N. 148 - Aprile 2020
(CLXXIX)
Storia
del
potere
di
clemenza
Fondamenti
storico-costituzionali
del
potere
di
grazia,
amnistia
e
indulto
di
Luca
Cherchi
Il
potere
di
concedere
la
grazia
ha
origini
antichissime:
sembra
infatti
che
tale
istituto
contraddistingua
l’apparato
giuridico
di
molti
popoli
arcaici,
configurandosi
come
una
prerogativa
della
massima
autorità
statale.
Le
prime
testimonianze
della
clemenza
sono
riscontrabili
nel
Codice
di
Hammurabi
del
XVIII
secolo
a.C.,
dove
era
prevista
la
possibilità
di
perdono
della
moglie
adultera,
e
nel
Codice
Sumero
di
Lip-Ishitar,
il
re
di
Isin,
il
quale
pare
risparmiasse
il
servo
che
in
una
sola
e
unica
occasione
avesse
rinnegato
il
padrone.
La
presenza
di
istituti
analoghi
è
riscontrabile
anche
nelle
monarchie
dell’India
antica,
nell’antico
Egitto
dei
Faraoni
e
nel
popolo
Ebraico.
Nell’antica
Grecia,
i
provvedimenti
di
clemenza
non
godevano
di
molta
fama
poiché
qualunque
atto
che
potesse
portare
all’impunità
dell’accusato
o
del
condannato
era
percepito
come
un
pericolo
per
la
democrazia.
Questo
potere
contrastava
inoltre
con
il
concetto
di
uguaglianza,
principio
cardine
vigente
tra
i
cittadini
a
pieno
titolo
delle
poleis
greche,
perché,
così
facendo,
si
affermava
l’esistenza
di
un
essere
superiore
agli
altri.
Nel
periodo
repubblicano
della
Roma
antica
erano
due
gli
organi
che
mostravano
le
tipiche
caratteristiche
degli
atti
di
clemenza:
la
provocatio
ad
populum
e la
in
integrum
restitutio.
Con
la
provocatio
ad
populum
il
tribuno
della
plebe
poteva
chiedere
che
si
facesse
una
verifica
davanti
all’assemblea
popolare
della
fondatezza
dell’accusa
e
del
provvedimento
che
era
stato
adottato;
in
caso
di
pena
di
morte,
l’adunata
popolare
doveva
essere
la
più
numerosa
possibile
poiché
doveva
potenzialmente
coinvolgere
tutti
i
cittadini.
Non
tutta
la
popolazione
era
però
abilitata
a
usufruire
di
questo
istituto:
non
vi
potevano
accedere
gli
stranieri,
gli
schiavi
e le
donne
ed
erano
parimenti
esclusi
i
colpevoli
di
parricidio,
alto
tradimento
e
impurità
delle
vestali.
La
in
integrum
restitutio,
era
un
mezzo
con
cui
il
pretore
ripristinava
lo
status
del
cittadino
prima
di
un
certo
fatto.
Le
restitutiones
erano
promesse
nell’editto
oppure
il
magistrato
poteva
provvedere
in
seguito
a
una
richiesta
del
diretto
interessato.
Con
il
passaggio
al
principato,
l’imperatore
Cesare
Augusto
s’impossessò
del
potere
di
grazia
esercitandolo
prima
insieme
al
Senato
e
poi
autonomamente,
concentrandolo
negli
istituti
dell’indulgentia
principis
e
dell’abolitio.
L’indulgentia
principis
si
divideva
in
indulgentia
principis
generalis,
che
assomigliava
molto
all’odierno
indulto,
e
indulgentia
principis
specialis,
che
invece
si
avvicinava
all’odierno
potere
di
concedere
la
grazia.
Questo
provvedimento
aveva
come
destinatario
un
soggetto
determinato,
operava
dopo
la
condanna,
doveva
essere
accordata
dall’imperatore,
non
aveva
efficacia
retroattiva
e,
inoltre,
non
pregiudicava
i
diritti
dei
terzi.
L’abolitio,
invece,
con
effetti
ben
più
ampi
sull’azione
penale,
comportava
l’estinzione
del
reato.
Con
l’epoca
barbarica,
i
provvedimenti
di
clemenza
del
sovrano
entrarono
in
disuso
a
causa
di
una
diversa
visione
della
pena
e
della
legittimazione
della
vendetta
privata,
la
cosiddetta
faida
germanica:
in
questi
casi
l’unico
soggetto
in
grado
di
perdonare
il
condannato
era
solo
la
vittima
o
chi
ne
faceva
le
veci.
