moderna
FRANCISCO DE VITORIA
LA NASCITA DEL DIRITTO INTERNAZIONALE
di Enrico Targa
Francisco de Vitoria (1480-1546)
titolare della cattedra di Prima
Theologia già critico verso la
sanguinosa conquista del Perù,
raccogliendo la diffusa insofferenza del
suo ordine (domenicano) in merito alle
forme della presenza spagnola in
America, affrontò il tema delle basi
giuridiche della conquista nelle sue
Relactiones (lezioni solenni tenute
davanti all’intero copro docente) de
Indis e de iure belli del
1539, che ebbero rilevanti conseguenze
anche sul piano della prima formulazione
di un diritto internazionale.
Vitoria partiva da un dato acquisito
della teologia di San Tommaso
(1225-1274) basata sul recupero del
razionalismo aristotelico e cioè che la
rivelazione cristiana perfeziona
l’ordine della natura fondato su ragione
e morale, e non lo sconvolge come le
armi spagnole stavano sconvolgendo la
vita delle popolazioni amerinde. Se
dunque il diritto divino non cancella,
ma completa quello naturale, ne consegue
che le società politiche, tutte volute
da Dio secondo e non contro la legge di
natura, sono espressione dello spontaneo
bisogno umano di associarsi per
garantirsi sopravvivenza e sicurezza.
Come aveva già chiarito nella
Relectio de potestate civili (1528),
ogni società è pertanto naturalmente
perfetta in sé e dotata di un potere
politico che non necessita di
legittimazioni da parte di autorità
superiori, imperiali o pontificie. In
quanto rispondenti a questo ordine
teologico-razionale, edificato sulla
giustizia perché stabilito da Dio, le
comunità politiche fondano sé stesse, e
le loro relazioni reciproche su un
insieme di norme accettate dall’umanità
perché scaturenti dalla ragione e dalla
morale naturali presenti in tutti gli
uomini.
Esiste quindi un diritto delle genti
naturali (ius gentium naturale) e
un conseguente diritto internazionale (ius
gentium secondarium), che è la
manifestazione storica e e positiva del
primo. Entrambi sono universali e giusti
e prevedono anche il rispetto della
potestas spiritualis, della
religione, considerata da Vitoria un
diritto naturale.
In questo modo, Vitoria portava a
definizione teologico-giuridica il
tramonto dell’universalismo medievale,
giacché dall’autofondazione naturale di
ciascuna società derivava che il
pontefice non poteva essere un
dominus orbis, né poteva esserlo
l’imperatore. E derivava altresì che il
papa non poteva legittimare nessun
dominio di un principe su terre vecchie
e nuove, com’era accaduto per le colonie
portoghesi e spagnole. Vitoria dunque
contestava alla radice la legalità delle
conquiste e il diritto pontificio a
sanzionarle, negando altresì che la
differenza di religione fosse motivo
sufficiente per giustificare
l’aggressione militare ai popoli
amerindi riprendendo il pensiero del
noto cardinale Tommaso de Vio detto
Caietano e noto per la sua polemica
antiluterana (1468-1533).
Nella Relectio de Indis Vitoria
come de Vio citato nell’opera, sostenne
che l’estraneità delle popolazioni
d’oltreoceano alla comunità cristiana
non inficiava la capacità di
potestas e i diritti fondamentali,
tra cui quello di proprietà sulle terre.
A suo avviso, infatti, lo ius utendi
re preesisteva al descubimiento
spagnolo ed era stato illecitamente
sottratto ai popoli indigeni in base a
una loro condizione di peccato ed eresia
per la quale sarebbe stata necessaria
una sentenza di condanna mai emessa e
che in Spagna implicava la confisca dei
beni del condannato.
Per giungere a questa conclusione
Vitoria doveva risolvere il problema del
rapporto tra dominium e ius.
Sebbene egli ripristinasse la
tradizionale dottrina medievale
dell’esistenza di un diritto
“oggettivo”, trascendente gli individui,
la sua affermazione che gli indigeni
fossero veri signori (veri domini)
delle proprie azioni e dei propri beni,
accoglieva di fatto la concezione
soggettiva del diritto dei giuristi
moderni e apriva la strada all’idea
dell’esistenza di diritti inviolabili
dell’uomo.
La definizione contenuta nel De Indis,
del dominium, come facoltà e
potere di usare le cose secondo quanto
stabilito dalla legge ne faceva un
attributo intrinseco del soggetto,
finiva per far coincidere il dominium
con lo ius, l’ambito delle
naturali e libere potestà soggettive con
quello giuridico. Ciononostante questa
concezione soggettiva dei diritti e
della sfera di libertà dell’uomo doveva
comunque essere tomisticamente resa
compatibile con la legge divina che
governa l’ordine naturale del mondo: il
principio per cui l’uomo possedeva un
pieno dominium su se stesso e sui
propri beni trovava infatti fondamento
per Vitoria e per l’intera scuola di
Salamanca non nell’autonomia
individuale, ma nella dottrina biblica
della creazione dell’uomo a immagine e
somiglianza di Dio.
