N. 149 - Maggio 2020
(CLXXX)
La
decostruzione
del
“mirage
russe
en
France”
riformismo
pietrino
–
Parte
I
di
Chiara
Lerede
Nel
corso
della
prima
Età
moderna,
la
Francia
dimostrò
un
totale
disinteresse
sia
politico
che
culturale
per
la
Moscovia,
limitandosi
a
conoscerla
superficialmente
tramite
le
relazioni
dei
viaggiatori
italiani,
tedeschi
e
inglesi,
risalenti
già
alla
fine
del
XV
secolo.
L’ignorance
mutuelle
tra
i
due
Paesi
terminerà
solo
due
secoli
dopo,
quando
la
Francia
settecentesca
“riscoprirà”
il
mondo
russo,
in
un
momento
in
cui
la
sua
presenza
e la
sua
intromissione
nelle
questioni
europee
non
poté
più
essere
ignorata.
In
effetti,
sebbene
sempre
oscillante
tra
slanci
di
modernità
e
conservatorismo,
la
Moscovia,
già
dai
tempi
di
Ivan
il
Terribile
(1530-1584),
aveva
iniziato
ad
affacciarsi
sempre
più
prepotentemente
sulla
scena
economica
e
politica
occidentale,
compiendo
i
primi
passi
per
diventare
quell’ingombrante
presenza
sullo
scacchiere
politico
con
la
quale,
nel
bene
o
nel
male,
le
altre
potenze
europee
del
XVIII
secolo,
sarebbero
state
costrette
a
confrontarsi.
In
questo
processo,
la
presa
del
potere
da
parte
di
Pietro
I
(nel
1682
insieme
al
fratellastro
Ivan
V,
dal
1696
in
esclusiva)
segnò
il
punto
di
non
ritorno
nel
cambiamento
politico
e
culturale
della
Russia,
ormai
non
più
Moscovia,
che
per
la
prima
volta
assunse
il
rango
di
potenza
europea
a
tutti
gli
effetti.
Effettivamente,
in
pieno
clima
illuministico,
l’azione
riformista
dello
zar
apparve
all’Europa
come
un “mirage”,
secondo
la
fortunata
definizione
di
Albert
Lortholary.
Nella
concezione
europea
del
tempo,
infatti,
la
Moscovia
pre-pietrina
era
caratterizzata
dall’isolamento,
dall’arretratezza
economica
e
culturale,
popolata
da
uomini
rozzi
e
superstiziosi,
più
prossimi
ai
barbari
popoli
asiatici
che
alla
civilisation
europea.
Pertanto,
nell’immaginario
europeo
la
Moscovia
sarebbe
stata
terra
fertile
per
eccellenza
per
l’applicazione
di
riforme
istituzionali
e
culturali,
improntate
ai
principi
della
razionalità
tipica
dell’Illuminismo.
L’operato
di
Pietro,
basato
sull’europeizzazione
e
l’ammodernamento
della
Russia,
sembrò
rispondere
perfettamente
alle
aspettative
delle
Lumières.
Liberata
dalla
barbarie,
dalla
superstizione
religiosa
e
dalle
tenebre
dell’ignoranza,
la
Russia
si
aprì
all’Occidente
e
conobbe
per
la
prima
volta
le
arti,
le
scienze
e la
letteratura.
In
Francia,
l’entusiasmo
suscitato
dalla
creazione
ex
nihilo
di
una
nuova
Russia
fu
tale
che
Pietro
I
divenne
oggetto
di
una
vera
e
propria
mitizzazione,
che
cambiò
profondamente
la
sua
percezione
nell’immaginario
collettivo
francese.
Infatti,
se
durante
il
suo
viaggio
a
Parigi
(1717),
egli
venne
considerato
come
un
sovrano
grossolano
e
barbaro,
che
scandalizzò
la
corte
per
i
suoi
modi
bruschi
e
diretti,
già
alla
sua
morte
(1725)
il
celebre
elogio
di
Fontenelle
consacrò
Pietro
come
il
riformatore
geniale
di
un
Paese
grossier
e
isolato
dal
sistema
politico
europeo,
nonché
come
il
civilizzatore
dei
costumi
barbari
e
superstiziosi
dei
propri
sudditi,
come
il
Padre
di
un
Impero
in
piena
espansione
economica
e
politica.
