N. 135 - Marzo 2019
(CLXVI)
Francesco Mario Pagano, O il "Platone di Napoli"
STORIA DI Uno dei più attivi protagonisti
della Repubblica Partenopea del 1799
di Umberto Vitiello
La
libertà
è la
facoltà
dell’Uomo
di
valersi
di
tutte
le
sue
forze
morali
e
fisiche
come
gli
piace,
colla
sola
limitazione
di
non
impedir
agli
altri
di
far
lo
stesso
Francesco
Mario
Pagano, Costituzione
Napoletana
dell’anno
1799
A
Brienza,
oggi
un
comune
di
poco
più
di
quattromila
abitanti
della
provincia
di
Potenza,
in
Piazza
Municipio
campeggia
il
monumento
in
bronzo
di
Francesco
Mario
Pagano,
inaugurato
nel
1890.
Ritenuto
uno
dei
più
attivi
protagonisti
della
Repubblica
Partenopea
del
1799,
giurista,
filosofo,
drammaturgo,
politico,
detto
il
“Platone
di
Napoli”
per
le
sue
arringhe
impreziosite
da
citazioni
filosofiche,
Francesco
Mario
Pagano
è in
questo
piccolo
borgo
antico,
dominato
dal
Castello
dei
Caracciolo,
che
nacque
l’8
dicembre
1748
da
una
famiglia
di
notai,
primogenito
di
Tommaso
Pagano
e di
Maria
Teresa
Pastore.
Libertario,
laico
ed
esponente
tra
i
più
rilevanti
dell’Illuminismo
meridionale,
divulgò
fino
al
sacrificio
di
sé i
valori
di
giustizia
e
libertà,
e
pagò
con
la
vita
la
sua
lotta
contro
il
regime
tirannico
dei
Borbone.
A
Brienza
visse
fino
alla
morte
di
suo
padre,
in
seguito
alla
quale
all’età
di
quattordici
anni
si
trasferì
a
Napoli
dallo
zio
Nicola,
prete.
Ed è
a
Napoli
che
si
concluse
la
sua
vita,
quando
catturato
dalle
truppe
borboniche
fu
giudicato
sommariamente,
condannato
a
morte
e
impiccato
il
29
ottobre
del
1799.
È
ricordato
comunemente
come
Mario
Pagano,
ed è
senza
il
suo
primo
nome,
Francesco,
che
lo
si
trova
nella
toponomastica
di
Napoli,
Roma,
Milano
e
diverse
altre
città.
A
Napoli
con
l’aiuto
di
suo
zio
portò
a
termine
gli
studi
classici,
e
oltre
al
latino
e al
greco
apprese
anche
l’ebraico.
Spronato
poi
e
guidato
dal
poeta
Gherardo
degli
Angioli,
religioso
dell’Ordine
dei
Minimi
nato
a
Eboli
e
appartenente
a
una
famiglia
nobile
di
Capaccio,
approfondì
lo
studio
del
pensiero
di
Giambattista
Vico.
Fu
però
il
gesuita,
scrittore,
filosofo
ed
economista
Antonio
Genovesi,
durante
l’Università
a
invogliarlo
ad
approfondire
lo
studio
delle
Scienze
morali.
Nel
1768,
quando
non
aveva
ancora
20
anni,
si
laureò
in
Giurisprudenza
con
una
tesi
dedicata
a
Leopoldo
Primo
di
Toscana
e
all’amico
corregionale
grecista
Giuseppe
Glinni
di
Acerenza,
piccolo
borgo
storico,
oggi
in
provincia
di
Potenza
come
Brienza.
L’anno
seguente
pubblicò
il
breve
saggio
“Diritto
del
sistema
della
scienza
degli
ufizj”
col
quale
concorse
senza
successo
alla
carica
di
Etica
presso
il
Reale
Collegio
della
Nunziatella,
non
più
Noviziato
della
Compagnia
di
Gesù
e
non
ancora
Accademia
militare.
Poco
dopo
fu
tuttavia
nominato
lettore
straordinario
di
Etica
all’Università
di
Napoli
e
nel
1770
ebbe
la
cattedra
universitaria.
Con
la
speranza
di
assistere
presto
alla
liberazione
della
Grecia
dall’occupazione
ottomana,
celebrò
la
vittoria
della
flotta
russa
contro
i
turchi
nei
pressi
di
Chio
con
un
panegirico
in
onore
dell’ammiraglio
Aleksej
Grigorjević
Orlov-Česmenskij,
che
pubblicò
nel
1771.
Più
o
meno
in
questo
stesso
anno
iniziò
la
sua
impegnativa
attività
di
avvocato
penalista,
conseguendo
subito
brillanti
risultati.