Questo avvalora l’idea che la
razionalità, in quanto espressione dell’imago
Dei, non poteva non manifestarsi
naturalmente in tutti gli uomini come
loro caratteristica intrinseca, giacché
era impensabile che Dio avesse creato
una natura imperfetta, per un altro,
però, circoscriveva la liceità delle
manifestazioni di tale razionalità , e
conseguentemente la sfera dei diritti
soggettivi, esclusivamente nel quadro
della legge divina cristiana: e ciò
consentiva a Vitoria di scartare dai
diritti dei veri domini amerindi,
dal loro dominium, pratiche quali
il cannibalismo e i sacrifici umani.
Ciò che dunque Vitoria negò non fu
l’inaccettabilità di simili pratiche, ma
l’ammissibilità della giurisdizione dei
principi cristiani e della Chiesa sulle
popolazioni amerinde e il loro
conseguente diritto di intervenire nelle
nuove terre. La perfezione naturale
delle società politiche, che fondavano
le loro relazioni su quel
«diritto
delle genti»,
che scaturendo dall’oggettività
razionale-naturale della comunità umana,
risultava come tale trascendere e
limitare le volontà sovrane di ognuna di
quelle società, implicava il
riconoscimento di un pluralismo
politico.
Anche gli indigeni amerindi potevano
raggiungere la salvezza cristiana per
via morale-naturale e ogni comunità
possedeva per “natura” i requisiti
religiosi, sociali e politici atti a
farne una società perfetta e dunque un
soggetto dello ius gentium, che
per Vitoria si configurava come un
diritto sovrastatale, impensabile entro
un’unica monarchia universalis
nella quale il diritto di ognuno era
aprioristicamente iscritto nella
totalità spazio-temporale della
sovranità imperiale. Il diritto delle
genti diveniva così inviolabile da parte
da parte delle potestà politiche, che ne
erano anzi condizionate anche nel caso
della massima espressione della potenza
statale: la guerra, che andava pertanto
assoggettata a criteri universalmente
riconosciuti.
Preoccupandosi di stabilire i criteri di
ammissibilità della guerra sulla base
della sua conciliazione con la giustizia
intrinseca all’ordine divino e naturale
del mondo (dunque in una prospettiva
teologico-morale), l’uso delle armi
apparve a Vitoria
«giusto»
solo se finalizzato alla conservazione
della pace, o se rivolto a riparare un
danno ingiusto inflitto a una comunità.
Ogni bellum aveva come fine solo
la ricostituzione della situazione
preesistente all’arrecato danno e non
poteva produrre al nemico danni
superiori a quelli subiti.
La guerra corrispondeva per Vitoria
all’innegabile diritto all’autodifesa;
che poi questo potesse dare luogo al
bellum aggresivum o preventivo, era
ammesso. In ogni caso, la guerra per
essere giusta doveva possedere i tre
requisiti da San Tommaso: la
dichiarazione da parte delle pubbliche
autorità, iusta causa e la «retta
intenzione».
Vitoria sottolineò il terzo aspetto
affermando che il principe doveva agire
come un giudice, limitandosi al recupero
del maltolto e alla moderata punizione
dell’avversario senza eccedere in
violenze. In questo modo la moderna
dottrina de bello iniziava
ad affrontare, accanto a quello del
diritto alla guerra, anche la questione
delle modalità di conduzione delle
attività belliche, dello ius in
bello, che divenne poi una delle
questioni centrali nel pensiero
giuridico-politico successivo del tema,
da Alberico Gentili a Grozio.
Fu attraverso la casistica della «guerra
giusta» che Vitoria, pur negando la
legittimità dei possedimenti spagnoli,
finì per rilegittimare l’aggressione dei
conquistadores in America.
L’intervento armato nelle terre
d’oltreoceano era da lui giustificato
nel caso in cui gli indigeni avessero
privato gli spagnoli dell’inviolabile
ius communicationis che si
concretava nel diritto di transito (ius
peregrinandi) e di commercio (ius
commercii); o avessero proibito agli
ecclesiastici di evangelizzare; oppure
avessero perseguitato i convertiti o
praticato la tirannia, i sacrifici umani
e l’antropofagia.
Non «giusta» la guerra di conquista
intrapresa in nome di un’inesistente
universale signoria spirituale papale e
temporale dell’imperatore; ma «giusta»
la guerra per punirli in caso di
coercizione della propaganda del
cristianesimo, della libera circolazione
di uomini e merci ovvero per correggere
il loro stato di minorità qualora si
fossero rivelati amentes,
argomento principe dei sostenitori della
conquista, da John Mair a Juan Ginés de
Sepúlveda; o persino, anticipando la
moderne dottrine dell’ingerenza
umanitaria che considera giusta la
guerra finalizzata a punire
un’ingiustizia sia direttamente subita
sia perpetrata a danno di altri, in caso
di riscontro in loco di governi
tirannici o di crimina contra naturam,
quali i sacrifici umani, di regimi o
costumi da estirpare, anche a
prescindere dalla richiesta di aiuto
delle vittime, perché ritenuti avversi
al comune sentire.
