LA FOTOGRAFIA DI MODA
Le prime mostre dedicate alla fotografia
di moda / PARTE II
di Alessandra Olivares
La fotografia di moda, dunque, ha subìto
molti preconcetti poiché è il frutto di
una stretta collaborazione del fotografo
con i soggetti coinvolti nel sistema
commerciale: redattori, modelli,
truccatori e stylist. È giusto ricordare
che, anche se oggi le mostre di questo
genere di fotografia sono sempre più
frequenti, si tratta di un fenomeno
abbastanza recente dal momento che anche
il Moma di New York, uno dei primi musei
a istituire dipartimenti dedicati alla
fotografia e che ha sempre esposto
fotografie di moda, evidenziando il
prezioso contributo che queste offrono
alla cultura visiva contemporanea, solo
nel 2004 ha organizzato la prima mostra
dedicata esclusivamente alla fotografia
di moda.
Fashioning Fiction in Photography
since 1990, ha documentato la sfida
che la fotografia di moda affronta
quotidianamente muovendosi tra business,
arte e società. In particolare la mostra
esplorava due tendenze della fotografia
contemporanea: lo stile narrativo e
cinematografico di autori come Cedric
Buchet e Cindy Sherman e l’estetica
snapshot di artisti come Nan Goldin
e Juergen Teller, mostrando il seducente
intreccio tra moda e fotografia, oltreai
cambiamenti del concetto di fashion
shoot sempre più teso alla
rappresentazione di lifestyle e
della cultura giovanile.
Solo un anno dopo, nel 2005, in Italia
fu pubblicato il primo libro con
conseguente mostra/installazione con il
preciso scopo di riflettere sul rapporto
tra fotografia e moda e sul ruolo di
questi due linguaggi nel definire il
nostro sguardo sul mondo. Nato dalla
collaborazione tra la Fondazione Pitti
Immagine Discovery e la DARC - Direzione
generale per l’architettura e l’arte
contemporanea, Lo sguardo italiano.
Fotografie italiane di moda dal 1951 a
oggi, è il titolo di questo lavoro
prezioso per il nostro Paese che più
degli altri ha confinato la fotografia
di moda in rigide e preconcette gabbie
ideologiche a causa degliscopi
commerciali e di mercato cui essa è
legata, negandole a lungo il diritto di
essere riconosciuta come una forma
d’arte. Infatti, «in questo
allestimento i materiali del volume,
frutto di una ricerca frammentata in
luoghi e città differenti, trovavano
forma, organizzazione e soprattutto
visibilità nella struttura
dell’archivio. Le immagini, organizzate
secondo temi, dati, dimensioni e autori,
erano montate su supporti facilmente
maneggevoli e volutamente “poco aulici”
e potevano essere toccate, girate,
scoperte e richiuse in cassettiere,
rastrelliere, catalogatori e
scaffalature».
Il progetto ha avuto il merito di porre
le basi per una riflessione consapevole
sul valore artistico e culturale di una
delle espressioni più significative
della visualità contemporanea,
evidenziando allo stesso tempo i limiti
della storiografia d’argomento.
Come ha sottolineato James Sherwood, dei
circa settanta fotografi cui era
dedicato il lavoro soltanto quindici
hanno una certa notorietà e solo cinque
possono essere considerati maestri di
questo genere, Paolo Roversi, Mario
Sorrenti, Franco Rubartelli, Oliviero
Toscani e Aldo Fallai. Paradossalmente,
i lavori considerati migliori in questa
mostra erano quelli che più si
distaccavano dall’oggetto/soggetto moda
o che offrivano uno sguardo inedito su
di esso. Questo non fa che confermare
che una fotografia di moda, oltre a
essere un oggetto commerciale, «è
anche il lavoro di un autore che riesce
a trascendere l’abito e con le sue
immagini a riassumere moda, stile e
carattere del proprio tempo».
Pertanto, la rivista di moda offre a
questi artisti una vetrina del proprio
talento, ma spesso offusca le qualità
originali delle immagini. Un servizio di
moda, infatti, è un lavoro di squadra,
in cui intervengono diverse
professionalità. Gli art director
che si occupano dell’impaginazione di un
servizio fotografico, decidono in che
modo ordinare e ritagliare le immagini
affinché la connessione tra i vari
servizi sia appropriata.
Esistono, quindi, vincoli non
trascurabili rispetto al modo in cui
un’immagine di moda viene presentata su
una rivista, perché come ha dichiarato
Franca Sozzani: «il fotografo può
suggerire delle soluzioni ma la rivista
ha un suo ritmo e la decisione finale
spetta comunque a noi». Nei musei,
invece, si espongono le stampe originali
e questo fa sì che il vero talento possa
avere lo spazio che merita.
