N. 11 - Novembre 2008
(XLII)
lE FORESTE africane
TRA SFRUTTAMENTO E CONSERVAZIONE
il particolare
caso della COSTA
D’AVORIO
di Matteo Mariani
Questa piccola ricerca è
uno dei frutti di un seminario organizzato durante un
corso universitario, riguardante l’evoluzione dei
concetti e dei modi di gestione delle risorse naturali
nell’Africa Sub-Sahariana, attraverso le varie “fasi
storiche” che ha attraversato (e, in un certo senso,
potremmo dire “subìto”).
Mi sono interessato al caso dell’Africa Occidentale
Francese, ed in particolare della Costa d’Avorio, per
alcuni motivi e interessi particolari. Tra questi,
questione più che mai attuale tra i “temi ambientali”
caldi, c’è lo stato tragico delle foreste africane,
pesantemente sfruttate dal passato al presente in vari
modi e sotto varie legittimazioni. Questione ben nota,
ma che, approfondita, rivela dettagli (per me almeno)
imprevisti: come il ruolo di secondo importatore
mondiale di legname tropicale africano (e buona parte
proprio dalla Costa d'Avorio) svolto dall'Italia;
posizione questa raggiunta negli ultimi decenni, grazie
alla grande espansione dell’industria nazionale del
mobile, che ancora oggi segue un trend crescente (è la
terza del mondo).
Queste ed altre sono le motivazioni che mi hanno spinto
a trattare una tematica come questa. Vorrei segnalare,
tra queste, la lettura fatta in passato del bel saggio
di Lina Maria Calandra, raccolto in un volume che
consiglio vivamente (vedi la bibliografia).
In ultimo, mi concedo una piccola parentesi personale...
Questo è il mio primo “pezzo”, articolo, ricerca,
piccolo saggio... qualsiasi definizione se ne voglia
dare, questo è il primo che scrivo. Mi auguro possa
essere considerato accettabile, e magari interessante,
dagli eventuali lettori, che ringrazio anticipatamente
per l’attenzione.
Premessa
L’esperienza coloniale in Africa Occidentale Francese (AOF)
si può delimitare con le date 1895-1958. In questo
periodo, nelle varie regioni della federazione, la
protezione ambientale si definisce soprattutto
attraverso strutture territoriali create per organizzare
e gestire lo sfruttamento forestale.
L’attore principale di questo sfruttamento è il Servizio
delle Acque e Foreste dell’AOF, che agisce mediante la
mise en reserve di porzioni di territorio forestale:
inizialmente e per lungo tempo il senso di tale
operazione fu quello essenzialmente economico; poi, col
tempo, fu sempre più orientato in senso ambientale
(parchi, riserve, itinerari turistici…).
Questa istituzione coloniale in particolare, tra le
varie ramificazioni del controllo straniero, diventerà
sempre più impopolare tra gli indigeni africani,
generando numerose tensioni e conflitti di natura
ambientale e sociale.
1920-1945
Si può individuare questa prima fase nella politica
ambientale nell’AOF, ed in particolare a quella
forestale.
Gli obiettivi furono sostanzialmente: 1) la costruzione
di un demanio forestale permanente attraverso
l’istituzione di forets classèes; 2) la gestione del
demanio nel senso della protezione, miglioramento ed
estensione delle foreste; 3) lo sfruttamento razionale
della risorsa forestale. Le modalità per raggiungerli
sono: 1) classement, cioè classificazione delle specie
botaniche presenti dopo indagini scientifiche apposite
(chiara la funzionalità in vista della loro
utilizzazione pratica); 2) tecniche di reboisement e
arricchimento; 3) organizzazione della produzione
secondo logiche di massimo rendimento, regolarità del
rifornimento, rinnovabilità della risorsa.
Ma cosa c’è alla base di questo atteggiamento, di questo
agire, di questa organizzazione (alla fine, comunque)
economico-produttiva? E che è poi la causa di tensioni
sociali (e conflitti ambientali) in quest’Africa
francese, come anche altrove negli sterminati spazi del
continente nero penetrati, conquistati e sconvolti dal
colonizzatore europeo.
