la fotografia di moda
UN’arte ibrida tra
business e società / PARTE I
di Alessandra Olivares
Come è noto la fotografia ha dovuto
da subito fare i conti con il suo
particolare statuto di mezzo di
riproduzione della realtà.
Nonostante le storiche critiche
legate all’estremo realismo del
soggetto rappresentato e
all’apparente facilità di esecuzione
che lo strumento richiede, la
fotografia ha avuto accesso quasi
immediato al sistema istituzionale
dell’arte.
Risalgono alla metà dell’Ottocento i
primi club di fotografi, le
fondazioni e le mostre dedicate alla
fotografia che nascevano con il
preciso scopo di mostrare da una
parte i progressi della tecnologia e
dall’altra di creare eventi che
liberassero le immagini dai
pregiudizi e dalle considerazioni
spesso negative legate al mezzo
utilizzato. Il processo di
museificazione della fotografia è
stato, quindi, immediato, ma lento,
contraddittorio e controverso
proprio come le critiche che questo
strumento ha sempre suscitato.
È solo a partire dagli anni Sessanta
e Settanta del Novecento che i musei
hanno iniziato a istituire appositi
dipartimenti dedicati allo studio,
al collezionismo e all’esposizione
della fotografia, dimostrando un
interesse sempre crescente per
questo mezzo che ha assunto un ruolo
primario in tutti i campi della
cultura visiva contemporanea.
Infatti, la fotografia oggi
rappresenta uno degli strumenti
privilegiati dagli artisti e, come
scrive Mattirolo, si impone nel
panorama visuale e culturale «nella
piena consapevolezza di avere
contribuito all’affermazione delle
poetiche più attuali, non tanto come
supporto alle operazioni artistiche,
ma in quanto componente essa stessa
di una ricerca estetica».
Occuparsi di fotografia vuol dire,
innanzitutto, pensare a differenti
generi – paesaggistica,
ritrattistica, celebrativa,
reportage, pubblicitaria e di moda –
consapevoli che i confini tra queste
diverse categorie sono sempre più
sfumati. Infatti, un fotografo può
lavorare per la moda e, quindi,su
commissione per una rivista, con le
modalità tipiche di altri generi, e
allo stesso tempo portare avanti
ricerche personali o progetti
pensati per mostre o libri.
Inoltre, è possibile fare un
progetto per un libro o lavorare in
internet senza avere necessariamente
un editore o un museo che esponga le
proprie opere, rendendo fruibile il
proprio lavoro a un grande pubblico,
senza che si abbia un luogo fisico
dove esporre. Tutto questo rende
complesso il discorso sulla
fotografia, ancor più se di moda, e
sul significato della sua
esposizione in un museo.
Innanzitutto il doppio marchio di
commercialismo e materialismo rende
la fotografia di moda uno dei pochi
generi per cui gli stessi valori
sono stati messi in discussione. E
questo nonostante il postmodernismo,
con la totale estetizzazione della
cultura, ricomponga la frattura
moderna tra cultura elevata e
cultura di massa, conferendo dignità
d’arte a prodotti a metà strada tra
l’industriale e l’artistico.
Infatti, produzioni pensate per il
design, il cinema, la moda o la
pubblicità sono impensabili senza
una connotazione estetica, come
veicolo della loro stessa
comunicabilità e
commercializzazione.
Ciò che rende complesso il discorso
sulla fotografia di moda, in quanto
prodotto con una sua valenza
artistica, è l’inversione del
percorso tradizionale che vedeva nei
musei i luoghi deputati alla
conoscenza e alla fruizione, da
parte del grande pubblico, di opere
poco note e realizzate per
committenze elitarie. Una fotografia
di moda, invece, nasce già per
essere diffusa su larga scala e
“contemplata” da un pubblico più
vasto possibile e su un supporto di
per sé considerato effimero, la
rivista. Dunque, il suo ingresso nei
musei, ingrandita e incorniciata,
solleva questioni critiche e
filosofiche relative alla dialettica
tra l’arte e i linguaggi tecnologici
e commerciali della contemporaneità.