Tuttavia,
la
figura
e
l’azione
politica
di
Pietro
non
rimasero
esenti
da
critiche
da
parte
dei
suoi
contemporanei
europei,
che
ne
sfumarono
l’immagine
acriticamente
positiva
del
Pater
patriae
propugnata
da
Fontenelle.
Lo
zar
venne
infatti
accusato
a
più
riprese
di
essere
un
sovrano
imperioso,
violento,
poco
rispettoso
della
cultura
russa
e
insensibile
alle
rimostranze
dei
propri
sudditi,
la
cui
condizione
servile
non
venne
minimamente
migliorata,
ma
anzi,
peggiorata
dalla
sua
politica
autocratica.
Tra
i
vari
critici
di
Pietro,
si
segnalano
John
Perry
(1670-1732),
Francesco
Locatelli-Lanzi
(1687-1770),
e
l’abate
Chappe
d’Auteroche
(1722-1769),
che
fornirono
alla
Francia
del
XVIII
secolo
un’immagine
poco
entusiastica
della
Russia
zarista,
raffreddando
gli
entusiasmi
utopistici
dei
philosophes.
I
tre
autori,
provenienti
da
contesti
sociali
e da
Paesi
differenti,
visitarono
la
Russia
a
vario
titolo
e in
periodi
diversi:
John
Perry,
ingegnere
inglese,
venne
assunto
dallo
stesso
Pietro
nel
1700
per
sovrintendere
la
costruzione
di
un
canale
di
collegamento
fra
i
fiumi
Volga
e
Don;
Francesco
Locatelli-Lanzi,
avventuriero
e
militare
bergamasco,
arrivò
in
Russia
nel
1733
con
la
speranza
di
arruolarsi
nell’esercito,
ma
venne
arrestato
con
l’accusa
di
spionaggio
e
condannato
a un
anno
di
carcere
da
scontare
a
San
Pietroburgo;
l’abate
francese
Chappe
d’Auteroche
faceva
parte
di
una
spedizione
scientifica
inviata,
nel
1761,
nella
città
russa
di
Tobolsk
dall’Accademia
delle
Scienze
di
Francia
allo
scopo
di
osservare
il
passaggio
di
Venere
sul
Sole.
I
tre
testi,
per
quanto
presentino
alcune
differenze
sostanziali
dovute
al
contesto
culturale
e
sociale
degli
stessi
scrittori,
hanno
in
comune
alcune
tematiche
tra
le
quali
si
segnala,
per
ampiezza
e
approfondimento,
la
riflessione
sui
progetti
riformistici
di
Pietro
il
Grande
e
sui
risultati
ottenuti
dallo
zar.
Naturalmente,
nell’osservare
la
Russia
zarista,
i
tre
autori
non
poterono
ignorare
l’immane
sforzo
compiuto
da
Pietro
I
nel
riformare,
non
solo
l’apparato
statale,
ma
soprattutto
gli
usi
e i
costumi
dei
propri
sudditi,
nella
speranza
di
occidentalizzare
e
modernizzare
l’Impero.
Come
sottolineato
dai
tre,
nonostante
l’impegno
del
sovrano,
la
condizione
della
Russia,
sebbene
fosse
in
una
certa
misura
migliorata,
non
subì
alcuna
modifica
nei
suoi
punti
chiave.
In
primo
luogo,
il
potere
dello
zar
non
venne
per
nulla
intaccato
dalle
riforme
pietrine,
poiché
egli
rimaneva
di
fatto
l’unico
a
dettare
legge,
senza
che
le
assemblee,
come
il
Senato
o il
Santo
Sinodo,
potessero
opporre
alcuna
resistenza.