La fondamentale dimensione di disparità di
considerazione e trattamento tra colonizzatori e
colonizzati, tra chi controlla il potere e chi no,
certo. Ma anche, più intimamente, una caratteristica
tipica del pensiero “occidentale” che si vede superiore
a culture viste come primitive e superate; ma
fondamentalmente sconosciute e soprattutto diverse. E’
che l’Occidente si è fatto portatore di quel sistema di
interpretazione e rappresentazione della realtà che è la
Scienza, alla quale nessuno (fino alla prova contraria,
frutto comunque del sistema) può dire di no senza finire
in vari territori difficili da attraversare. E la
scienza, messa al servizio del progetto coloniale, ha
contribuito a giustificare e legittimare l’intervento
statale sulla natura africana secondo finalità
produttive e conservative.
Quindi, ”mettere in riserva” significa preparare uno
sfruttamento continuo e razionale della risorsa
boschiva. Ma prima del controllo materiale è necessario
un minimo governo intellettuale: quindi studio
scientifico e denominazione, classificazione. Ed è
indispensabile stabilire regole comuni per l’azione,
attraverso la legislazione. Ma questa si stabilisce in
base alla denominazione stessa, cioè alla conoscenza del
territorio prodotta dagli attori coloniali. Si crea
quell’immagine di Africa come “terra vuota e senza
padrone”, soggetta ad un’azione irrazionale degli
indigeni e perciò anche dannosa. E, anche se sospinti da
una visione paternalistica, ci si sente motivati e
giustificati nell’intervenire. E’ qui la presunzione
della scienza occidentale, continuamente riaffermata
nella sua incapacità di comprendere l’Altro africano.
Per questa via, si nega l’esistenza di saperi e
strutture territoriali fondamentali per la vita sociale
di interi gruppi. Tra queste, la più importante è
l’insediamento, composto da villaggio, campi e un certo
spazio naturale (la brousse, in gergo franco-africano).
Il ruolo di quest’ultimo è l’essere luogo
dell’approvvigionamento di risorse materiali - caccia,
pesca, raccolta, taglio di legna - certo, ma anche fonte
di significati simbolici essenziali per la comunità. E
non è finita: il villaggio riconosce anche l’esistenza e
l’utilità di una brousse più lontana, “dalla
giurisdizione incerta”, serbatoio futuro di risorse
materiali e simboliche.
L’attore coloniale, sottraendo al villaggio attraverso
il classement la totalità o parte di quello spazio
naturale, non solo li priva di risorse per la
riproduzione fisica, ma anche e soprattutto per la
continuazione del gioco sociale secondo le proprie
regole, che identificano il gruppo.
Negazione dell’Altro, africano in questo caso: un
“crimine culturale” elementare e dalla portata colossale
e tragica.
Questa rappresentazione e concezione del territorio
africano ebbe chiara e rapida traduzione in “regole” per
l’azione attraverso la legislazione. In AOF venne estesa
la legislazione francese, valida sul territorio di
Francia, con la sola integrazione di norme giuridiche
dal contenuto più legato al diverso contesto: in materia
di legislazione forestale ci si rifece quindi per la
maggior parte al Codice Civile francese.
A questo punto due aspetti diventano fondamentali e
problematici: il diritto di proprietà che lo Stato si
arroga su tutte quelle aree forestali riconosciute
“vuote e senza padrone”; l’identificazione delle
comunità di villaggio come soggetti penalmente
perseguibili, per le infrazioni previste dal Codice
Forestale del 1935. Questo sta a significare la
negazione alle collettività africane di diritti
fondamentali per l’organizzazione sociale (come la
proprietà e gestione collettiva delle terre e delle loro
risorse) e il non riconoscimento di personalità
giuridica in materia di diritti, ma solo di doveri.
E’ una contraddizione insita nelle norme stesse che non
può non generare conflitti.
Questa negazione di diritti alle popolazioni africane si
concretizza secondo due modalità: la prima ha a che fare
con la questione fondiaria; la seconda riguarda una
limitazione ai diritti d’uso delle aree poste sotto
protezione.
