[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

181 / GENNAIO 2023 (CCXII)


arte

la fotografia di moda

UN’arte ibrida tra business e società / PARTE I

di Alessandra Olivares

 

Come è noto la fotografia ha dovuto da subito fare i conti con il suo particolare statuto di mezzo di riproduzione della realtà. Nonostante le storiche critiche legate all’estremo realismo del soggetto rappresentato e all’apparente facilità di esecuzione che lo strumento richiede, la fotografia ha avuto accesso quasi immediato al sistema istituzionale dell’arte.

 

Risalgono alla metà dell’Ottocento i primi club di fotografi, le fondazioni e le mostre dedicate alla fotografia che nascevano con il preciso scopo di mostrare da una parte i progressi della tecnologia e dall’altra di creare eventi che liberassero le immagini dai pregiudizi e dalle considerazioni spesso negative legate al mezzo utilizzato. Il processo di museificazione della fotografia è stato, quindi, immediato, ma lento, contraddittorio e controverso proprio come le critiche che questo strumento ha sempre suscitato.

 

È solo a partire dagli anni Sessanta e Settanta del Novecento che i musei hanno iniziato a istituire appositi dipartimenti dedicati allo studio, al collezionismo e all’esposizione della fotografia, dimostrando un interesse sempre crescente per questo mezzo che ha assunto un ruolo primario in tutti i campi della cultura visiva contemporanea. Infatti, la fotografia oggi rappresenta uno degli strumenti privilegiati dagli artisti e, come scrive Mattirolo, si impone nel panorama visuale e culturale «nella piena consapevolezza di avere contribuito all’affermazione delle poetiche più attuali, non tanto come supporto alle operazioni artistiche, ma in quanto componente essa stessa di una ricerca estetica».

 

Occuparsi di fotografia vuol dire, innanzitutto, pensare a differenti generi – paesaggistica, ritrattistica, celebrativa, reportage, pubblicitaria e di moda – consapevoli che i confini tra queste diverse categorie sono sempre più sfumati. Infatti, un fotografo può lavorare per la moda e, quindi,su commissione per una rivista, con le modalità tipiche di altri generi, e allo stesso tempo portare avanti ricerche personali o progetti pensati per mostre o libri.

 

Inoltre, è possibile fare un progetto per un libro o lavorare in internet senza avere necessariamente un editore o un museo che esponga le proprie opere, rendendo fruibile il proprio lavoro a un grande pubblico, senza che si abbia un luogo fisico dove esporre. Tutto questo rende complesso il discorso sulla fotografia, ancor più se di moda, e sul significato della sua esposizione in un museo.

 

Innanzitutto il doppio marchio di commercialismo e materialismo rende la fotografia di moda uno dei pochi generi per cui gli stessi valori sono stati messi in discussione. E questo nonostante il postmodernismo, con la totale estetizzazione della cultura, ricomponga la frattura moderna tra cultura elevata e cultura di massa, conferendo dignità d’arte a prodotti a metà strada tra l’industriale e l’artistico. Infatti, produzioni pensate per il design, il cinema, la moda o la pubblicità sono impensabili senza una connotazione estetica, come veicolo della loro stessa comunicabilità e commercializzazione.

 

Ciò che rende complesso il discorso sulla fotografia di moda, in quanto prodotto con una sua valenza artistica, è l’inversione del percorso tradizionale che vedeva nei musei i luoghi deputati alla conoscenza e alla fruizione, da parte del grande pubblico, di opere poco note e realizzate per committenze elitarie. Una fotografia di moda, invece, nasce già per essere diffusa su larga scala e “contemplata” da un pubblico più vasto possibile e su un supporto di per sé considerato effimero, la rivista. Dunque, il suo ingresso nei musei, ingrandita e incorniciata, solleva questioni critiche e filosofiche relative alla dialettica tra l’arte e i linguaggi tecnologici e commerciali della contemporaneità.

