N. 52 - Aprile 2012
(LXXXIII)
SUL DANUBIO
Frammenti di viaggio a Budapest
di Miro Gabriele
Nubi
monsoniche
hanno
ricoperto
Budapest,
l’hanno
immersa
in
un’afosa
caligine.
Il
cielo
è di
un
colore
stinto,
pallidissimo,
l’umidità
cola
per
le
strade
come
una
pioggia
invisibile.
Non
è un
problema
per
me,
il
clima
non
mi
da
fastidio.
Male
per
le
famigliole
in
vacanza,
che
devono
adattarsi,
sbuffando
e
arrancando
fra
i
palazzi
di
Pest
coi
loro
orribili
pantaloncini,
e le
canottiere
dai
colori
più
assurdi.
Campioni
di
questo
mini
abbigliamento
sono
i
tedeschi,
che
si
impegnano
in
tremendi
tour
de
force
sui
marciapiedi
affollati,
esibendo
con
impassibile
ingenuità
le
loro
divise
estive.
Luogo
destinato
a
movimenti
d’altra
fauna
urbana
è
Vorosmarty
Ter
(cioè
Piazza
Vorosmarty),
dove
gruppetti
di
italiani
inconfondibili,
in
libera
uscita
come
dei
militari,
sciamano
oziosamente
nel
vasto
spazio
pedonale,
dietro
la
lussuosa
serie
di
hotel.
Si
aggirano
come
anime
in
pena,
senza
altro
scopo
che
quello
prefissato,
geneticamente
imperioso,
della
contemplazione
di
qualsiasi
bellezza
del
posto.
In
genere
silenziosi,
non
comunicano
fra
di
loro
se
non
in
via
strettamente
funzionale
a
questa
bramosa
ricerca.
Girano
a
lungo,
meccanicamente,
intorno
al
monumento
che
al
centro
della
piazza,
sui
gradini
circondati
dagli
alberi,
raccoglie
come
tanti
allegri
uccellini
le
ragazze
di
Budapest
dai
musetti
furbi
e
dagli
zigomi
alti.
Se
ne
stanno
lì,
l’una
accanto
all’altra:
una
bionda
coi
capelli
raccolti,
una
rossa
tutta
arruffata,
una
mora
col
caschetto
e
così
via.
Chiacchierano
con
le
loro
armoniche
vocali,
occhieggiano
la
marea
di
turisti
e i
drappelli
silenziosi
di
italiani.
Una
teoria
di
seggiolini,
poco
più
in
là,
ospita
giovani
pittori
che
eseguono,
come
in
ogni
spazio
turistico
al
mondo,
quei
loro
ritrattucci
o
caricature
dallo
stile
sempre
uguale.
Le
ragazzine
intanto,
si
riempiono
gli
occhi
di
ingenua
soddisfazione
per
essere
oggetto
di
tanti
sguardi,
e
fanno
scorta
di
emozioni
a
buon
mercato.
Io e
Stefano
ci
sediamo
a
uno
dei
tavolini
di
un
bar,
che
occupano
disordinatamente
un
angolo
della
piazza.
I
camerieri
fanno
complicate
gincane
scavalcando
zaini
e
borse
multicolori
poggiati
fra
una
sedia
e
l’altra.
Una
giovane
cameriera,
vestita
di
nero,
difende
il
suo
ruolo
con
parole
gentili,
mentre
l’aiuto
a
sgombrare
il
tavolo.
Accanto
a
noi
sono
sistemate
cinque
italiane,
cinque
nordiche
bruttine
sui
trent’anni:
hanno
fatto
il
loro
cerchio
femminile
con
aranciate
e
vaghe
chiacchiere.
Sembrano
in
viaggio
da
sole,
la
mancanza
di
compagnia
maschile
le
rende
taciturne.
Eterni
occhiali
da
sole,
sandali
e
accurata,
pignola,
consultazione
di
guide.
Giunge
della
musica
a
tratti,
facendosi
strada
tra
il
chiasso
del
locale
e
l’aria
umida.
È un
gruppo
di
musici
folk,
certamente
anglosassoni,
con
liuti
dalle
morbide
curve
e
sottili
cornamuse,
sono
arroccati
non
lontano
da
noi
davanti
a
un’edicola
di
metallo.
Raccolgono
discreti
applausi
da
un
cerchio
di
spettatori.
Una
delle
italiane
mi
sta
guardando,
protetta
dall’indefinibile
sguardo
delle
lenti
scure,
la
più
insignificante,
con
guancie
pienotte
sotto
l’ordinario
caschetto
di
capelli.
Sollevo
la
celata
dei
miei
Ray
Ban
e le
restituisco
uno
sguardo
diretto,
senza
equivoci.
Distoglie
il
suo
e
passa
ad
altre
contemplazioni.
La
cameriera
è di
nuovo
qui,
con
un
grande
vassoio
colmo
di
birre,
un
po’
affannata
per
il
continuo
avanti
e
indietro,
è
sudata,
i
capelli
biondi
raccolti
dietro
le
orecchie.