Più nel dettaglio, esaminiamo la prima. Il regime
fondiario dell’AOF si basa sull’articolo 539 del Codice
Civile francese che stabilisce un principio: tutte le
terre vuote e senza padrone appartengono allo Stato. Ma
in Africa questo diventa un problema perché nelle
società tradizionali la proprietà privata della terra
non esiste. Comunque in AOF, con un decreto del 1935 in
materia di organizzazione del demanio privato dello
Stato, questo finì per considerare proprie tutte le
terre su cui non erano presenti insediamenti oppure le
aree che risultavano “non sfruttate o non occupate da
più di dieci anni”. Ma anche in questo caso poteva
trattarsi di terre lasciate a riposo agricolo, in
contesti dove questo supera il decennio; oppure di
un’area tradizionale di caccia, raccolta o culto,
insomma di quella brousse così utile e significativa per
le società tradizionali africane. Ma, ovviamente,
l’intento dell’Amministrazione coloniale era quello di
assicurarsi la maggior parte del suolo africano, per
poterlo controllare e sfruttare.
Da tutto questo, purtroppo, dipesero forte
conflittualità ed effetti paradossali. Si attivarono
dinamiche di eccessiva o cattiva utilizzazione delle
risorse proprio da parte delle popolazioni africane, sia
perché ormai forzatamente integrate in un circuito
economico nuovo e difficile, sia perché ormai
deresponsabilizzate nei confronti di terre di
appartenenza dello Stato-dominatore. Tutto ciò portò gli
agenti forestali ad intensificare l’opera di
repressione, facendo crescere la propria impopolarità
tra la popolazione e gli altri settori
dell’Amministrazione coloniale.
Passiamo alla seconda modalità: un’imposizione di limiti
e divieti alle normali attività produttive di
sussistenza. Si considerava una comunità come
responsabile per incendio, taglio di rami, colture
all’interno delle forets classèes e come primo soggetto
addetto alla prevenzione e all’intervento in caso di
feux de brousse (incendi di tratti di foresta per
ottenere aree adatte alla coltivazione). Ed era una
necessità degli agenti forestali: infatti senza queste
responsabilità legali non sarebbe stata possibile la
sorveglianza e la conservazione di foreste così estese e
vulnerabili. In realtà, questo tradisce la debolezza
dell’attore e la fragilità di un sistema retto da una
contraddizione interna: riconoscimento di doveri su un
bene senza che ne venga riconosciuta la proprietà.
In COSTA D’AVORIO
In questa colonia si aveva una legislazione più precisa
a riguardo. E le contraddizioni e le asimmetrie nei
rapporti sono ancora più evidenti e gravi.
Qui alle popolazioni locali, non solo venivano imposti i
classements, ma un decreto locale del 1936 disponeva la
fissazione “per ogni villaggio che si serve della foret
classèe o è limitrofo ad essa, le tracce perimetrali o
trasversali che ogni anno devono essere diserbate dagli
indigeni di quel villaggio.” E ancora: “per ogni
villaggio limitrofo alla foret classèe, le zone di tale
foresta per le quali il villaggio può essere ritenuto
responsabile dei feux de brousse che dovessero
percorrerla”.
La contraddizione è ancora più netta se si considera il
problema delle colture in forets classèes.
La responsabilità è sempre delle collettività di
villaggio; ma ci sono delle differenze a seconda che si
tratti di colture commerciali (piantagioni di caffè e
cacao) o a colture itineranti di sussistenza.
Sempre nel già richiamato decreto del ’36 si stabilisce
che le piantagioni commerciali possono continuare ad
esistere nelle forets classèes con l’obbligo per i
proprietari di garantire la viabilità della linea
perimetrale della la piantagione. Non altrettanto vale
per le colture di sussistenza che saranno “tollerate” al
massimo per un anno dalla pubblicazione del decreto di
classificazione della foresta. Inoltre, si autorizza
l’abbattimento o la messa a fuoco di essenze protette
dalla legge nel caso in cui, trovandosi all’interno di
una piantagione, esse potrebbero risultare dannose per
la stessa.
Questo si traduce in pratica, nel tollerare – ed ad un
certo punto addirittura incoraggiare - i dissodamenti in
forets classèes per accogliere colture commerciali ed
invece la punizione di quelli praticati per agricolture
semplici di sussistenza.