Amico
di
Gaetano
Filangieri,
con
lui
si
iscrisse
a
La
philantropia,
loggia
massonica
di
rito
inglese
appena
fondata
a
Napoli,
in
cui
militarono
anche
alcune
altre
personalità
dell’illuminismo
meridionale,
tra
cui
Donato
Tommasi
Giuseppe
Leonardo
Albanese
e
Domenico
Cirillo.
Questi
ultimi
due
saranno
anch’essi
esponenti
della
Repubblica
Partenopea
del
1799
e
come
Pagano
verranno
condannati
a
morte
dopo
la
restaurazione
borbonica.
A
Gaetano
Filangieri,
nel
1782,
Pagano
dedicò
la
propria
opera
teatrale
Gli
esuli
tebani,
che
termina
con
la
rivolta
patriottica
contro
il
tiranno
dopo
un’esposizione
narrativa
in
cui
si
evidenziano
le
polarità
etico
politiche
tra
libertà
e
opposizione,
arbitrio
e
giustizia,
despota
e
cittadini.
Nel
1783-1785
pubblicò
i
Saggi
politici,
carichi
di
istanze
antifeudali
e
antidispotiche,
per
i
quali
dovette
difendersi
pubblicamente
dall’accusa
di
“aver
biasimato
l’aristocratico
e
monarchico
governo
lodando
soltanto
la
democrazia”.
Nel
1785
ottenne
la
cattedra
di
Diritto
criminale
all’Università
di
Napoli,
inizialmente
in
qualità
di
sostituto,
poi
come
professore
interino.
Due
anni
dopo
pubblicò
le
sue
Considerazioni
sul
processo
criminale,
in
cui
viene
esaltata
la
superiorità
della
repubblica
sul
regime
monarchico.
In
questo
stesso
anno
1787
pubblicò
anche
due
tragedie:
Gerbino
e
Corradino,
e un
monogramma
lirico,
Agamennone.
Nel
1788
morì
prematuramente
il
suo
amico
Gaetano
Filangieri
e
lui
gli
dedicò
un
commovente
componimento
funebre.
L’anno
seguente
fu
nominato
avvocato
dei
poveri
presso
il
Tribunale
dell’Ammiragliato
e il
Consolato
di
Mare
e
scrisse
il
Ragionamento
sulla
libertà
del
commercio
del
pesce
in
Napoli,
in
cui
esprime
le
proprie
idee
economiche,
di
progresso
civile
e di
equità
sociale.
Del
1792
è la
sua
commedia
L’Emilia,
in
cinque
atti.
In
questo
stesso
anno
nacque la “Società patriottica”
a
cui
Pagano
aderì.
Era
una
società
di
uomini
illuminati,
senza
alcun
fine
rivoluzionario,
ma
con
la
speranza
di
portare
il
sovrano
a
interessarsi
di
cultura.
In
quegli
anni
le
autorità
borboniche
decisero
di
attuare
una
brusca
svolta
repressiva
e
nel
1794
furono
processate
moltissime
persone
per
cospirazione
antimonarchica,
tra
cui
53
membri
della
“Società
patriottica”,
che
venne
dunque
sciolta
e
inquisita.
Francesco
Mario
Pagano
ne
assunse
la
difesa
nella
“Gran
causa
dei
rei
di
Stato”,
ma
pur
impegnandosi
a
fondo
per
dimostrare
l’infondatezza
dell’accusa
e il
fine
non
eversivo
dell’organizzazione,
riuscì
a
salvare
solo
due
dei
53
processati,
mentre
48
furono
condannati
all’ergastolo
e
tre
condannati
a
morte:
il
ventiduenne
pugliese
Emanuele
De
Deo
(1722-1794),
il
ventiquattrenne
campano
Vincenzo
Galiani (1770-1794)
e il
trentunenne
toscano
Vincenzo
Vitaliani
(1763-1794).
La
loro
condanna
fu
eseguita
il
18
ottobre
1794.
Il
giorno
prima
Francesco
Mario
Pagano
aveva
inviato
una
lettera
a
suo
fratello
Giuseppe
in
cui
troviamo
queste
due
frasi:
«Io
la
mia
sorte
l’invidierei
negli
altri»
e
«Il
mio
destino
è
certo,
ed
io
l’attendo
con
intrepidezza
e
maschio
coraggio».
Alla
fine
del
1794
Francesco
Mario
Pagano
dalle
funzioni
di
avvocato
passò
a
quelle
di
giudice
nello
stesso
Tribunale
dell’Ammiragliato,
ma
poco
più
di
un
anno
dopo,
quando
fece
arrestare
un
avvocato
corrotto,
venne
da
questi
denunciato
come
filogiacobino
che
cospirava
contro
la
monarchia
e lo
perseguitava
solo
perché
fedele
al
Re.
E
con
questa
accusa,
nel
febbraio
del
1796
Francesco
Mario
Pagano
fu
messo
in
galera
per
ordine
della
Giunta
di
Stato.
