moderna
santi in
prigione, vescovi a teatro
ostracismo TeatralE-RELIGIOSO
di Costanza Marana
In Francia, durante il Seicento, il
teatro, come forma e contenuto, si
rivela vittima di un ostracismo
intransigente nel catalogarlo
esteticamente come improprio, inadeguato
a rappresentare il dato reale, oltre che
esempio di corruttibilità umana,
avversata dalla fazione clericale.
Un’identificazione che associa il
prendere parte come pubblico alla
rappresentazione del peccato contro i
precetti cristiani. I giansenisti non
risparmiano la loro invettiva feroce che
taccia di infamia chi ricopre il ruolo
di attore.
Tradizione critica che trova agio nella
concezione patristica che pone il
divieto ai fedeli di frequentare il
teatro poiché rei di idolatria e
partecipanti dell’immoralità insita nel
repertorio scenografico antico. Nel
passato ogni rappresentazione teatrale
costituisce un atto rituale facente
parte del culto degli dei pagani;
sussiste equivalenza e compenetrazione
tra azione di fede e partecipare a una
performance.
Risulta comunque esemplificativa la
differenziazione nell’ambito degli
attori tra i mimi e gli interpreti di
tragedie e commedie. Quest’ultimi
assurgono a simboli di un’estetica
appoggiata anche dai ceti più alti.
Tali aspetti vengono argomentati nello
specifico da François Hédelin, abate d’Aubignac, che
stila un’apologia sui meriti del teatro
o meglio ne edulcora i demeriti,
avvalorando la fine di una certa tesi
che ne condanni l’empietà. La
degenerazione del costume teatrale con
il topos della compagnia di
teatranti privi di morale si arresta,
nella sua opinione, con la venuta e il
consolidamento del regno di Luigi XIV.
L’abate spersonalizza la
rappresentazione teatrale dell’encomio
cerimoniale, contemplandola
esclusivamente nel suo assetto di
intrattenimento e può anche avere una
funzione didattico-didascalica.
Il suo intervento viene ovviamente non
suffragato dall’ala cattolica, in
particolare il comparto giansenista che
prosegue il suo intento vessatorio,
coadiuvato da altre personalità del
calibro di Armando di Borbone, principe
di Conti, che attinge al registro
patristico inveendo contro il pubblico
che si diverte a teatro assimilandolo
all’asservimento della volgarità del
demonio.
Mentre l’abate d’Aubignac pubblica un
testo anonimo, Sur la condamnation
des théâtres (1666), al fine si
sostentare la sua causa in favore del
teatro come mezzo di espressione e di
divulgazione.
I due personaggi su cui si imbastiva il
copione all’epoca sono la ragione e la
morale. Da una parte il settore
laicizzante pre-illuminista che, in base
alla logica, vuol trovare legittimazione
a questa arte, dall’altra la voce del
tempo impersonata dal clero, per la
maggior parte, che assolutizza in una
unica visione, presente e antica, la
compagine teatrale quale manifestazione
di reità.
La difficoltà risiede nell’urto con la
stabilità di una letteratura di
approccio “cartesiano” razionalista che
contribuisce alla perdita del senso
poetico, in cui la cultura francese non
riluce, sacrificandolo, in nome di un
razionalismo universale. La soggezione a
un sistema rigoroso di stampo
classicista che impone un’obbedienza
serrata a principi d’ordine e
proporzione. Le accuse alla lingua
francese di essere perentoria nel suo
vocabolario esclusivo nella sostanza,
dimentico di un afflato poetico.
Nota la critica di Goethe al parlare
francese come un esercizio secondo “le
convenienze sociali”. I diversi generi
di poesia vennero trattati in Francia
come diversi circoli sociali, ai quali è
anche appropriato un particolare
contegno in modo che il francese non si
perita punto di parlare, nei giudizi
intorno a opere dell’ingegno, di
convenances, che è una parola
applicabile propriamente alle
convenienze sociali.
In Francia nel Seicento si tende a
dipanare la situazione linguistica con
dei fermenti modernizzanti, con la
volontà di creare uno stile nazionale,
con regole ed esclusioni, spesso
infrangendo il confine che vige tra
poesia e prosa, considerato uno dei semi
della dialettica dei secoli a venire.
Dall’esattezza classicista di Andrea
Chénier, al realismo denso di Baudelaire
all’indeterminatezza lirica di Verlaine.
Riferimenti bibliografici:
Giovanni Macchia, Il paradiso della
ragione. L’ordine e l’avventura nella
tradizione letteraria francese,
Einaudi, Torino 1997. |