Fashion. Un secolo di straordinarie
fotografie di moda dagli archivi Condè
Nast è una mostra curata da Nathalie
Herschdorfer che, dopo un’esposizione a
Berlino negli spazi del Postfuhramt
della fondazione C/O Berlin e una a
Zurigo al museo Bellerive nel 2012,
giunse anche in Italia nel 2013,
organizzata dalla Fondazione Forma di
Milano. Tra i nomi in mostra figuravano
artisti che hanno scritto la storia di
questo genere di fotografia, tra cui Man
Ray, Edward Steichen, Diane Arbus,
Helmut Newton, Peter Lindberg e Mario
Testino. Essa esponeva 160 stampe
originali degli scatti di celebri
fotografi custoditi negli archivi
internazionali di Condè Nast. Per
l’allestimento si scelse il criterio
cronologico dividendo la mostra in
sezioni che ripercorrevano la storia
della fotografia di moda dai primi anni
del Novecento fino ai giorni nostri.
Entrando si veniva subito catturati
dalla celebre frase pronunciata da
Edward Steichen a Edna Woodman Chase,
capo redattrice di “Vogue America”: «Dobbiamo
fare di Vogue un Louvre». L’idea di
trasformare la rivista in un piccolo
museo alla portata di tutti sottolinea
l’importante contributo dato da Condè
Nast alla cultura visuale contemporanea,
evidenziando anche la consapevolezza, in
tempi prematuri, da parte di uno
straordinario artista che nel 1923 era
già famoso per i suoi dipinti e le sue
immagini, del valore culturale, sociale
ed estetico che un’immagine di moda può
rivelare.
Accusato di essersi artisticamente
svenduto, «Steichen si difese
sostenendo che le sue fotografie erano
finalmente accessibili a milioni di
lettori e non erano più soltanto carta
da parati per ricchi collezionisti, ma
dovrà passare quasi un secolo perché gli
stessi collezionisti comincino ad
acquistare fotografie di moda». Gli
echi dell’affermazione di Steichen li
ritroviamo in quella del celebre
fotografo David La Chapelle che ha
dichiarato di desiderare «che la
gente ritagli le sue immagini dal
giornale per appenderle sul frigorifero
di casa: per lui le riviste sono
gallerie e i frigoriferi musei».
Visitare la mostra Fashion
significava compiere un viaggio nella
storia della cultura contemporanea.
Oltre all’indiscutibile bellezza e
all’equilibrio compositivo delle
immagini esposte come quadri,
incorniciate e con passe-partout,
chiunque poteva comprendere che la moda
occupa un posto troppo rilevante nella
società per liquidarla frettolosamente
come qualcosa di frivolo e superficiale.
Ogni decade raccontava lo spirito del
tempo. La bellezza, il glamour e
l’eleganza degli anni Cinquanta in
contrasto con l’energia rivoluzionaria e
giovanile del decennio successivo. O
ancora il culto e l’attenzione ai corpi
bellissimi, scolpiti dal fitness e dalla
chirurgia plastica degli anni Ottanta,
che resta uno dei miti principali dei
nostri tempi. Inoltre, esposte
all’interno di teche le riviste con i
servizi relativi alle immagini in
mostra, oltre a evidenziare le
differenze con le stampe originali,
assumevano esse stesse lo statuto di
opere d’arte da ammirare, custodire e
collezionare.
Risulta così evidente quel valore
culturale, sociale ed estetico che gli è
stato spesso negato, non riconoscendo
che su quelle pagine patinate e
ammiccanti sono annotati i desideri, le
visioni e i miti di un’epoca. Proprio
alle riviste va il merito di aver dato
spazio ai grandi autori contribuendo in
modo decisivo a scrivere la storia di
questo genere di fotografia. La mostra,
dunque, attraverso le fotografie che
hanno retto alla prova del tempo
diventando eterne, ha raccontato
l’evoluzione della fashion
photography e le infinite
possibilità di rappresentazione della
realtà che la lente patinata della moda
interpreta, rappresentando anche un
documento sulla storia della società.
In questa generale presa di coscienza
della valenza estetica e sociologica
della fotografia di moda, significativo
appare il titolo di una serie di mostre
collettive curate da Magdalene Keaney e
tenutesi al Foam di Amsterdam
nell’estate 2014 e alla Fashion Space
Gallery di Londra nella primavera del
2015. Don’t stop now: Fashion Photogaphy
Next è un titolo che veicola un
significato ben preciso nelle intenzioni
della curatrice che ha affermato: «Se
qualcuno ti dice di non fermarti
significa che stai facendo qualcosa di
buono». Il titolo è chiaramente da
riferirsi alla nuova generazione di
fotografi presentati in mostra per la
loro capacità di spingere i confini
della più eccitante delle industrie
nello spazio sconfinato della creatività
e del talento anticonformista.
