LA
FOTOGRAFIA DI MODA
ARTISTA E PROFESSIONISTA: IL
FOTOGRAFO DI MODA / PARTE III
di Alessandra Olivares
Le mostre collettive offrono un
contributo fondamentale nella
comprensione del ruolo primario
assunto dalla fotografia e dalla
moda, in quanto due dei linguaggi
più significativi della
contemporaneità. Esse hanno però
anche il limite di non riuscire a
individuare un filo conduttore che
colleghi gli artisti tra loro,
lasciando inoltre allo spettatore la
sensazione di non riuscire a
cogliere l’arte di ogni singolo
autore che, soprattutto quando è
poco noto, rischia di risultare
praticamente invisibile all’interno
di un discorso collettivo su questo
affascinante genere di fotografia.
Nel progetto di ricostruzione del
complesso sistema di relazioni
esistente tra moda, costume, cinema,
pubblicità, arte e società, in cui,
come già detto, la fotografia ha
assunto un ruolo di primaria
importanza, le mostre personali
rivestono un compito fondamentale.
Se le mostre collettive concentrano
l’attenzione sulla vitalità che la
fotografia di moda offre alla
visualità contemporanea, quelle
personali hanno il compito di far
conoscere al grande pubblico il
valore artistico del singolo autore,
senza mai astrarlo dalla realtà in
cui è vissuto. In Italia, inoltre,
esse sono il frutto dell’esigenza di
scrivere la storia della fotografia
italiana, ambito viziato da limiti
ideologici e per questo a lungo
inesplorato dalla storiografia e
dalla critica, pur essendo
l’espressione di una cultura
specifica.
Arturo Ghergo. L’immagine della
bellezza. Fotografie 1930-1959
Molto spesso le mostre personali
sono mosse dal sentimento di dovere
rimediare a un torto subito e
rendere omaggio al fotografo
contribuendo a consolidare
l’approccio storico-critico alla sua
poetica. È il caso di due mostre
dedicate ad Arturo Ghergo, un
raffinato artista italiano
trascurato per lungo tempo dalla
critica e poco presente nella
storiografia d’argomento, forse a
causa del suo scarso interesse a
promuoversi attraverso mostre,
concorsi o pubblicistica
specializzata, avendo sempre
concepito e praticato la fotografia
come una professione.
Eppure tra il 1930 e il 1959, la
maggior parte dei divi e degli
esponenti dell’alta società
desideravano essere ritratti da
Ghergo, la cui firma costituiva una
garanzia di qualità. Infatti, Ghergo
è stato il creatore di una vera e
propria mitologia della bellezza,
costruita su un ideale algido e
sofisticato, «pragmaticamente
asservito al compiacimento del
committente, che ama stupirsi della
propria “naturale” fotogenia».
Arturo Ghergo. L’immagine della
bellezza. Fotografie 1930-1959 si
tenne al Palazzo Reale di Milano nel
2008, mentre Arturo Ghergo.
Fotografie 1930-1959 al Palazzo
delle Esposizioni di Roma nel 2012.
Entrambe furono volute e curate
dalla figlia del fotografo Cristina
Ghergo e da Claudio Domini, che
attraverso le due grandi mostre
antologiche hanno rivelato a un
vasto pubblico, evidenziandole, le
straordinarie doti estetiche di
questo artista, oltre alla valenza
socio-culturaledelle sue immagini.
Attraverso le mostre e i cataloghi
ad esse correlati è stato e continua
a essere possibile, conoscere il
lavoro di un eccellente
professionista dotato di una
sensibilità estetica eccezionale e,
giustamente, considerato il pioniere
della glamour photography italiana.
Attraverso un uso sapiente della
luce che plasma la forma, l’artista
ha da subito dimostrato una precoce
attitudine verso i modelli divistici
hollywoodiani, incarnati nelle
immagini di fotografi del calibro di
Edward Steichen e Ruth Harriet
Louise.
