N. 115 - Luglio 2017
(CXLVI)
mulini ad acqua e forni di paglia
economia di sussistenza nell'appennino dauno
di Lucia Lioi & Angela R. Piergiovanni
Il
Subappennino
Dauno
era
in
passato
un’area
in
cui
prevaleva
un
modello
di
agricoltura
di
sussistenza.
I
prodotti
locali
erano
diversificati
per
soddisfare
i
bisogni
delle
piccole
comunità
presenti
sul
territorio.
La
necessità
di
soddisfare
un
bisogno
importante
come
la
panificazione
in
tempi
in
cui
gli
scambi
di
merci
erano
ridotti
all’essenziale,
ha
portato
nel
Subappennino
Dauno
alla
creazione
di
una
rete
localizzata
in
un
ristretto
ambito
territoriale
che
copriva
tutti
gli
aspetti,
a
partire
dalla
coltivazione
del
grano
fino
alla
cottura
del
pane
nei
forni
pubblici.
Mentre
nel
resto
della
Puglia,
per
la
scarsità
d'acqua,
erano
presenti
impianti
molitori
nei
quali
la
forza
motrice
era
animale
o
anche
umana,
caratteristica
di
quest’area
geografica
erano
gli
impianti
molitori
a
trazione
idraulica,
i
mulini
ad
acqua,
che
un
tempo
popolavano
il
territorio
e
che
oggi
sono
ridotti
a
pochi
esemplari
(Maddaluno
e
Monte,
2012).
Le
macine
del
mulino
venivano
azionate
attraverso
un
albero
maestro
dalle
cosiddette
"ritrecine",
ovvero
delle
ruote
a
loro
volta
mosse
dalla
forza
motrice
generata
dall'acqua.
I
mulini
di
questi
luoghi
avevano
la
particolarità
di
utilizzare
una
ruota
motrice
orizzontale
e
non
verticale
come
succede
più
comunemente.
Sulle
rive
di
un
torrente
che
più
a
valle
confluisce
nel
Fiume
Fortore,
presso
Roseto Valfortore
(FG)
è
tuttora
ubicato
il
complesso
del
Mulino
Vecchio
a
monte
e
del
Mulino
a
Valle,
collegati
da
un
grande
canale
di
adduzione
dell’acqua.
Restaurati
di
recente,
sono
preservati
come
retaggio
dell’antico
passato
agricolo
del
borgo.
Presso
il
ponte
di
Bovino
sul
fiume
Cervaro
è
visitabile
un
complesso
di
mulini
ad
acqua
e
macine,
i
cui
primi
esemplari
risalgono
al
1600,
mentre
presso
Faeto
sulle
rive
del
torrente
Celone,
il
Mulino
del
Piscero
è
uno
dei
pochi
ancora
visibili
dei
tanti
luoghi
di
macinatura
(venti
in
tutto
sul
corso
del
Celone),
segni
di
un
passato
industrioso,
attivo,
ricco
(Pirozzoli
e
Pirozzoli
2004).
Fino
alla
prima
metà
del
'900 il
pane
era
un
alimento
fondamentale
nella
dieta
quotidiana,
soprattutto
per
le
classi
meno
abbienti,
e il
consumo
giornaliero
di
un
adulto
era
mediamente
di 1
kg.
La
preparazione
avveniva
in
casa,
in
genere
a
cadenza
settimanale,
mentre
per
la
cottura
si
utilizzavano
forni
pubblici
attivi
tutti
i
giorni.
Data
l’abbondante
disponibilità
di
paglia
derivante
dalla
coltivazione
di
grano
e
altri
cereali,
la
frazione
meno
pregiata,
non
adatta
all’alimentazione
del
bestiame,
da
prodotto
di
scarto
divenne
una
risorsa
preziosa
come
combustibile
a
basso
costo.
Questo
portò
alla
diffusione
di
forni
a
paglia
in
alternativa
a
quelli
a
legna
che
veniva
così
risparmiata
per
la
cottura
dei
cibi
e il
riscaldamento
delle
abitazioni.