In
secondo
luogo,
la
condizione
di
servitù
della
classe
contadina
non
venne
migliorata,
ma
subì
un
netto
peggioramento,
a
causa
dell’aggravio
delle
già
durissime
condizioni
di
lavoro
per
soddisfare
le
continue
ambizioni
del
sovrano.
In
questo
senso,
è
sufficiente
pensare
alla
fondazione
di
San
Pietroburgo
che,
definita
da
Francesco
Algarotti
come
la
“finestra
sull’Occidente”
della
Russia,
venne
costruita
sulla
paludosa
foce
del
fiume
Neva,
la
cui
difficile
edificazione
causò
migliaia
di
morti
fra
gli
uomini
obbligati
a
fornirvi
prestazioni
di
lavoro.
Nel
corso
del
tempo,
la
politica
pietrina
suscitò
il
malcontento
non
solo
della
corte
e
delle
campagne,
ma
anche
dei
popoli
allogeni
(come
i
Cosacchi)
e
delle
minoranze
religiose,
in
particolare
dei
Vecchi
Credenti,
oggetto
di
odiose
persecuzioni
e
discriminazioni.
Il
malumore
nei
confronti
dello
zar
esplose
a
più
riprese
con
alcune
rivolte
più
o
meno
gravi,
come
per
esempio
nel
caso
delle
sommossa
degli
Strelizzi
(1698).
Ciò
nonostante,
tutti
e
tre
gli
autori
rimarcarono
l’impegno
di
Pietro
il
Grande
nel
riformare
la
Russia
nella
sua
totalità
e
rimasero
affascinati
dalla
sua
personalità
visionaria
e
avida
di
conoscenza.
In
particolare
i
tre
Europei
si
soffermano
sull’operato
dello
zar
in
materia
ecclesiastica
e
culturale.
La
riforma
ecclesiastica
può
essere
considerata
come
uno
dei
punti
chiave
della
rivoluzione
di
Pietro.
In
effetti,
il
progetto
di
riforma
statale
intrapreso,
basato
sul
modello
tedesco
e
olandese,
non
poteva
non
individuare
nella
Chiesa
ortodossa,
baluardo
del
conservatorismo
e
della
tradizione
moscovita,
uno
dei
suoi
principali
oppositori.
Anche
a
livello
personale,
lo
zar
manifestò
fin
da
subito
la
propria
insofferenza
nei
confronti
della
condotta
reazionaria
della
Chiesa
russa.
Educato
secondo
la
tradizione
moscovita,
ma
venuto
presto
in
contatto
con
gli
stranieri
“eretici”
nella
nemeckaja
sloboda
(tr.“il
quartiere
tedesco”
di
Mosca,
una
sorta
di
ghetto
degli
stranieri),
Pietro
si
dimostrò
spesso
irrispettoso
della
gerarchia
ecclesiastica,
deliberatamente
parodiata
insieme
ai
suoi
amici
nelle
riunioni
del
club
Всешутейший,
всепьянейший
и
сумасброднейший
собор
(tr.
“la
Congregazione
più
divertente,
più
ubriaca
e
più
folle”).
Inoltre,
lo
zar
volle
viaggiare
in
Europa,
della
quale
adottò
la
cultura
e lo
stile
di
vita,
in
totale
spregio
alla
tradizione
moscovita
secondo
cui
il
contatto
con
l’Occidente
era
motivo
di
corruzione
della
purezza
di
un
fedele
ortodosso.
A
livello
politico,
con
grande
indignazione
della
Chiesa,
Pietro
decretò
la
secolarizzazione
dei
beni
ecclesiastici,
accumulati
in
enormi
quantità
durante
il
regno
dei
suoi
predecessori.
Come
notò
anche
Chappe
d’Auteroche,
Pietro
per
primo
osò
indebolire
lo
strapotere
della
Chiesa
(Voyage
en
Sibérie,
p.
134),
mettendo
in
discussione
la
liceità
dei
possedimenti
ecclesiastici,
divenuti
superiori
a
quelli
della
nobiltà
laica,
e
considerandoli
come
causa
della
corruzione
morale
dei
prelati.