Scarcerato
il
25
luglio
1798
per
mancanze
di
prove
a
suo
carico,
Pagano
si
trasferì
clandestinamente
a
Roma,
dove
fu
ben
accolto
dalla
classe
dirigente
della
neonata
Repubblica
Romana
e
dove,
dopo
aver
pubblicato
il
discorso
Sulla relazione dell’agricoltura,
delle
arti
e
del
commercio
allo
spirito,
ricevette la cattedra di
Diritto
nel
Collegio
Romano,
accontentandosi
di
un
compenso
che
gli
garantiva
il
minimo
indispensabile
per
vivere.
Tuttavia
non
ebbe
modo
di
assumere
questo
incarico
per
gli
eventi
bellici
che
lo
costrinsero
a
trasferirsi
a
Milano,
dove
restò
fino
al
gennaio
del
1799.
Quando
apprese
che
il
re
Ferdinando
IV
s’era
imbarcato
per
rifugiarsi
a
Palermo
e i
francesi
avevano
raggiunto
e
conquistato
Napoli,
decise
di
tornare.
A
Napoli
giunse
il
1°
febbraio
1799
e fu
nominato
membro
del
Governo
provvisorio
della
Repubblica
Partenopea
appena
nata
dal
generale
francese
Jean-ètienne
Championnet,
e
dopo
essere
stato
per
un
certo
periodo
presidente
del
Comitato
di
Legislazione,
divenne
presidente
della
Commissione
Legislativa.
Attiva
fu
la
sua
partecipazione
ai
vari
dibattiti,
come
quello
sull’abolizione
dei
fedecommessi,
facendo
passare
il
10
febbraio
il
principio
di
uguaglianza
nel
diritto
ereditario
tra
primogenito
e i
suoi
fratelli,
e
quello
sull’abolizione
delle
servitù
feudali,
argomento
quest’ultimo
per
il
quale
ci
fu
un’animosa
discussione
che
terminò
il 5
marzo.
In
questo
dibattito
Francesco
Mario
Pagano
non
si
schierò
né
con
gli
oltranzisti
né
con
gli
ultramoderati,
ma
si
dichiarò
propenso
a
una
scelta
equilibrata,
proponendo
di
abolire
tutti
i
diritti
personali,
proibitivi,
fiscali
e
giurisdizionali
legati
al
feudo
e di
verificare
caso
per
caso
la
titolarità
dei
diritti
patrimoniali
sulle
terre
feudali.
Si
distinse
poi
anche
nelle
discussioni
terminate
il
22
aprile
e il
1°
marzo
sull’abolizione
del
testatico
(la
medievale
imposta
pubblica
di
importo
fisso
per
individuo)
e
sull’abolizione
della
tortura.
Tuttavia
il
suo
contributo
più
rimarchevole
come
legislatore
è
senza
alcun
dubbio
il
“Progetto
di
Costituzione
della
Repubblica
napoletana”
proposto
e
presentato
da
lui
all’inizio
di
aprile.
Da
non
sottovalutare
infine
che
tra
gli
obiettivi
politici
di
Francesco
Mario
Pagano
vi
era
anche
la
realizzazione
di
una
profonda
redistribuzione
delle
ricchezze,
un
progetto
non
attuato
per
l’inattesa
fine
della
Repubblica
Partenopea.
L’Armata
Cristiana
e
Reale
della
Sacra
Fede
in
Nostro
Signore
Gesù
Cristo
composta
di
volontari
per
la
maggior
parte
contadini
e
organizzata
in
Calabria
dal
cardinale
Fabrizio
Ruffo
per
la
riconquista
del
Regno
di
Napoli
e il
ritorno
nella
capitale
del
re
borbonico
Ferdinando
IV
rifugiatosi
a
Palermo,
detta
comunemente
Esercito
Sanfedista,
aveva
risalito
la
penisola
conquistando
tutte
le
città
e i
villaggi
sul
suo
cammino,
fino
a
prendere
Nola,
da
dove
si
mosse
per
Somma
Vesuviana
e
Portici
e
infine
giunse
a
Napoli,
conquistata
il
13
giugno
1799
con
la
battaglia
al
Ponte
della
Maddalena,
in
cui
si
distinse
il
criminale
sanfedista
Nicola
Gualtieri,
detto
Panebianco.
Tra
il
18 e
il
22
giugno
si
arresero
anche
gli
ultimi
repubblicani
asserragliati
in
Castel
dell’Ovo,
Castel
Nuovo
e
Castel
Sant’Elmo.
Ai
repubblicani
resistenti
in
quest’ultimo
castello
il
cardinale
Fabrizio
Ruffo
concesse
di
poter
salvarsi
con
la
fuga,
seguendo
le
truppe
francesi
che
stavano
abbandonando
la
città
o
imbarcarsi
su
navi
in
partenza
da
Napoli.