 

La fotografia di moda è un’arte di massa, progettata per essere “consumata” da moltissime persone, perché prodotta su larga scala con le tecnologie di massa. Il dibattito sull’arte di massa, che ha animato tutto il secolo scorso, è tutt’ora aperto e controverso. Innanzitutto, è opportuno ricordare che l’arte di massa, a differenza di quella popolare che è sempre esistita, fa parte della cultura dopo l’avvento dei mass media e, quindi, si tratta di un fenomeno mai verificatosi prima dell’emergere della società di massa.

 

Molti teorici e filosofi si sono dimostrati refrattari alla diffusione di questo tipo di arte. Lo statunitense Dwight McDonald, ad esempio, nel suo scritto del 1953, definisce la cultura di massa totalmente impersonale. Il grande critico americano Clement Greenberg, nel 1939, utilizza il termine “kitsch” per riferirsi all’arte della nuova società di massa, intendendo con questo termine immagini facilmente fruibili, che non richiedono alcuno sforzo, né stimolano alla riflessione lo spettatore, nella convinzione che l’arte autentica debba essere difficile e fine a se stessa. Negli stessi anni anche il filosofo britannico Robin George Collingwood definisce l’arte di massa “pseudo-arte”, e cioè qualcosa che rientra nella categoria della magia e dello svago, confezionata per suscitare emozioni prestabilite.

 

Gli echi di questo approccio così negativo nei confronti dell’arte di massa hanno viziato per lungo tempo l’atteggiamento critico e storiografico anche nei confronti della fotografia di moda. Anche se a noi sembra scontato far rientrare questo genere di fotografia all’interno delle produzioni artistiche contemporanee, fino a pochi anni fa essa era relegata esclusivamente al rango di fotografia pubblicitaria con finalità di carattere commerciale.

 

Certamente non si può ignorare che una fotografia di moda nasce per una committenza precisa e non si può non tenere conto della stretta relazione che essa ha con la pagina stampata, arrivando spesso ad essere assimilata a quest’ultima. E per certi versi una fotografia di moda è la pagina stampata ma, come ha sottolineato Todd Brandow, non sempre le immagini che vediamo sulle riviste corrispondono alle stampe originali, poiché queste spesso vengono ritagliate, ritoccate, coperte dai testi e adattate alla grafica della rivista. Una mostra che mette a confronto le immagini originali con i servizi delle riviste, contribuisce a «dimostrare che la fotografia di moda può essere considerata un’arte ibrida».

 

Non ci sono dubbi che la moda come la intendiamo oggi non esisterebbe senza la fotografia, ma allo stesso tempo anche la fotografia di moda senza le riviste, probabilmente, non sarebbe mai esistita. Quindi la fotografia di moda è innanzitutto un’industria, termine che richiama alla mente la nota espressione di “industria culturale” di Theodor Adorno e Max Horkheimer.

 

Secondo i due autori, l’industria culturale ha una valenza negativa perché non ha nulla di spontaneo e produce prodotti standardizzati per soddisfare bisogni uguali. La merce e il feticcio diventano i nuovi valori che indeboliscono la cultura e lo spirito critico. Gli autori sostengono che questa forma di “arte leggera” totalmente contrapposta all’”arte seria”, essendo fruibile anche in uno stato di distrazione, paralizza le facoltà mentali dello spettatore inculcando falsi miti.

 

Molti studiosi, quindi, non sono riusciti a cogliere il potenziale positivo di educazione alla visione estetica che la cultura di massa rende possibile, ignorando il processo compenetrazione dell’arte nella società e di totale estetizzazione della cultura e del quotidiano iniziato con le avanguardie artistiche che, sebbene ancora rivolte a un pubblico ristretto, hanno modificato completamente la percezione estetica dell’uomo postmoderno.

 

Questo profondo cambiamento dello statuto dell’arte in epoca contemporanea è stato precocemente intuito da John Dewey che nel suo capolavoro Art as Experience, scritto nel 1934, sottolinea lo stretto legame esistente tra l’uomo e l’ambiente che lo circonda, affermando che «le idee che pongono l’arte su un piedistallo distante sono tanto diffuse e così sottilmente pervasive che più di una persona proverebbe ripulsa anziché piacere se le si dicesse che il motivo per cui ha goduto dei suoi divertimenti occasionali è, almeno in parte, la loro qualità estetica».