La fotografia di moda è un’arte di
massa, progettata per essere
“consumata” da moltissime persone,
perché prodotta su larga scala con
le tecnologie di massa. Il dibattito
sull’arte di massa, che ha animato
tutto il secolo scorso, è tutt’ora
aperto e controverso. Innanzitutto,
è opportuno ricordare che l’arte di
massa, a differenza di quella
popolare che è sempre esistita, fa
parte della cultura dopo l’avvento
dei mass media e, quindi, si tratta
di un fenomeno mai verificatosi
prima dell’emergere della società di
massa.
Molti teorici e filosofi si sono
dimostrati refrattari alla
diffusione di questo tipo di arte.
Lo statunitense Dwight McDonald, ad
esempio, nel suo scritto del 1953,
definisce la cultura di massa
totalmente impersonale. Il grande
critico americano Clement Greenberg,
nel 1939, utilizza il termine
“kitsch” per riferirsi all’arte
della nuova società di massa,
intendendo con questo termine
immagini facilmente fruibili, che
non richiedono alcuno sforzo, né
stimolano alla riflessione lo
spettatore, nella convinzione che
l’arte autentica debba essere
difficile e fine a se stessa. Negli
stessi anni anche il filosofo
britannico Robin George Collingwood
definisce l’arte di massa
“pseudo-arte”, e cioè qualcosa che
rientra nella categoria della magia
e dello svago, confezionata per
suscitare emozioni prestabilite.
Gli echi di questo approccio così
negativo nei confronti dell’arte di
massa hanno viziato per lungo tempo
l’atteggiamento critico e
storiografico anche nei confronti
della fotografia di moda. Anche se a
noi sembra scontato far rientrare
questo genere di fotografia
all’interno delle produzioni
artistiche contemporanee, fino a
pochi anni fa essa era relegata
esclusivamente al rango di
fotografia pubblicitaria con
finalità di carattere commerciale.
Certamente non si può ignorare che
una fotografia di moda nasce per una
committenza precisa e non si può non
tenere conto della stretta relazione
che essa ha con la pagina stampata,
arrivando spesso ad essere
assimilata a quest’ultima. E per
certi versi una fotografia di moda è
la pagina stampata ma, come ha
sottolineato Todd Brandow, non
sempre le immagini che vediamo sulle
riviste corrispondono alle stampe
originali, poiché queste spesso
vengono ritagliate, ritoccate,
coperte dai testi e adattate alla
grafica della rivista. Una mostra
che mette a confronto le immagini
originali con i servizi delle
riviste, contribuisce a «dimostrare
che la fotografia di moda può essere
considerata un’arte ibrida».
Non ci sono dubbi che la moda come
la intendiamo oggi non esisterebbe
senza la fotografia, ma allo stesso
tempo anche la fotografia di moda
senza le riviste, probabilmente, non
sarebbe mai esistita. Quindi la
fotografia di moda è innanzitutto
un’industria, termine che richiama
alla mente la nota espressione di
“industria culturale” di Theodor
Adorno e Max Horkheimer.
Secondo i due autori, l’industria
culturale ha una valenza negativa
perché non ha nulla di spontaneo e
produce prodotti standardizzati per
soddisfare bisogni uguali. La merce
e il feticcio diventano i nuovi
valori che indeboliscono la cultura
e lo spirito critico. Gli autori
sostengono che questa forma di “arte
leggera” totalmente contrapposta
all’”arte seria”, essendo fruibile
anche in uno stato di distrazione,
paralizza le facoltà mentali dello
spettatore inculcando falsi miti.
Molti studiosi, quindi, non sono
riusciti a cogliere il potenziale
positivo di educazione alla visione
estetica che la cultura di massa
rende possibile, ignorando il
processo compenetrazione dell’arte
nella società e di totale
estetizzazione della cultura e del
quotidiano iniziato con le
avanguardie artistiche che, sebbene
ancora rivolte a un pubblico
ristretto, hanno modificato
completamente la percezione estetica
dell’uomo postmoderno.
Questo profondo cambiamento dello
statuto dell’arte in epoca
contemporanea è stato precocemente
intuito da John Dewey che nel suo
capolavoro Art as Experience,
scritto nel 1934, sottolinea lo
stretto legame esistente tra l’uomo
e l’ambiente che lo circonda,
affermando che «le idee che
pongono l’arte su un piedistallo
distante sono tanto diffuse e così
sottilmente pervasive che più di una
persona proverebbe ripulsa anziché
piacere se le si dicesse che il
motivo per cui ha goduto dei suoi
divertimenti occasionali è, almeno
in parte, la loro qualità estetica».
