchia universalis nella quale il diritto di ognuno era aprioristicamente iscritto nella totalità spazio-temporale della sovranità imperiale. Il diritto delle genti diveniva così inviolabile da parte da parte delle potestà politiche, che ne erano anzi condizionate anche nel caso della massima espressione della potenza statale: la guerra, che andava pertanto assoggettata a criteri universalmente riconosciuti.

 

Preoccupandosi di stabilire i criteri di ammissibilità della guerra sulla base della sua conciliazione con la giustizia intrinseca all’ordine divino e naturale del mondo (dunque in una prospettiva teologico-morale), l’uso delle armi apparve a Vitoria «giusto» solo se finalizzato alla conservazione della pace, o se rivolto a riparare un danno ingiusto inflitto a una comunità. Ogni bellum aveva come fine solo la ricostituzione della situazione preesistente all’arrecato danno e non poteva produrre al nemico danni superiori a quelli subiti.

 

La guerra corrispondeva per Vitoria all’innegabile diritto all’autodifesa; che poi questo potesse dare luogo al bellum aggresivum o preventivo, era ammesso. In ogni caso, la guerra per essere giusta doveva possedere i tre requisiti da San Tommaso: la dichiarazione da parte delle pubbliche autorità, iusta causa e la «retta intenzione».

 

Vitoria sottolineò il terzo aspetto affermando che il principe doveva agire come un giudice, limitandosi al recupero del maltolto e alla moderata punizione dell’avversario senza eccedere in violenze. In questo modo la moderna dottrina de bello iniziava ad affrontare, accanto a quello del diritto alla guerra, anche la questione delle modalità di conduzione delle attività belliche, dello ius in bello, che divenne poi una delle questioni centrali nel pensiero giuridico-politico successivo del tema, da Alberico Gentili a Grozio.

 

Fu attraverso la casistica della «guerra giusta» che Vitoria, pur negando la legittimità dei possedimenti spagnoli, finì per rilegittimare l’aggressione dei conquistadores in America. L’intervento armato nelle terre d’oltreoceano era da lui giustificato nel caso in cui gli indigeni avessero privato gli spagnoli dell’inviolabile ius communicationis che si concretava nel diritto di transito (ius peregrinandi) e di commercio (ius commercii); o avessero proibito agli ecclesiastici di evangelizzare; oppure avessero perseguitato i convertiti o praticato la tirannia, i sacrifici umani e l’antropofagia.

 

Non «giusta» la guerra di conquista intrapresa in nome di un’inesistente universale signoria spirituale papale e temporale dell’imperatore; ma «giusta» la guerra per punirli in caso di coercizione della propaganda del cristianesimo, della libera circolazione di uomini e merci ovvero per correggere il loro stato di minorità qualora si fossero rivelati amentes, argomento principe dei sostenitori della conquista, da John Mair a Juan Ginés de Sepúlveda; o persino, anticipando la moderne dottrine dell’ingerenza umanitaria che considera giusta la guerra finalizzata a punire un’ingiustizia sia direttamente subita sia perpetrata a danno di altri, in caso di riscontro in loco di governi tirannici o di crimina contra naturam, quali i sacrifici umani, di regimi o costumi da estirpare, anche a prescindere dalla richiesta di aiuto delle vittime, perché ritenuti avversi al comune sentire.

 

Se si verificavano queste condizioni, la guerra non era per il maestro di Salamanca antinomica ai precetti evangelici né alla lex naturae, e anzi si ribaltava da ingiusta e aggressiva in giusta e difensiva perché volta a salvaguardare nel mondo i principi di diritto naturale. Vero è che, nella fattispecie del cannibalismo e dei sacrifici umani, Vitoria non ricorse al diritto naturale per giustificare l’azione armata, riconoscendo che questi peccati di per sé non fornivano al papa o al re di Spagna titoli legittimi per intervenire, giacché la loro punizione spettava ai capi naturali degli indigeni; ciò che gli sembrò autorizzare l’intervento era piuttosto il fatto che simili usanze costituivano un’offesa (iniuria) alla vita di innocenti. Ma, anche in questo caso il bellum tornava a essere lecito in quanto intrapreso per salvaguardare i valori, la cultura e i costumi dell’unica umanità concepita, quella cristiano-occidentale.

 

Vitoria finiva così per surrogare l’universalismo imperiale con un nuovo universalismo, quello di un unico ius naturale che replicava entro un’astrazione egalitaria, non diversamente da Las Casas, l’asimmetria tra gli europei e i popoli delle Americhe, relegando questi ultimi come soggetti passivi. Né il ribaltamento poi operato da Las Casas della costruzione vitoriana, il riconoscimento cioè che l’unico bellum iustum fosse la guerra difensiva degli Indios, ne rovesciava davvero il senso, giacché iscriveva le stesse forme di resistenza ai conquistadores all’interno del linguaggio europeo de iure naturae et gentium.

 

Il nuovo universalismo del diritto delle genti, embrionale del diritto internazionale a base giusnaturalistico-cattolico, restaurava così l’ecumene globale della respublica christiana, inoppugnabile manifestazione dell’ordo divino, cristiano ed europeo, del mondo. All’interno di questo neouniversalismo, che ignorava le differenze tra europei e popoli del Nuovo Mondo, la stessa visione vitoriana di quelle che oggi chiamiamo relazioni internazionali finiva per collocarsi a metà strada tra ius gentium tradizionale e moderno diritto internazionale.

 

Per quanto Vitoria attribuisse ai popoli il ruolo di protagonisti del diritto internazionale, la sua considerazione dell’umanità come parte di una sola communitas orbi vincolante i rapporti tra gli Stati ristabiliva unilateralmente le gerarchie tra i cristiani e non cristiani e mirava all’inglobamento dei secondi nei primi: i popoli indigeni, nonostante il riconoscimento del loro dominuim, erano qualificati come «perfidi hostes».

 

In questo caso malgrado le sue critiche al totus orbis, Vitoria rimaneva sul piano del diritto delle genti della respublica christiana e non dello ius inter gentes, di un diritto internazionale cioè che, fondandosi esclusivamente sulla sovranità statale, sarebbe giunto a riconoscere l’oggettiva pariteticità delle nazioni al di là delle loro differenze religiose, culturali, etniche e politiche.

 

La messa all’Indice dei libri proibiti delle Relationes e la dura reazione delle autorità spagnolo dimostrano quanto le teorie vitoriane turbassero le giustificazioni politico-religiose della conquista. Ma la rilegittimazione di Vitoria della penetrazione spagnola in America parrebbe che si trattò di reazioni fuori bersaglio. In realtà, la realtà censoria era diretta a impedire che se ne ricavasse una logica illazione: che la destituzione di fondamento dell’universalismo dei “signori del mondo”, imperatore e papa, valeva anche in Europa.

 

Francico de Vitoria è onorato di una statua posta davanti alla sede della Nazioni Unite di New York e di un grande ritratto collocato nel Salone della Pace di Ginevra, perché considerato precursore dell’idea di “Nazioni Unite”. Andrés de Vega fu suo allievo.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Francisco de Vitoria, De iure belli, a cura di Carlo Galli, Laterza, Roma-Bari 2005.

Ramón Hernández Martín, La lezione sugli indios di Francisco de Vitoria, Jaca Book, Milano 1999.

Lorenzo Milazzo, La teoria dei diritti di Francisco de Vitoria, Ets, Pisa 2012.

Emiliano Paolini, Filosofia politica e diritto internazionale in Francisco de Vitoria, Curcio, Roma 2011.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]