Isa Miranda, Alida Valli, Doris
Duranti, Isa Pola, Elli Parvo, Olga
Villi, Sophia Loren, Amedeo Nazzari,
Massimo Girotti, oltre a numerosi
principi e principesse, baroni e
baronesse, esponenti della politica,
tra cui Alcide De Gasperi e Giulio
Andreotti, ma anche Pio XII, sono
solo alcune delle personalità
ritratte e «trasfigurate dal
Ghergo’stouch in sofisticate entità
semidivine» e che potevano essere
ammirate nelle mostre sopracitate.
Il caso di Arturo Ghergo è
particolarmente interessante, non
solo perché è stato un pioniere,
almeno in Italia, di quella
generazione di artisti che, pur
praticando e concependo la
fotografia come una professione,
hanno raggiunto risultati di
riconosciuta valenza estetica, ma
anche perché Ghergo è sempre stato
restio a frequentare l’ambito
dell’arte istituzionale e a
promuoversi attraverso esso.
Non possiamo conoscere i motivi di
questa scelta, ma certamente
l’artista era consapevole «che la
fotografia […] costituisce un
sistema differente, persino più
complesso e articolato di quello
dell’arte tout court, e come tale ci
chiede un approccio peculiare che
tenga in debito conto le specificità
funzionali del mezzo».
Insomma l’opera di Ghergo, concepita
sempre all’interno di logiche
commerciali, non trovava posto negli
schematismi spesso applicati alla
tradizione artistica del passato,
perché, come ha sottolineato Claudio
Domini, coinvolge aspetti molto
complessi che non riguardano
esclusivamente la sfera artistica ed
estetica, ma strettamente collegate
a funzioni specifiche legate alla
committenza e alla divulgazione
pubblicitaria delle immagini di
Ghergo.
Le due sole mostre dedicate a questo
artista appaiono illuminanti per
comprendere il cambiamento al quale
da un po’ di anni si è aperto il
sistema museale che, nonostante le
opportunità espositive e di
visibilità offerte dalla rete, resta
fondamentale per la divulgazione e
la valorizzazione della cultura
visuale contemporanea.
Quello stesso sistema che per troppo
tempo ha ignorato un autore che
volutamente ne è rimasto fuori,
forse per non essere ingabbiato in
rigidi parametri codificati, oggi
inizia a celebrarlo dimostrando che
non è più necessario «emendarsi dal
“peccato originale” di aver
considerato la fotografia anche un
mestiere». Al contrario riconosce
che la vera modernità di Ghergo è
stata «essere dentro la storia,
pienamente coinvolto dal ruolo che
essa ha assegnato in un determinato
momento al mezzo fotografico, quello
di veicolare una nuova strategia
comunicativa, basata su un inedito
modello iconografico».
Le sue splendide immagini hanno
retto la prova del tempo
distinguendosi per la maestria e la
raffinatezza estetica con cui sono
state realizzate e meritando a pieno
titolo di entrare a far parte delle
collezioni dei più importanti musei
contemporanei.
Pasquale De Antonis. La
fotografia di moda 1946-1968
Se Arturo Ghergo è giustamente
considerato il pioniere della
fotografia di moda italiana, a
Pasquale De Antonis va il merito di
aver documentato la nascita della
moda italiana. Proprio dalla volontà
di far conoscere al grande pubblico
l’opera di questo artista poliedrico
e intuitivo, nacque la mostra curata
da Maria Luisa Frisa Pasquale De
Antonis. La fotografia di moda
1946-1968, tenutasi al Palazzo
Fontana di Trevi di Roma nel 2008.
Di essa Nicoletta Fiorucci affermò:
«Immagino la mostra dedicata a De
Antonis come la prima tappa di un
percorso che vuole restituire a Roma
il suo glamour nella vicenda
dell’alta modaitaliana».