E c’è di più: nella maggior parte dei casi, i
dissodamenti a fini commerciali vengono svolti da
popolazioni immigrate da altre regioni, stranieri
quindi, mentre l’agricoltura di sussistenza è invece
praticata dalla popolazione del posto. Questa quindi si
vede sottrarre la sua fonte sia di sussistenza sia del
suo patrimonio simbolico-culturale da parte di stranieri
con interessi solo economici.
L’obiettivo principale delle forets classèes in Costa
d’Avorio era quindi chiaramente quello di limitare o
impedire lo sfruttamento tradizionale della risorsa
forestale da parte delle collettività locali, allo scopo
di preservare il “capitale forestale” da sfruttare
all’occorrenza per gli interessi economici coloniali:
soprattutto il fruttuoso commercio del legname, che era
e rimarrà uno dei fondamenti dell’economia ivoriana.
L’opera di classement si sviluppò a partire dagli anni
’20: furono interessate prima di tutto le dense foreste
tropicali della Bassa Costa d’Avorio, più vicine alla
costa; e, non a caso, le prime forets classèes si
localizzarono lungo gli assi di comunicazione (strade,
ferrovie), nei pressi dei grandi centri abitati.
Il tipo di conflitto ambientale che più si sviluppò in
questa colonia (ma questo vale anche in generale in AOF),
e che caratterizzerà l’intera attività del Servizio
delle Acque e Foreste ivoriano, fu sicuramente quello
relativo al dissodamento e alla coltivazione in forets
classèes. Le ragioni sono evidenti: la risorsa forestale
è oggetto e luogo di interessi divergenti e l’attore
coloniale non attivò strategie di convergenza e
mediazione tra questi; poi c’è il fatto che le aree
forestali si trovano in regioni, quelle meridionali, che
costituiscono aree ad alta densità demografica e quindi
le risorse sono, in proporzione, più scarse e contese.
1945-1960
Dopo la Seconda Guerra Mondiale tutto il mondo è
attraversato da cambiamenti e nuove prospettive. Anche e
soprattutto la questione coloniale è al centro del
cambio di clima politico e della risistemazione dei
poteri. Temi portanti della politica internazionale come
il (tanto sbandierato) principio di autodeterminazione
dei popoli scuotono alle fondamenta l’edificio coloniale
mondiale, e la crescente perdita di consenso rende
necessari nuovi atteggiamenti e nuove strategie (di
fatto, di dominazione).
Un primo segnale di cambiamento c'era stato già nel
1944, con la Conferenza di Brazzaville: la Francia di De
Gaulle, bisognosa di sostegno contro il regime fantoccio
di Vichy, aveva concesso agli africani riforme
sostanziali, quali la cittadinanza francese, il
decentramento di alcuni poteri, l'abolizione dei lavori
forzati e l'elezione di assemblee locali.
Ma, alla fine della situazione di emergenza della
guerra, tutto questo finì per confluire all'interno di
una linea politica piuttosto ambigua. Basti citare qui
alcuni passaggi dalla Costituzione francese del 1946:
nel preambolo (semplice dichiarazione di intenzioni, sia
pure) si stabiliva: «Fedele alla propria missione
tradizionale, la Francia intende condurre i popoli di
cui ha preso cura verso la libertà di autoamministrarsi
e di gestire democraticamente i propri affari», ma anche
«coordinare le loro risorse e i loro sforzi per
sviluppare le rispettive civiltà», una concezione
autonomista molto netta; Per contro, il titolo VIII
faceva prevalere una scelta unitaria, dichiarando «una e
indivisibile» la Repubblica francese, «che comprende la
Francia metropolitana, i dipartimenti e i territori
d’oltremare»; l'articolo 72 poi definiva la competenza
legislativa del parlamento francese in materia di
diritto penale, di organizzazione delle libertà
pubbliche e di organizzazione politico-amministrativa
per i territori d’oltremare. Tra l'altro nel parlamento
francese era prevista la rappresentanza delle colonie,
ma non era né proporzionale né paritaria, bensì fissata
in modo arbitrario affinché «la Francia non diventi la
colonia delle sue colonie».