Se si verificavano queste condizioni, la
guerra non era per il maestro di
Salamanca antinomica ai precetti
evangelici né alla lex naturae, e
anzi si ribaltava da ingiusta e
aggressiva in giusta e difensiva perché
volta a salvaguardare nel mondo i
principi di diritto naturale. Vero è
che, nella fattispecie del cannibalismo
e dei sacrifici umani, Vitoria non
ricorse al diritto naturale per
giustificare l’azione armata,
riconoscendo che questi peccati di per
sé non fornivano al papa o al re di
Spagna titoli legittimi per intervenire,
giacché la loro punizione spettava ai
capi naturali degli indigeni; ciò che
gli sembrò autorizzare l’intervento era
piuttosto il fatto che simili usanze
costituivano un’offesa (iniuria)
alla vita di innocenti. Ma, anche in
questo caso il bellum tornava a
essere lecito in quanto intrapreso per
salvaguardare i valori, la cultura e i
costumi dell’unica umanità concepita,
quella cristiano-occidentale.
Vitoria finiva così per surrogare
l’universalismo imperiale con un nuovo
universalismo, quello di un unico ius
naturale che replicava entro
un’astrazione egalitaria, non
diversamente da Las Casas, l’asimmetria
tra gli europei e i popoli delle
Americhe, relegando questi ultimi come
soggetti passivi. Né il ribaltamento poi
operato da Las Casas della costruzione
vitoriana, il riconoscimento cioè che
l’unico bellum iustum fosse la
guerra difensiva degli Indios, ne
rovesciava davvero il senso, giacché
iscriveva le stesse forme di resistenza
ai conquistadores all’interno del
linguaggio europeo de iure naturae et
gentium.
Il nuovo universalismo del diritto delle
genti, embrionale del diritto
internazionale a base
giusnaturalistico-cattolico, restaurava
così l’ecumene globale della
respublica christiana, inoppugnabile
manifestazione dell’ordo divino,
cristiano ed europeo, del mondo.
All’interno di questo neouniversalismo,
che ignorava le differenze tra europei e
popoli del Nuovo Mondo, la stessa
visione vitoriana di quelle che oggi
chiamiamo relazioni internazionali
finiva per collocarsi a metà strada tra
ius gentium tradizionale e
moderno diritto internazionale.
Per quanto Vitoria attribuisse ai popoli
il ruolo di protagonisti del diritto
internazionale, la sua considerazione
dell’umanità come parte di una sola
communitas orbi vincolante i
rapporti tra gli Stati ristabiliva
unilateralmente le gerarchie tra i
cristiani e non cristiani e mirava
all’inglobamento dei secondi nei primi:
i popoli indigeni, nonostante il
riconoscimento del loro dominuim,
erano qualificati come «perfidi hostes».
In questo caso malgrado le sue critiche
al totus orbis, Vitoria rimaneva
sul piano del diritto delle genti della
respublica christiana e non dello
ius inter gentes, di un diritto
internazionale cioè che, fondandosi
esclusivamente sulla sovranità statale,
sarebbe giunto a riconoscere l’oggettiva
pariteticità delle nazioni al di là
delle loro differenze religiose,
culturali, etniche e politiche.
La messa all’Indice dei libri proibiti
delle Relationes e la dura
reazione delle autorità spagnolo
dimostrano quanto le teorie vitoriane
turbassero le giustificazioni
politico-religiose della conquista. Ma
la rilegittimazione di Vitoria della
penetrazione spagnola in America
parrebbe che si trattò di reazioni fuori
bersaglio. In realtà, la realtà censoria
era diretta a impedire che se ne
ricavasse una logica illazione: che la
destituzione di fondamento
dell’universalismo dei “signori del
mondo”, imperatore e papa, valeva anche
in Europa.
Francico
de Vitoria è onorato di una statua posta
davanti alla sede della Nazioni Unite di
New York e di un grande ritratto
collocato nel Salone della Pace di
Ginevra, perché considerato precursore
dell’idea di “Nazioni Unite”. Andrés de
Vega fu suo allievo.
Riferimenti bibliografici:
Francisco de Vitoria, De iure belli,
a cura di Carlo Galli, Laterza,
Roma-Bari 2005.
Ramón Hernández Martín, La lezione
sugli indios di Francisco de Vitoria,
Jaca Book, Milano 1999.
Lorenzo Milazzo, La teoria dei
diritti di Francisco de Vitoria, Ets,
Pisa 2012.
Emiliano Paolini, Filosofia politica
e diritto internazionale in Francisco de
Vitoria, Curcio, Roma 2011. |