Si
volta
verso
di
noi,
ha
notato
la
scena,
ci
lancia
un
piccolo
sorriso.
*
Ecco
che
la
classica
gita
in
battello
sul
Danubio,
che
compiamo
obbedendo
a un
copione
prestabilito
nella
rete
degli
itinerari
cittadini,
ma
anche
puerilmente
eccitati
dal
fascino
dell’acqua,
si
trasforma
in
un
deja
vu
d’altri
luoghi
e
d’altri
tempi.
Il
battello
compie
le
manovre
di
rito
per
staccarsi
dal
pontone
d’imbarco,
un
bar
di
lusso
galleggiante,
ancorato
alla
banchina,
e
noi,
presi
con
piacere
dalla
lieve
instabilità
della
navigazione,
osserviamo
commentando
allegramente,
seduti
a
poppa
su
bianche
seggioline.
Il
sole
estivo,
uscito
finalmente
dalle
nuvole
e
addolcito
dalla
brezza
del
fiume,
induce
ad
abbandonare
le
membra
con
pigrizia.
Socchiudo
gli
occhi
rilassandomi
con
le
gambe
allungate.
Mi
godo
il
calore
sulla
pelle
e
l’ondeggiare
del
battello
come
un’enorme
culla.
Lo
sgranarsi
improvviso
di
una
musica
strana
e
familiare,
mi
fa
riaprire
gli
occhi.
Ragazze
arabe
dai
lunghi
vestiti,
l’oro
scintillante
alle
orecchie,
sono
sedute
alla
mia
destra
su
una
cassapanca.
Hanno
acceso
un
piccolo
stereo
e
impongono
candidamente
la
loro
concitata
melodia
ai
tranquilli
gitanti.
Una
piccola
tribù
femminile,
gli
occhi
incorniciati
da
veli
scuri
che
ondeggiano
al
vento.
Giovani
donne
lontane
da
casa,
ma
parte
inseparabile
del
loro
melodico,
rigido
Islam.
Una
bambinella,
teneramente
sdentata
e
con
gli
occhi
ridenti,
sgambetta
con
le
sue
piccole
fantasie
tra
le
sorelle
maggiori,
ancora
ignara
di
quel
legame
così
forte
che
l’ha
presa,
e
già
la
tiene
stretta.
I
ponti
di
Budapest
ci
vengono
incontro
lentamente.
La
città
spiega
l’architettura
ottocentesca
della
sua
riva
sinistra,
alternando
le
ricostruzioni
postbelliche
a
concessioni
al
turismo
moderno:
la
fila
dei
grandi
alberghi
schierati
di
fronte
al
castello.
La
musica
araba
intanto,
con
la
sua
impronta
ritmica
e le
gutturali
semitiche
del
canto,
mi
tiene
in
bilico
fra
due
mondi.
Vivo
questa
gita,
una
sorpresa
della
multirazziale
Budapest,
su
due
piani
distinti
e
paralleli,
il
presente
mitteleuropeo
e la
mitica
memoria:
il
mio
lungo
apprendistato
di
viaggiatore
nel
paesi
mussulmani.
La
più
grande
delle
sorelle,
quella
che
ha
acceso
lo
stereo,
mi
rivolge
improvvisamente
la
parola
nel
suo
scandito
inglese.
Glie
ne
ho
dato
modo
forse
guardandola
con
insistenza.
Ci
scambiamo
qualche
informazione
sulla
città.
Senza
farmene
accorgere
do
una
occhiata
al
padre,
comparso
sul
ponte
con
una
lunga
zimarra
e lo
zucchetto
in
testa.
Anche
lui
m’ha
notato,
mi
concede
appena
un’occhiata
mentre
si
sistema
sulla
sdraio.
Sono
abituati
a
contatti
internazionali,
come
dimostra
l’inglese
corretto
e il
fare
disinvolto
delle
figlie.
Il
battello
ha
compiuto
la
metà
del
tragitto
e
ora
sta
virando
verso
l’altra
sponda,
sotto
la
collina
di
Buda.
Non
possiamo
comunicare
che
così,
molto
semplicemente,
come
turisti
di
due
mondi
diversi,
avvicinati
per
caso
da
una
gita
in
battello.
Non
è la
più
carina
delle
sorelle,
ma
riesce
a
trasmettere
un
bel
calore
femminile
con
la
sua
voce
tranquilla,
e la
dolcezza
naturale
dello
sguardo.
Tutto
è
destinato,
lo
sappiamo
entrambi,
a
terminare
sulle
acque
opache
del
Danubio.
Vengo
a
sapere
che
sono
degli
Emirati
Arabi,
la
faccio
sorridere
sciorinando
le
mie
poche
parole
nella
sua
lingua,
cercando
di
riprodurre
al
meglio
quei
suoni
gutturali.