Tutto questo sottolinea come la strategia coloniale
della Francia nel dopoguerra si volga al tentativo di
continuare a giustificare, ma anche in qualche modo
rafforzare, un’appropriazione del territorio che ormai
stava perdendo sempre più legittimità. La nuova politica
si caratterizzerà per l’intervento dello Stato,
attraverso la pianificazione e il finanziamento
pubblico.
In questo contesto, anche la politica ambientale cambia,
caricandosi di nuove valenze prettamente ambientali, di
protezione degli equilibri fisico-naturali. Questa nuova
sensibilità e azione sono argomenti spendibili sia sul
piano interno che su quello internazionale, sempre più
sensibili alla “protezione della natura”.
L’approccio alla protezione forestale in AOF diventa
quindi più complesso. I classements si rivolgono
soprattutto ad aree precedentemente ritenute non
appetibili dal punto di vista economico-produttivo (e
quindi non protette): la savana e i versanti montuosi
non coltivabili.
Le motivazioni di questo cambiamento sono diverse, ma la
più importante è che le regioni ora coinvolte
nell’azione forestale degli attori coloniali sono quelle
a bassa densità di popolazione e quindi con un minor
rischio di opposizione popolare.
L’Amministrazione coloniale cerca ora di rafforzare le
sue strutture e il suo controllo sul territorio
all’interno della nuova ottica, con la creazione di
forme territoriali concrete, come parchi, riserve e
circuiti turistici, sulla base del demanio classificato
e affidate al Servizio delle Acque e Foreste.
Tuttavia in questa fase la macchina coloniale appare già
sempre più debole e le sue contraddizioni interne sono
ormai ferite vecchie e profonde, insanabili. E in campo
di politica ambientale, anche all'interno delle nuove
strategie coloniali, la mediazione, l'incontro con le
società basiche, tradizionali, rimane esclusa; e i
conflitti che da questo scaturiscono rimangono
irrisolti.
E' questa una delle eredità coloniali che peseranno
sulle politiche ambientali dei nuovi stati indipendenti
dell'Africa occidentale. Tanto più quando questi credono
di poter recuperare senza conseguenze, per i nuovi
interventi protettivi, strutture come le forets classèes
o addirittura organismi come il Servizio delle Acque e
Foreste, che invece hanno provocato tanti e forti
contrasti.
In COSTA D’AVORIO
In questa colonia il passaggio alle nuove strategie
conservative (e politiche) è evidente.
Lo sforzo di classement cominciò ad interessare anche il
nord del paese, caratterizzato dal passaggio alle
regioni aride saheliane. L’intento era quello di
costituire un cordone protettivo contro il processo di
savanizzazione progressiva (da notarsi: in quegli anni
si parlava ancora di “savanizzazione”, mentre invece
oggi è la desertificazione vera e propria che avanza).
Alla fine del 1957, comunque, la sola Costa d’Avorio
possedeva più del 30% del demanio classificato di tutta
l’AOF.
Questa estesissima mise en riserve di territori avrà
conseguenze sociali rilevanti e provocherà conflitti
ambientali di natura nuova e più complessa dei
precedenti. Nel Rapporto Annuale del Servizio delle
Acque e Foreste avoriano del 1954 si fa riferimento alle
liti sempre più frequenti tra villaggi per il possesso
delle terre localizzate fuori dalle forets classèes,
poiché – si dice – il classement ha toccato più certe
famiglie che altre e ha determinato fatti nuovi, come la
vendita di terreni a stranieri e la presa di possesso di
terre prima “vuote e senza padrone”; tutto questo
intrecciato a lotte d’influenza tra famiglie, tribù e
addirittura partiti politici.
Riferimenti bibliografici:
Lina
Maria Calandra, “Politiche conservative e conflitti
ambientali nella geografia del colonialismo:
l’esperienza dell’Africa Occidentale Francese”, in:
“Conflitti ambientali: genesi, sviluppo, gestione” a
cura di A. Turco e P. Faggi, Unicopli Editore, Milano,
1999
Joseph Ki-Zerbo, “Storia dell’Africa nera”, Giulio
Einaudi Editore, Torino, 1977
www.greenpeace.it, “L’industria del legno in
Africa – Impatti ambientali, sociali, economici” |