N. 22 - Marzo 2007
Frammenti
di vita quotidiana ai tempi dei Romani
Scenari e
rituali nell'antica Urbe
di Tiziana Bagnato
Rumori assordanti, vociare,
colpi di martello, frastuoni: i Romani
dell’epoca imperiale iniziavano presto la loro
giornata, al richiamo di una città in fermento
che non voleva sprecare nemmeno un istante di
luce naturale.
Al levar del sole e al suono
della campana, un nugolo di servi piombava
negli appartamenti con un arsenale di secchi,
strofinacci, scale e pertiche munite in cima
di spugne, piumini e scope. Inoltre,
spargevano sul pavimento segatura di legno per
assorbire lo sporco e con le spugne pulivano
pilastri e cornici.
Tra il risveglio e l’uscita di
casa non occorreva molto tempo, perché le
pratiche a cui i romani si dedicavano erano
rapide ed essenziali. Inoltre, la camera da
letto, il cubiculum, non aveva molta
attrattiva. Era,infatti, di solito di
dimensioni molto ridotte; le imposte erano
cieche, così che chiuse, lasciavano la stanza
completamente al buio, mentre, aperte,
l’esponevano alla pioggia, al sole e alle
correnti d’aria.
Inoltre, di solito non erano
decorate ma rimanevano alquanto spoglie. La
maggior parte delle volte il letto, cubile,
era l’unico mobile. Altre volte, invece, ad
adornarla c’erano soltanto una cassa per i
denari e le stoffe, arca, una sedia e
un vaso da notte.
Il letto,inoltre, non era dei
più comodi. Su delle cinghie incrociate
poggiavano un materasso e un guanciale, la cui
imbottitura consisteva, per i poveri, in fieno
e in foglie di canna, e, per i ricchi, in lana
tosata o piume di cigno. Il materasso era
rivestito da due coperte o tappeti, uno per
poggiarsi e l’altro per coprirsi. A quest’ultimo,
veniva sovrapposta una trapunta o un
copriletto policromo e damascato.
Nel ristretto numero degli
indumenti, figura in primo luogo il
subligaculum o licium, una sorta di
perizoma, di solito di lino, annodato intorno
alla vita. La tunica, invece,
consisteva in una specie di camicia di lino o
di lana formata da due pezzi di stoffa cuciti
insieme. Vi si infilava, per prima cosa, il
capo e si stringeva intorno al corpo con una
cintura. Poi la si aggiustava in maniera tale
da farla cadere in maniera ineguale.
Dalla parte posteriore,
infatti, la tunica doveva arrivare un po’
sopra il ginocchio, e davanti, poteva essere
un po’ più lunga. La moda aveva poi introdotto
alcune varianti. La tunica delle donne poté
così diventare lunga fino ai talloni,mentre,
quella dei militari doveva essere più corta di
quella dei civili. Quella dei semplici
cittadini doveva essere più corta di quella
dei senatori, bordata anche di una striscia di
porpora.
Per ogni stagione la lunghezza
della maniche era sempre corta. Solo durante
il Basso Impero, vennero introdotte maniche la
cui lunghezza arrivava oltre la parte alta del
braccio. Proprio per sopravvivere al freddo,
agli schiavi era permesso usare dei guantoni,
e in generale, era utilizzato l’amictus.
Con questo termine, si fa
riferimento alla sopraveste, chiamata anche
toga, un ampio semicerchio di stoffa di
lana bianca di due metri e settanta di
diametro, che si distingueva per la sua forma
a ruota da tutte le varietà derivate
dall’imitazione degli elleni.
La toga rimase costume
nazionale dei romani, restò sotto l’Alto
Impero il loro abito da cerimonia. Ma per
potersi drappeggiare a dovere, spesso
occorreva l’aiuto di qualcuno e, inoltre, non
era facile nemmeno mantenerla candida. I
lavaggi frequenti a cui bisognava sottoporla,
ben presto la consumavano.
Indossare la toga era,
in effetti, l’unica operazione mattutina che
richiedesse del tempo. Le altre operazioni
erano estremamente rapide. Le abluzioni,
infatti, erano rimandate al pomeriggio. Il
romano, in genere, sostituiva la colazione del
mattino con un bicchiere d’acqua e sciacquava
celermente le mani, la bocca e gli occhi.
La vera toilette dei romani era
quella che si compiva tutte le mattina presso
il tonsor, presso cui si facevano
radere la barba e accorciare i capelli. I più
ricchi spesso avevano dei tonsores fra
i propri domestici, a cui si affidavano anche
più volte durante la giornata. I meno
abbienti, invece, si recavano presso una delle
tante botteghe di tonsor, talmente
frequentate da diventare dei veri e propri
luoghi di incontro. Il primo taglio della
barba era, inoltre, un vero e proprio rito,
segnato dalla cerimonia della depositio
barbae.
All’inizio del secondo secolo
d.C., la maggior parte dei romani non
prestavano particolare cura ai capelli, che
venivano tagliati con una forbice di ferro,
forfex, le cui lame avevano un perno
comune nel mezzo e due anelli alla base per
permetterne la presa. Si trattava di uno
strumento la cui precisione lasciava molto a
desiderare, creando spesso sui capelli le
cosiddette “scale”.
Ma altri preferivano, invece,
che i capelli gli venissero arricciati con il
pettine o con il calamistrum, una
specie di stilo di ferro scaldato in una
guaina di metallo sotto la cenere ardente,
intorno a cui il tonsor attorcigliava i
capelli. Capelli che spesso venivano anche
colorati o profumati, a completamento di
trattamenti di bellezza che prevedevano anche
la stesura sulle guance di belletti.
Queste pratiche ci richiamano
alle donne, le matrone, la cui toilette non
era molto dissimile, per alcuni aspetti, a
quella dei mariti. Sia che dormissero nella
stessa stanza del marito, sia che dormissero
in camere distinte, le matrone prima di andare
dormire conservavano anche esse la biancheria
intima, il perizoma, la fascia del seno o la
guaina, la tunica e le tuniche.
Al risveglio le cure del corpo
erano anche per le matrone ridotte
all’essenziale e rimandate all’ora del bagno.
Uno dei tratti distintivi del risveglio era
l’acconciatura della capigliatura che, dopo il
tempo della Repubblica, non era cosa
semplicissima. Per potere arricciare la loro
capigliatura, le matrone ricorrevano alle
ornatrices le quali, vengono spesso
ricordate in epigrammi e satire per le agonie
alle quali loro stesse spesso venivano
sottoposte dalle padrone scontente.
Dopo la “costruzione” della
capigliatura, le ornatrices si
occupavano di depilare la padrona e
soprattutto di “dipingerla”. Avevano, infatti,
una specie di tavolozza costituita da una
collezione di vasi, boccette, alabastri, e
pissidi, da cui estraevano linimenti, pomate e
belletti. Con il gesso e la biacca passavano
il bianco sulla fronte e sulle braccia, con
l’ocra o la feccia di vino passavano il rosso
sulle labbra e gli zigomi.
Una volta imbellettata, la
matrona indossava i gioielli, dal diadema sui
capelli, agli orecchini, le collane, i
ciondoli e gli anelli, quelli per le dita, per
le braccia e per le caviglie. Solo allora le
cameriere intervenivano per aiutarla a
vestirsi. Prima le facevano indossare la lunga
tunica, poi la stola, in fondo a cui
era cucito un gallone ricamato in oro, e la
cintura. Infine, l’avvolgevano in uno scialle
che le copriva le spalle e le scendeva fino ai
piedi.
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