I
forni
a
paglia
erano
molto
diffusi
nella
fascia
appenninica
a
cavallo
tra
Puglia
(subappennino
Dauno),
Campania
(Irpinia)
e
basso
Molise,
ma
la
loro
costruzione
era
incentivata
anche
nel
Tavoliere
dove
la
coltivazione
dei
cereali
era
molto
estesa
(PTCP,
2009).
Gran
parte
di
questi
forni
è
scomparsa
ma i
pochissimi
ancora
attivi
raccontano
una
storia
secolare.
Il
più
antico,
tuttora
funzionante
grazie
all’accorta
gestione
del
proprietario
e
fornaio
Angelo
Di
Biccari,
è il
forno
a
paglia
di
Orsara
di
Puglia
(FG)
risalente
al
1526.
.
Forno
a
paglia
a Orsara
di
Puglia
(FG)
Nel
2011,
dopo
un
lavoro
di
restauro,
è
stato
ripristinato,
l’unico
forno
a
paglia
ancora
esistente
a
Roseto
Valfortore.
Nel
2016,
a
Candela
(FG),
durante
i
lavori
di
ristrutturazione
di
una
abitazione
del
centro
storico,
è
stato
rinvenuto
un
forno
a
paglia
del
'500 perfettamente
conservato.
A
differenza
dei
forni
a
legna,
i
forni
a
paglia
erano
costituiti
da
due
livelli,
quello
in
alto
per
la
cottura
e
quello
in
basso
utilizzato
per
la
combustione
della
paglia.
I
due
livelli
erano
in
comunicazione
tra
loro
attraverso
un
foro
centrale
sul
piano
di
cottura
detto
“inferno”
che
consentiva
al
calore
e
alle
fiamme
sviluppatesi
durante
la
combustione
della
paglia,
di
risalire
nella
parte
superiore
espandendosi
sotto
la
volta
a
cupola.
Il
diametro
del
forno,
in
genere
di
2,5
metri,
consentiva
di
infornare
dalle
20
alle
30
pagnotte
di
grossa
pezzatura.
La
fiamma
della
paglia
è
violenta
e
caldissima
ma
di
breve
durata
perciò
il
forno
richiedeva
una
continua
alimentazione
per
raggiungere
la
temperatura
richiesta
per
la
cottura
del
pane.
Raggiunta
la
temperatura
ottimale,
la
base
era
pulita
con
uno
straccio
bagnato
legato
ad
un’asta
e a
fuoco
spento
si
infornava
il
pane.
La
cottura
durava
circa
due
ore,
durante
questo
tempo,
l'imboccatura
del
forno
era
chiusa
con
una
pietra
fissata
da
una
sbarra
di
legno
trasversale
messa
all'esterno
o
con
uno
sportello
di
robuste
travi
di
legno,
sostituti
in
tempi
più
recenti
da
una
piastra
di
ferro
mobile
che
si
afferrava
per
un
manico.
Il
vapore,
sprigionato
durante
la
cottura
del
pane
rimanendo
intrappolato
nel
forno,
contribuiva
alla
cottura,
mentre
l’uso
della
paglia
produceva
un
pane
con
una
spessa
crosta
ma
con
all’interno
una
mollica
morbida.
Una
volta
sfornate,
le
pagnotte
erano
messe
in
verticale
per
evitare
che
l’umidità
rilasciata
durante
il
raffreddamento
ammorbidisse
la
crosta.
Il
pane
croccante
appena
sfornato
si
ammorbidiva
col
passare
dei
giorni
mantenendo
buone
qualità
organolettiche
per
più
di
una
settimana.
Riferimenti
bibliografici:
Maddaluno
R.,
Monte
A.,
Las
fabricas
de
molienda
y de
pasta
de
Puglia:
historia
de
un
ejemplo
local,
II
Jornadas
Andaluzas
de
Patrimonio
Industrial,
y de
la
Obra
Publica,
Cadiz
25-27
octubre
2012.
Pirozzoli
A.,
Pirozzoli
N.,
I
mulini
ad
acqua
dell'alta
valle
del
Celone.
Quando
l'acqua
dava
pane,
Artigrafiche,
Foggia
2004.
Salzano
E.,
Baioni
M.
(a
cura
di),
I
beni
culturali
della
provincia
di
Foggia,
2009.