La mostra è stata organizzata dopo la
promozione dell’omonimo libro, nato con
lo scopo di individuare cosa rende oggi
un fotografo di moda rilevante,
ritenendo gli approcci che ricercano il
valore della fotografia di moda nelle
due strade della legittimazione
istituzionale e storica ormai superati.
Il progetto espositivo era suddiviso in
due parti. La prima si concentrava sui
temi della materialità e del gioco,
esponendo i lavori di artisti che,
andando controcorrente, utilizzano la
tecnica analogica realizzando immagini
cariche di ironia per mostrare le
possibili tensioni tra virtuale e reale.
La seconda parte, invece, si focalizzava
sui concetti di artificio e autenticità
e sulla dialettica tra queste due
posizioni non sempre chiaramente
definite o nettamente in contrasto tra
loro, dal momento che non è sempre così
evidente la distinzione tra fantasia e
realtà.
Anche questa mostra voleva, quindi,
promuovere, prima ancora delle immagini,
innanzitutto un concetto fondamentale
che la stessa curatrice sottolineava nel
libro, affermando che la fotografia di
moda registra costantemente i continui
cambiamenti del nostro mondo. Mossa da
ragioni commerciali che richiedono
continue novità all’interno delle
riviste, le immagini di moda sono anche
una risposta ai cambiamenti della
struttura sociale e alle questioni
legate all’identità e all’immaginario
collettivo. Keaney sottolinea il ruolo
fondamentale dei fotografi nel
contribuire a far crescere la
consapevolezza collettiva
dell’importanza dell’immaginario della
moda come luogo dinamico e vitale di
idee e dibattiti.
Un altro aspetto che Keaney prendeva in
considerazione è la precarietà
dell’editoria di moda. Tante riviste,
infatti, come “Nova”, “The Face”,
“Vanity Fair” o “i-D”, sono state
chiuse, anche se molte altre continuano
a uscire in edicola. Naturalmente molte
mantengono la versione on-line, senza
tuttavia voler riprodurre la versione
stampata, ma offrendo un’esperienza che
includa anche film, immagini in
movimento e collegamenti con i social
network, tra cui Twitter, YouTube,
Instagram e Facebook, come ad esempio
Dazed Digital, la versione on-line di
“Dazed&Confused”. Tutto questo ha
contribuito a diminuire il monopolio di
importanti case editoriali e dei
principali fashion magazines,
offrendo agli artisti e al pubblico
un’alternativa.
Appare evidente che, una volta sottratta
al suo contesto, una fotografia di moda
acquista un senso più ampio e complesso
di quello che ha quando la incontriamo
tra le pagine di una rivista, anche se
si tratta della più autorevole del
settore. Se le immagini di moda
all’interno di un giornale hanno lo
scopo di veicolare idee e proposte
legate all’industria della moda, le
stesse immagini esposte in un museo
innanzitutto ci ricordano che una
fotografia non è solo un’immagine
commerciale, ma anche un oggetto che ha
un suo impatto visivo, culturale,
estetico e sociologico.
Senza il contributo dei musei e di tutto
il sistema ufficiale della cultura e
dell’arte, questo linguaggio resterebbe
invisibile, o peggio ignorato perché «l’arte
che non sta dentro al museo, ancora
oggi, (soprattutto) da noi, non
raramente continua a generare dubbi e
sospetti».
Presentata con tutti gli espedienti
museografici – pannelli, illuminazione,
cornici e passe-partout – la singola
fotografia acquista in modo più
immediato quello statuto di opera d’arte
che deve possedere ancor prima di
entrare in un museo.
Anche il formato dell’opera riveste un
ruolo importante. Capita spesso di
trovarsi di fronte a opere di grande
formato e questo influenza molto
l’esperienza della visione da parte
dello spettatore poiché, «sottraendosi
al processo di miniaturizzazione del
mondo tipicamente associato alla
fotografia, (le opere) vengono
immediatamente messe a confronto con la
pittura e considerate all’interno della
storia della grande arte. In secondo
luogo […] si stabilisce una chiara
separazione tra l’esperienza
dell’originale e quella della sua
riproduzione su un libro o un catalogo
(o una rivista); allo stesso tempo,
viene del tutto respinta l’intimità che
solitamente si associa alla fruizione
della fotografia […] a favore di una
visione collettiva».
Qualunque sia la dimensione
dell’immagine, comunque, l’esposizione
in un museo obbliga a una presa di
distanza dalla stessa che permette di
osservarla nella sua interezza e ne
evidenzia lo statuto di opera d’arte. In
questo modo anziché ritagliare una
porzione di realtà come accade nello
spazio ristretto di una fotografia, essa
invade il luogo della sua fruizione con
tutti i significati estetici e
sociologici di cui è portatrice.
Ecco allora che il contributo di una
mostra è fondamentale nel mettere in
luce che una fotografia di moda è un
interessantissimo compromesso tra la sua
vocazione artistica e quella di
documento sociale.