Testimone del proprio tempo,la
fotografia di moda rappresenta un
viaggio visionario alle origini,
consapevole del valore della storia,
come radice del presente. Questa
mostra si ricollegava a un progetto
più ampio iniziato da Federica Di
Castro e Bonizza Giordani Aragno che
intendeva ricostruire le complesse
relazioni esistenti tra gli svariati
linguaggi della visualità
contemporanea.
Di questo progetto, nato
esplicitamente per l’esigenza e
l’urgenza di rintracciare e scrivere
la storia della fotografia italiana
di moda, fa parte anche il libro e
la conseguente mostra già citata Lo
sguardo italiano, unica tra l’altro
ad aver incluso tra i settanta nomi
in mostra anche quello di Arturo
Ghergo.
La mostra dedicata a De Antonis è
nata dal sentimento di dovere
rendere un tributo e far conoscere a
un più vasto pubblico l’opera di
questo artista. Infatti, De Antonis,
per quanto ignoto a molti, è stato,
insieme a Mario Giacomelli, il più
grande fotografo del Novecento. È
stato colui che meglio ha saputo
documentare il fenomeno della
Hollywood sul Tevere e la nascita
dell’alta moda italiana, realizzando
numerosi servizi negli atelier delle
sorelle Fontana, di Emilio Schubert,
di Simonetta e di Alberto Fabiani.
Di fronte alle immagini di Roma e
della moda scattate da De Antonis
nasce il desiderio di indagare sul
significato di quegli scatti, da cui
emerge l’immagine di una società per
la quale il lusso, la mondanità e
l’esibizionismo erano “bisogno di
vita”.
De Antonis coglie un importante
cambiamento sociale iniziando a
fotografare non più nobildonne e
dive tanto in voga nel dopoguerra,
ma ragazze giovani e aspiranti
concorrenti dei concorsi di
bellezza, molto simili alle
splendide attrici di quegli anni,
come Sophia Loren e Gina
Lollobrigida. Con De Antonis,
quindi, l’immagine inizia la sua
ascesa verso la comunicazione di
massa, svelando i cambiamenti
sociali attraverso l’apparente
leggerezza della moda.
Aldo Fallai. Da Giorgio Armani al
Rinascimento. Fotografie dal 1975 al
2013
Quando un giovane e promettente
stilista incontra un grafico che da
poco ha iniziato a fotografare può
nascere una storia destinata a
lasciare il segno. È quanto
raccontano gli scatti realizzati da
Aldo Fallai per Giorgio Armani. Nel
2014 Firenze, la sua città, ha
ospitato una mostra monografica a
lui dedicata negli spazi di Villa
Bardini e Museo Stefano Bardini. La
mostra curata da Martina Corgnati e
Luigi Salvioli è nata dal desiderio,
e un po’ anche dal senso di dovere,
di rendere omaggio a un protagonista
della cultura visuale italiana e al
suo impegno professionale e
artistico.
L’esposizione museale delle immagini
di Fallai fa da mediatore nel
panorama sconfinato di immagini che
quotidianamente invadono il mondo,
«per verificare l’immenso scarto che
si percepisce fra il messaggio
concettuale e formale dei modelli
fissati da un obiettivo colto e
pensoso e quello trasmesso oggi da
repertori di fotografie per lo più
convenzionali e ripetitivi».
Nelle fotografie di Fallai convivono
perfettamente antico, moderno e
futuro, in esse la ricerca
incessante della forma dà vita a
immagini di straordinario impatto
visivo, culturale e sociologico. Tra
Armani e Fallai si stabilì una
relazione simbiotica capace di una
valorizzazione reciproca. Armani
trovò nel fotografo fiorentino un
interprete eccellente e sensibile,
che a sua volta deve la propria
notorietà agli scatti realizzati per
lo stilista.