Poi
non
c’è
più
niente
da
dire,
mentre
la
gita
volge
alla
fine.
Restiamo
seduti
vicino,
lievemente
imbarazzati,
a
guardare
i
gabbiani
e la
scia
vorticosa
del
battello.
Il
cerchio
della
sua
famiglia
se
la
riprende
in
fretta;
sbarcare
da
una
nave
è
sempre
un
atto
che
si
compie
con
rapidità,
e
così
facciamo
tutti
e
due,
disperdendoci
sulla
banchina
sotto
il
Forum
Hotel.
La
rincontro
più
tardi,
quando
è
già
notte
sulla
città,
a
passeggio
con
la
famiglia
tra
le
luci
e le
vetrine
di
Vaci
utca,
nell’oziosa
ressa
dell’isola
pedonale.
Ma è
ormai
persa
dentro
i
suoi
veli,
in
fila
con
le
sorelle
e la
mamma
dietro
al
padre.
Non
riesco
neppure
a
riconoscerla
tra
il
frusciare
delle
vesti.
Ci
passano
accanto,
leggere
e
silenziose,
si
allontanano
nella
direzione
opposta.
*
Siamo
nel
cono
di
luce
di
un
gruppo
di
riflettori,
sul
Bastione
dei
pescatori,
sottile
filigrana
di
pietra
snodata
come
un
serpente
in
cima
alla
collina.
La
notte
è
dolce
e
asciutta,
dopo
lunghe,
fastidiose
ore
di
pioggia
nel
pomeriggio;
una
brezza
leggera
fa
tremare
le
fronde
oscure
degli
alberi
che
si
affacciano
all’estremità
del
bastione.
Nei
punti
di
congiunzione
delle
muraglie,
torrette
dal
tetto
conico
avvitano
i
loro
snodi,
innalzandosi
con
stretti
scalini
sopra
i
lunghi
camminamenti.
Solito
sciame
di
confusi
visitatori
spende
le
ultime
ore
della
sera
poggiandosi
alle
balaustre
e
affacciandosi
sul
vuoto.
La
visione
notturna
è
grandiosa
e
tranquilla:
l’oscura
vena
del
Danubio
giù
in
fondo
e i
suoi
ponti
dalle
zampe
d’insetto,
carichi
di
luci
come
dei
candelabri.
I
puntini
luminosi
delle
automobili
sul
lungofiume
e la
facciata
del
Parlamento,
illuminata
da
un
riflettore,
segnano
l’orlo
dell’altra
città,
il
territorio
multiforme,
sparso
nell’oscurità
della
pianura
coi
suoi
segni
confusi
e
scintillanti.
Sazio
del
rito
del
panorama,
mi
siedo
sul
sedile
di
pietra,
con
lo
sguardo
rivolto
alla
chiesa,
il
lume
potente
dei
riflettori
mi
spiove
un
po’
negli
occhi.
Stefano
alla
mia
sinistra
sta
scrivendo,
col
quaderno
poggiato
sulla
copertina
di
Marziale,
perso
dentro
la
sua
ricostruzione
della
festa
di
ieri
sera,
con
le
nostre
amiche.
Vicino
a
lui,
due
giovani
ungheresi
si
amano,
inscindibili
nel
loro
perfetto
abbraccio.
Alla
mia
destra,
un
paio
di
metri
più
in
là,
alcuni
italiani
masticano
i
soliti
commenti
di
turisti
su
cambio
dei
soldi,
ristoranti
ecc.
e
non
riescono
a
comprendere
il
fascino
del
silenzio.
Restano
pochi
minuti,
e
nel
vuoto
di
suoni
che
improvvisamente
s’allarga
sul
bastione,
ecco
affiorare
due
mormorii,
limpidi
e
sottili.
Due
suoni,
schierati
stereofonicamente
davanti
a
me.
A
sinistra
lo
scrosciare
di
un’acqua
sotterranea,
il
suo
perpetuo,
inafferrabile
discorso,
e a
destra,
proprio
sotto
i
riflettori,
alla
base
della
chiesa,
un
flauto
invisibile
che
recita
il
suo
intangibile
monologo
barocco.
Le
due
voci
danno
vita,
così
causalmente
avvinte,
ad
un
perfetto
contrappunto.
Sono
i
due
poli,
inscindibili
e
contrapposti,
del
mondo
sensibile.
La
voce
della
natura,
multiforme
e
mai
eguale
a se
stessa,
e il
pensiero
umano
che
si
fa
musica:
il
suo
elegante
e
logico
commento
sale
con
grazia,
con
metodica
delicatezza,
lungo
le
torri
gotiche
della
chiesa.
Ma
ecco
che
la
luce
dei
riflettori
si
spegne,
ritirando
nel
vuoto
le
sue
antenne.
Buio
improvviso
sugli
spalti,
ci
alziamo
in
piedi
tutti
e
due.
È il
momento
di
andarsene.