Ulteriore
motivo
di
attrito
tra
lo
zar,
il
Clero
e il
popolo,
ampiamente
trattato
dai
tre
autori,
fu
la
decisione
di
Pietro,
appena
rientrato
dall’Europa,
di
imporre
la
rasatura
della
barba
a
tutto
il
laicato,
fatta
eccezione
per
i
contadini.
Un
provvedimento
al
quale
il
Patriarca
Adrian
si
era
opposto
con
una
missiva
dal
titolo
Lettera
circolare
a
tutti
gli
ortodossi
sul
divieto
di
radersi
la
barba
e i
baffi.
Come
sottolineò
Perry
in
The
State
of
Russia,
per
la
religione
ortodossa
la
barba
non
era
un
semplice
ornamento
estetico,
ma
rappresentava
l’appartenenza
alla
“vera”
fede
ed
era
perciò
un
segno
di
distinzione
dagli
eretici
stranieri.
Locatelli
Lanzi,
Perry
e
Chappe
d’Auteroche,
sottolinearono
più
volte
l’attaccamento
degli
uomini
russi
alla
propria
barba,
ma
l’episodio
che
meglio
spiega
il
trauma
suscitato
dal
decreto
di
Pietro,
viene
riportato
dall’ingegnere
inglese
che,
durante
il
suo
soggiorno
in
Russia,
conobbe
un
operaio
che
conservò
la
propria
barba
tagliata
per
portasela
nella
tomba,
al
fine
di
esibirla
davanti
ai
Santi,
al
momento
del
Giudizio
finale,
come
prova
della
sua
sincera
religiosità
(The
State
of
Russia,
pp.
196-197).
Dunque,
per
quanto
i
tre
autori
apprezzassero
i
tentativi
di
Pietro
di
riformare
anche
l’abbigliamento
e
l’aspetto
esteriore
dei
propri
sudditi,
non
poterono
non
constatare
la
violenza
psicologica
inflitta
agli
uomini,
toccati
nella
loro
dignità
di
fedeli
ortodossi.
Secondo
quanto
riportato
da
Locatelli
Lanzi,
i
Moscoviti
si
sentirono
oltraggiati
dall’ordine
dello
zar
e il
bergamasco,
dimostrando
il
proprio
disprezzo
per
l’incomprensione
dei
Russi
nei
confronti
del
riformismo
pietrino,
aggiunse
che
“tutti
[i
Russi]
avrebbero
voluto
che
Pietro
il
Grande,
invece
di
provare
a
trasformare
le
bestie
quali
erano
in
uomini,
al
contrario,
si
fosse
adoperato
a
declassarli
allo
stato
delle
bestie
da
quello
di
esseri
umani”
(Lettres
Moscovites,
p.
114).
Anche
Perry
sottolineò
il
trauma
che
il
taglio
della
barba
rappresentò
per
gli
uomini
russi,
che
obbedirono
a
malincuore
alla
volontà
dello
zar
per
paura
delle
punizioni
in
caso
di
disobbedienza.
Tuttavia,
bisogna
notare
come
il
provvedimento
pietrino
non
venne
accettato
passivamente,
ma
al
contrario
suscitò
aspre
critiche
nei
confronti
dello
zar,
espresse
tramite
alcune
lettere
anonime
che
vennero
affisse
per
le
vie
di
Mosca
(The
State
of
Russia,
p.
206).
Alla
morte
del
Patriarca
Adrian,
avvenuta
nel
1700,
Pietro
decise
di
rafforzare
ulteriormente
il
proprio
potere
sopprimendo
il
Patriarcato
che,
data
la
sua
influenza
morale
e le
sue
prerogative
giuridiche,
era
visto
come
l’unico
potenziale
oppositore
indipendente
rispetto
al
pieno
esercizio
dell’autorità
imperiale.
L’istituzione
patriarcale
venne
dunque
abolita
e
sostituita
da
un
nuovo
organismo
burocratico
e
amministrativo:
il
Santo
Sinodo,
di
fatto
dipendente
dall’autorità
imperiale.