 

Oltre a motivazioni teoriche, critiche e filosofiche che pongono l’arte in un regno separato dall’esperienza quotidiana, promuovendo una concezione esclusivamente contemplativa dell’estetico, Dewey rintraccia anche ragioni storiche che hanno portato alla nascita della concezione isolazionista dell’arte. Il filosofo ritiene che proprio i musei e le gallerie d’arte siano i luoghi che «rendono evidenti alcune delle cause che hanno fatto sì che l’arte venisse segregata e non, invece, considerata un’ancella del tempio, del tribunale o delle altre forme della vita associata».

 

John Dewey, infatti, ricorda che le istituzioni moderne dei musei e delle gallerie per esposizione nascono per celebrare il nazionalismo e l’imperialismo. L’esigenza per ogni capitale di avere un museo specifico è legata al bisogno di «esibire la grandezza del suo passato artistico e, dall’altro, […] il bottino acquisito dai suoi monarchi durante la conquista di altre nazioni». Il capitalismo, quindi, avrebbe contribuito all’idea del museo come luogo proprio dell’opera d’arte separata dalla società e appannaggio di pochi privilegiati collezionisti che accumulano opere costose, e quindi rare, per affermare il proprio status sociale.

 

L’industria e il commercio moderni, quindi, hanno cambiato il concetto di opera d’arte, trasformandola, come afferma Heidegger, «in oggetto dell’esperienza vissuta, con la conseguenza dell’interpretazione dell’arte come forma di espressione della vita vissuta dell’uomo». Ma perché, si chiede Dewey, «si è restii a mettere in connessione le alte realizzazioni dell’arte bella con la vita comune […]? Perché si pensa alla vita come una faccenda di bassi istinti, o al più come a qualcosa che si risolve in sensazioni volgari […]?».

 

Secondo il filosofo, per rispondere a tali quesiti bisognerebbe scrivere una storia della morale, ma seguendo il suo approccio pragmatistico ci rendiamo conto che la realtà dimostra che tutta la prospettiva negativa e frustrante nei confronti dell’arte di massa, che ne ha viziato per lungo tempo la storia e la critica, è un enorme equivoco concettuale che non tiene conto del fatto che anche gli oggetti più antichi, oggi esposti come belle arti, erano usati quotidianamente e che la cultura visiva contemporanea non può essere spiegata prescindendo dalla società di massa.

 

Inoltre, come evidenzia Tessarolo, anche i luoghi musealihanno subìto una profonda trasformazione diventando mediatori della cultura poiché, «i mezzi tecnologici, a partire dalla fotografia, portano a fruire le opere d’arte in “absentia”. Tali mezzi hanno realizzato uno dei dettami della modernità: godere dell’arte anche nella sua riproduzione. Tuttavia vedere dal vero conserva la magia e l’incanto che proviene dalla partecipazione all’occasione sociale che vede il fruitore protagonista e lo pone in contatto con l’artista attraverso l’opera». Se è vero che la distanza è una conquista della modernità, essa è anche un limite dal momento che «l’eccesso di esposizione e familiarizzazione degli oggetti d’arte portano alla loro ‘scomparsa’ dal campo visivo cosciente».

 

Le istituzioni museali svolgono oggi un compito molto più complesso e delicato rispetto al passato, poiché nello sconfinato panorama visuale contemporaneo riconoscere un’opera d’arte non è facile, ma un buon indice di tale riconoscimento proviene dallo stupore, dal “soffermarsi” che l’opera instaura con il suo fruitore: «la disattenzione tipica della vita quotidiana si interrompe, l’apprezzamento del valore economico cessa di essere presente, l’opera è riconosciuta dall’occhio e prende rilievo dallo sfondo indifferenziato. I nostri occhi mettono la cornice ad alcune opere e la cornice le stacca dal cumulo degli oggetti indifferenziati». 

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]