N. 17 - Ottobre 2006
ELEONORA FONSECA PIMENTEL
Un'intellettuale tra rivoluzione e giornalismo
di
Tiziana Bagnato
Una vita piena, vibrante, percorsa con passo fermo
senza mai retrocedere, inseguendo ideali che la
trasformarono da semplice donna intellettuale ad
eroina della Rivoluzione Partenopea del 1799 e
giornalista e direttrice di indiscusso talento.
Così, in sintesi, si potrebbe riassumere la vita
di Eleonora Fonseca Pimentel, personaggio del XVII
secolo, la cui intelligenza ed estro rimangono
nella storia.
A darle i natali nel 1752 fu Roma, dove nacque, in
via di Ripetta, dai portoghesi Clemente e Caterina
Lopez per poi trasferirsi nel 1760 a Napoli. Sotto
la guida dello zio, l’abate Lopez, la futura
rivoluzionaria studiò greco, latino, matematica,
fisica, chimica, botanica, mineralogia,
astronomia, economia e diritto pubblico. Studi che
sarebbero sfociati in opere, traduzioni e
dissertazioni in cui già faceva capolino la
concezione dello Stato di Eleonora, con idee
decisamente in controtendenza per l’epoca riguarda
al suo fondamento e fine.
Nel 1778 sposò un generale dell’esercito
napoletano, Pasquale Tria De Solis. Ma il
matrimonio fu presto rovinato dalla violenza del
marito, il quale, tra l’altro, le procurò un
aborto per percosse. Nel 1786 si arrivò così alla
separazione.
Fino all’inizio circa della Rivoluzione Francese,
Eleonora mantenne ottimi rapporti con i sovrani di
Napoli. Da un lato, la poetessa componeva per
loro poesie, odi e sonetti, dall’altro Ferdinando
IV sapute le ristrettezze economiche della
poetessa, legate alla separazione del marito, le
aveva procurato un sussidio mensile, facendola
figurare come bibliotecaria della regina Maria
Carolina.
Ma con lo scoppio della rivoluzione
francese, i re decisero di mutare la loro
politica, mettendo un freno al movimento delle
riforme e intraprendendo la via della reazione.
Eleonora non chinò il capo ma, invece, si gettò
nell’impegno politico per la libertà e il
miglioramento delle condizioni di vita delle
classi disagiate. Insomma, passò all’opposizione
diventando una fervente giacobina, tanto è che
arrivò al punto di introdurre durante un
ricevimento a Corte alcune copie in italiano del
testo della Costituzione approvato dall’Assemblea
francese.
Nel 1972, quando i francesi
giunsero a Napoli con una flotta per ottenere il
riconoscimento della Repubblica francese, Eleonora
venne invitata tra gli ospiti e finì sui registri
della polizia borbonica. Nel 1798 venne perquisita
la sua abitazione, nella quale vennero rinvenute
della copie dell’Encyclopèdie di Diderot, che ne
causarono l’arresto. Nel 1799, anno della
Rivoluzione Partenopea, i Lazzaroni insorsero e
aprirono le porte della carceri dalle quali,
insieme ai prigionieri politici, uscirono anche
delinquenti comuni e prigionieri politici.
Riacquistata così la libertà,
entrò, insieme ad altri giacobini, nel Comitato
Centrale. Il Comitato decise di fare pressione sul
generale Championnet perché affrettasse la sua
avanzata su Napoli, anche per arrestare il
dilagare dell’anarchia tra la plebe.
Il 20 gennaio di quell’anno, la
Pimentel, alla testa di molte donne, entrò nel
castello di San Elmo. Due giorni dopo i patrioti
piantarono l’albero della libertà e dichiararono
decaduta la dinastia borbonica, proclamando la
Repubblica Napoletana
“sotto la protezione della grande nazione
francese”.
Ma a Fonseca Pimentel va anche il
merito di aver creato un giornale portavoce
ufficiale del Governo Provvisorio ma allo stesso
tempo indipendente. Si trattava del ‘Monitore
Napoletano’, giornale al centro della stampa
democratico –giacobina – che ebbe vita breve, dal
febbraio all’agosto 1799, ma intensa. Eleonora,
anima del giornale, riuscì ad affiancare alla
linea di sostegno al Governo anche una linea
critica nei giudizi e propositiva.
Nei suoi articoli di fondo,
traspariva la preoccupazione di coinvolgere le
classi umili di Napoli e della campagna, fino ad
allora avverse alla Repubblica. Proprio per questo
esortava a fare dei periodici scritti in dialetto,
cercando quel ponte linguistico che potesse
avvicinare a loro.
Ecco il ritratto del Monitore fatto
da Benedetto Croce: “ Non
distrazioni, non discorsi di letteratura o
astratte discettazioni. Il Monitore va rapido e
diritto, tutto assorto nelle questioni essenziali
ed esistenziali che si affollarono in quei pochi
mesi, i quali per intensità di vita valsero
parecchi anni. E in esso ritroviamo le fuggevoli
gioie, le ansie sempre rinnovate, i propositi e le
aspettazioni dei patrioti napoletani, espressi con
la parola della loro virile compagna, con la forma
e il colorito individuale che prendevano
nell’animo di lei”.
Nel maggio del 1799 l’esercito
francese si allontanò da Napoli per andare
nell’Italia settentrionale. I patrioti rimasero in
balia di se stessi. Sono quelli i giorni in cui
dal Monitore Fonseca Pimentel esorta a non
disperare e rivela il suo desiderio di realizzare
l’unità d’Italia. Ma da lì a breve le truppe del
Cardinale Ruffo, inviate dai Borbone, a
riconquistare Napoli arrivarono alle porte della
città. La giornalista si rifugiò a Sant’Elmo e
finì nelle liste dei capitolati per i quali era
garantito l’espatrio.
Con la fine della Repubblica venne
arrestata e il 20 agosto venne impiccata con
l’accusa di avere parlato e scritto contro il re
violando la capitolazione. Prima di salire sul
patibolo, sembra che la rivoluzionaria abbia
bevuto il caffè e pronunciato il famoso verso di
Virgilio: “"Forsan et haec olim meminisse
juvabit" (Forse un giorno gioverà ricordare
tutto questo).
Sembra che il popolo abbia cercato,
invano, di convincere la donna a gridare "Viva
il re". Degli otto condannati, la Pimentel fu
l'ultima e, prima di porgere il collo al boia,
salutò i suoi compagni già morti. Il corpo della
Pimentel fu sepolto, nei pressi del luogo
dell'esecuzione in Piazza Mercato, nella chiesa di
S. Maria di Costantinopoli, nella Sala del
Capitolo Maggiore.
Ma, prima della sepoltura, il
cadavere venne, per una giornata intera, lasciato
penzoloni, a ludibrio del popolo. Fu questa
l'ultima ed atroce offesa recata ad una delle
donne più intelligenti, vive e colte del XVIII
secolo.
Riferimenti bibliografici:
Paolo Murialdi, Storia del giornalismo
italiano,Bologna, Il Mulino,2000
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