Ma
quando
l’accordo
fu
accettato
e
sottoscritto,
il
re
Ferdinando
IV e
sua
moglie
Carolina,
sicuri
dell’appoggio
degli
inglesi,
tolsero
ogni
comando
al
cardinale
Ruffo
e
non
riconobbero
l’accordo
da
lui
stipulato
coi
“giacobini”.
L’8
giugno
il
re
dichiarò
caduta
la
repubblica
e
nei
mesi
seguenti
ebbero
inizio
i
processi
contro
i
circa
8.000
repubblicani
fatti
prigionieri.
Di
loro
solo
6
furono
graziati,
mentre
288
furono
condannati
alla
deportazione,
222
all’ergastolo,
67
all’esilio,
124
alla
pena
di
morte
e
tutti
gli
altri
a
pene
minori.
Francesco
Mario
Pagano
fu
condannato
a
morte
per
impiccagione
e la
stessa
sorte
toccò
ad
alcune
delle
persone
più
rinomate
della
classe
dirigente
aristocratica,
borghese
e
intellettuale
di
Napoli
e
del
suo
Regno,
come
Domenico
Cirillo,
il
vescovo
Michele
Natali,
Nicola
Pacifico,
Pasquale
Baffi,
Giuseppe
Leonardo
Albanese,
Vincenzo
Russo
,
Francesco
Caracciolo,
Ettore
Carafa,
Michele
Granata,
Gennaro
Serra
di
Cassano,
Niccolò
Carlomagno,
Eleonora
Pimentel
Fonseca,
Luisa
Sanfelice,
Secondo
Giuseppe
Poerio
e
Giorgio
Piglacelli.
Tra
i
condannati
all’esilio
vi
erano
Vincenzo
Cuoco
e il
vescovo
Bernardo
della
Torre,
vicario
generale
dell’arcidiocesi
di
Napoli.
Giustino
Fortunato
senior,
magistrato
e
politico,
prozio
del
meridionalista
Giustino
Fortunato,
riuscì
ad
evadere
dal
carcere.
Suo
pronipote,
il
meridionalista
Giustino
Fortunato,
pubblicò
nel
1884
I
giustiziati
di
Napoli
del
1799
in
cui
tra
le
altre
cose
scrisse:
« Parlo
di
quella
vera
ecatombe,
che
stupì
il
mondo
civile
e
rese
attonita
e
dolente
tutta
Italia,
l’ecatombe
de’
giustiziati
nella
sola
città
di
Napoli
dal
giugno
1799
al
settembre
1800
per
decreto
della
Giunta
Militare
e
della
Giunta
di
Stato.
Il
mondo,
e
l’Italia
specialmente,
sa i
nomi
e
l’eroismo
di
gran
parte
di
quegli
uomini,
sente
ancor
oggi
tutto
l’orrore
di
quelle
stragi,
conosce
di
quanto
e di
quale
sangue
s’inbevve
allora
quella
piazza
del
Mercato,
in
cui
al
giovinetto
Corradino fu
mozzo
il
capo
il
29
ottobre
1268,
e il
povero
Masaniello tradito
e
crivellato
di
palle
il
16
luglio
del
1647;
ma
pur
troppo,
ignora
ancora
tutti
i
nomi
di
quei
primi
martiri
della
libertà
napoletana! ».
Benedetto
Croce,
nel
riferire
la
perfidia
dei
sovrani
e di
Nelson
che
destarono
una
forte
impressione
non
solo
in
Italia
e in
Francia,
ma
anche
in
Inghilterra,
dove
Charles
Fox
pronunciò
un
acceso
discorso
alla
Camera
contro
il
comportamento
dell’ammiraglio,
dichiarò
per
iscritto:
« La
condanna
della
reazione
borbonica
del
Novantanove
è
una
delle
più
fiere
condanne
morali,
che
abbia
pronunciato
la
storia.
Sì,
certo,
le
nostre
simpatie
personali
sono
per
quei
vinti
contro
quei
vincitori:
sono
pei
precursori
dell’Italia
nuova
contro
i
conservatori
dell’antica:
sono
pel
fiore
dell’intelligenza
meridionale
contro
l’espressione
massima
dell’oscurantismo
internazionale.
Ma
per
quei
vinti
e
contro
quei
vincitori,
ci è
di
più
la
ribellione
del
nostro
sentimento
etico».
Mentre
lo
scrittore
e
patriota
Luigi
Settembrini
volle
ricordare
i
martiri
napoletani
della
libertà
del
1799
con
queste
parole:
«La
strage
di
quegli
uomini,
ne’
quali
si
volle
spegnere
l’intelligenza
e la
virtù,
ruppe
il
sapere
tra
una
generazione
e
l’altra,
distrusse
ogni
principio
di
fede
e
moralità
pubblica».