Fallai passa dal piano americano al
primo piano riuscendo a suggerire,
attraverso i dettagli degli abiti,
storie che raccontano lo spirito di
una società che vive rapidi
cambiamenti. Porta i modelli fuori
dallo studio, in luoghi qualsiasi
mostrando gente bellissima che vive
vite desiderabili, ma possibili. Non
cerca la diva o la bambola, ma una
donna vera in cui scorgere un
piccolo difetto che fa scaturire «la
forma emozionata che costituisce il
segreto della sua personalità
d’artista». Se i suoi soggetti
femminili incarnano i nuovi ideali
degli anni Ottanta di donna forte e
sicura di sé, le sue fotografie
raccontano, in modo meno plateale
dei colleghi americani come Bruce
Weber, anche il cambiamento
dell’immagine sociale dell’uomo, più
tenero e sensibile, ma comunque
sicuro di sé.
Nonostante il suo dichiarato
interesse per le arti visive, la
pittura, la scultura e la bella
forma, Fallai, raccontando le
trasformazioni sociali e identitarie
del suo tempo, resta coerentecon la
scelta del mezzo utilizzato.
Nell’epoca della fine delle grandi
Storie, come definita da
Jean-François Lyotard,
l’artista-pittore esplora e attinge
dal variegato territorio
contemporaneo senza assumere alcuna
posizione, ma preferendo un
ecclettico citazionismo. La
fotografia, invece, dimostra sempre
di volgere il suo sguardo e il suo
interesse verso il mondo e la
società. Aldo Fallai, pur guardando
al mondo dell’arte, si è fatto
interprete e documentatore della
realtà in cui è vissuto, al punto
tale che la stessa moda sembra
sparire dietro la trasfigurazione
consapevolmente
postmodernadell’artista.
Pertanto, le fotografie di Fallai
incarnano pienamente il cambiamento
del concetto di moda. «Una moda
intesa come protagonismo di un nuovo
soggetto, che non è più conformismo
ma ibridazione e non è più
massificazione ma creatività.
Infine, che non è più prodotto ma
individuo».
Sono immagini che «chiedono
l’attenzione non solo per la
funzione referenziale del linguaggio
– quella che farebbe riconoscere che
le immagini proposte “rappresentano”
una realtà che appartiene anche a un
mestiere – ma per la sua funzione
estetica». Pertanto, gli scatti che
reggono alla prova del tempo, quelli
che si distinguono per la maestria e
la raffinatezza estetica, raccontano
la strada e la società che li ha
animati, i sogni e le speranze e ci
insegnano che la fotografia condotta
professionalmente e senza riserve è
un dono, un’autentica rivelazione.
Riferimenti bibliografici:
R.G. Collingwood, The Principles
of Art, Oxford University Press,
Oxford 1958.
J. Dewey, Arte come esperienza,
Aesthetica, Palermo 2007.
C. Domini, C. Ghergo (a cura di),
Arturo Ghergo: l’immagine della
bellezza. Fotografie 1930-1959,
Silvana, Cinisello Balsamo 2008.
C. Domini, C. Ghergo (a cura di),
Arturo Ghergo. Fotografie 1930-1959,
Silvana, Cinisello Balsamo 2012.
M.L. Frisa, F. Bonami, A. Mattirolo
(a cura di), Lo sguardo italiano.
Fotografie italiane di moda dal 1951
a oggi, Charta, Milano,
Fondazione Pitt Immagine Discovery,
Firenze, 2005.
M.L. Frisa, Pasquale De Antonis.
La fotografia di moda 1946-1968,
Marsilio, Venezia 2008.
C. Greenberg, Avant-Garde and
Kitsch, Partisan Review, 1939.
M. Gremigni, Aldo Fallai. From
Giorgio Armani to Reinaissance –
Photos 1975-2013.
A. Mauro (a cura di), Photoshow.
Le mostre che hanno segnato la
storia della fotografia,
Contrasto, Roma 2014.
D. McDonald, A Theory of Mass
Culture, B. Rosenberg e D. Manning
White, The free press, New York
1953.
M. Tessarolo (a cura di), L’arte
contemporanea e il suo pubblico,
Franco Angeli, Milano 2009.