Oltre a motivazioni teoriche,
critiche e filosofiche che pongono
l’arte in un regno separato
dall’esperienza quotidiana,
promuovendo una concezione
esclusivamente contemplativa
dell’estetico, Dewey rintraccia
anche ragioni storiche che hanno
portato alla nascita della
concezione isolazionista dell’arte.
Il filosofo ritiene che proprio i
musei e le gallerie d’arte siano i
luoghi che «rendono evidenti
alcune delle cause che hanno fatto
sì che l’arte venisse segregata e
non, invece, considerata un’ancella
del tempio, del tribunale o delle
altre forme della vita associata».
John Dewey, infatti, ricorda che le
istituzioni moderne dei musei e
delle gallerie per esposizione
nascono per celebrare il
nazionalismo e l’imperialismo.
L’esigenza per ogni capitale di
avere un museo specifico è legata al
bisogno di «esibire la grandezza
del suo passato artistico e,
dall’altro, […] il bottino acquisito
dai suoi monarchi durante la
conquista di altre nazioni». Il
capitalismo, quindi, avrebbe
contribuito all’idea del museo come
luogo proprio dell’opera d’arte
separata dalla società e appannaggio
di pochi privilegiati collezionisti
che accumulano opere costose, e
quindi rare, per affermare il
proprio status sociale.
L’industria e il commercio moderni,
quindi, hanno cambiato il concetto
di opera d’arte, trasformandola,
come afferma Heidegger, «in
oggetto dell’esperienza vissuta, con
la conseguenza dell’interpretazione
dell’arte come forma di espressione
della vita vissuta dell’uomo».
Ma perché, si chiede Dewey, «si è
restii a mettere in connessione le
alte realizzazioni dell’arte bella
con la vita comune […]? Perché si
pensa alla vita come una faccenda di
bassi istinti, o al più come a
qualcosa che si risolve in
sensazioni volgari […]?».
Secondo il filosofo, per rispondere
a tali quesiti bisognerebbe scrivere
una storia della morale, ma seguendo
il suo approccio pragmatistico ci
rendiamo conto che la realtà
dimostra che tutta la prospettiva
negativa e frustrante nei confronti
dell’arte di massa, che ne ha
viziato per lungo tempo la storia e
la critica, è un enorme equivoco
concettuale che non tiene conto del
fatto che anche gli oggetti più
antichi, oggi esposti come belle
arti, erano usati quotidianamente e
che la cultura visiva contemporanea
non può essere spiegata prescindendo
dalla società di massa.
Inoltre, come evidenzia Tessarolo,
anche i luoghi musealihanno subìto
una profonda trasformazione
diventando mediatori della cultura
poiché, «i mezzi tecnologici, a
partire dalla fotografia, portano a
fruire le opere d’arte in
“absentia”. Tali mezzi hanno
realizzato uno dei dettami della
modernità: godere dell’arte anche
nella sua riproduzione. Tuttavia
vedere dal vero conserva la magia e
l’incanto che proviene dalla
partecipazione all’occasione sociale
che vede il fruitore protagonista e
lo pone in contatto con l’artista
attraverso l’opera». Se è vero
che la distanza è una conquista
della modernità, essa è anche un
limite dal momento che «l’eccesso
di esposizione e familiarizzazione
degli oggetti d’arte portano alla
loro ‘scomparsa’ dal campo visivo
cosciente».
Le istituzioni museali svolgono oggi
un compito molto più complesso e
delicato rispetto al passato, poiché
nello sconfinato panorama visuale
contemporaneo riconoscere un’opera
d’arte non è facile, ma un buon
indice di tale riconoscimento
proviene dallo stupore, dal
“soffermarsi” che l’opera instaura
con il suo fruitore: «la
disattenzione tipica della vita
quotidiana si interrompe,
l’apprezzamento del valore economico
cessa di essere presente, l’opera è
riconosciuta dall’occhio e prende
rilievo dallo sfondo
indifferenziato. I nostri occhi
mettono la cornice ad alcune opere e
la cornice le stacca dal cumulo
degli oggetti indifferenziati».