Durante
il
periodo
feudale
ci
fu
una
polverizzazione
del
potere
di
concedere
la
grazia
di
cui
s’impossessarono
i
singoli
feudatari,
realizzando
spesso
in
questo
modo
spiacevoli
situazioni
di
favoritismo
o
ancora
utilizzandolo
come
semplice
mezzo
di
scambio;
l’imperatore
era
infatti
troppo
lontano
dalle
singole
realtà
locali.
Col
tempo
e
con
l’affermazione
delle
monarchie
nazionali
si
ebbe
un
ritorno
all’atto
di
clemenza
da
parte
del
Sovrano
che
riuscì
a
impossessarsene
e a
sottrarlo
ai
signori
locali.
Il
Monarca
era
la
fonte
del
diritto
e in
suo
nome
era
amministrata
la
giustizia,
era
perciò
logico
che
egli
potesse
rivedere
tutte
quelle
sentenze
penali,
anche
se
passate
in
giudicato,
che
avrebbero
potuto
offendere
il
sentimento
di
giustizia
da
lui
incarnato
e
costituire
una
soluzione
politica
alternativa
alla
pena.
Nell’era
delle
monarchie
assolute
gli
istituti
di
clemenza
incominciano
a
prendere
la
forma
dei
provvedimenti
moderni.
Con
l’avvento
delle
monarchie
parlamentari,
l’antica
nozione
di
atti
di
prerogativa
regia
come
atti
basati
sulla
completa
arbitrarietà
del
sovrano
diventano
inconciliabili
con
il
nuovo
impianto
costituzionale.
In
questo
periodo
si
estingue
così
quel
concetto
che
permetteva
al
re
di
adottare
provvedimenti
straordinari
totalmente
riconducibili
alla
sua
autorità
sovrana
e,
mentre
lo
ius
clementis
rimane
una
prerogativa
personale
del
re,
i
poteri
di
sospensione
e
dispensa
vengono
ricompresi
nella
competenza
delle
assemblee
legislative.
Invero,
dal
momento
in
cui
il
re
non
possiede
più
l’attività
normativa
dello
Stato,
non
avrebbe
senso
il
mantenimento
in
capo
al
sovrano
di
questi
poteri.
I
poteri
di
prerogativa
regia
finiscono
quindi
per
essere
visti
come
dei
“meri
residui
storici”
del
re;
a
lui
formalmente
attribuiti,
ma
sostanzialmente
del
Governo.
La
situazione
in
Italia
con
lo
Statuto
Albertino
è
pertanto
analoga:
con
l’affermarsi
della
monarchia
parlamentare
(non
immediatamente
nel
1848,
ma
tra
il
1855
e il
1865),
le
funzioni
di
governo
formalmente
attribuite
al
Sovrano
sono
concretamente
esercitate
dall’Esecutivo,
con
la
sola
eccezione
degli
atti
ancora
sottoposti
alla
regia
prerogativa
(art.
5
St.
Alb.).
In
ordine
al
potere
di
grazia,
lo
Statuto
Albertino,
fortemente
ancorato
al
principio
della
indulgentia
principis,
sanciva
all’art.
8
che
“Il
Re
può
far
grazia
e
commutare
le
pene”.
Si
può
affermare
che,
almeno
in
una
prima
fase,
il
potere
di
clemenza
individuale
si
configurò
nell’ordinamento
sabaudo
come
un
potere
subordinato
alla
volontà
del
Monarca.
Tale
istituto
manteneva
dunque
il
suo
carattere
di
atto
proprio
della
persona
del
re;
un’attribuzione,
cioè,
“a
cavallo
tra
persona
e
istituzione,
tra
re e
Corona”
(P.
Colombo).
Si
potrebbe
pertanto
dire
che
il
potere
di
grazia
avesse
una
“natura
mista”
perché
difficile
era
farlo
rientrare
in
una
delle
tre
classiche
categorie
(legislativo,
esecutivo
e
giudiziario).
Il
potere
di
grazia
veniva
a
rispondere
quindi
a
esigenze
scaturite
dalla
nuova
coscienza
popolare
che,
con
il
mutare
dei
pensieri
e
dei
costumi,
non
s’immedesimava
più
in
una
determinata
pena
o
sanzione
imposta
dalla
legge
e
l’unico
soggetto
pertanto
in
grado
di
avere
un
potere
simile
di
pacificazione
sociale
non
poteva
essere
altro
che
il
monarca:
una
figura
moderatrice
e
super
partes,
supremo
custode
della
legalità
e
dell’equità.
Tale
istituto
diviene
però
difficilmente
compatibile
con
gli
altri
elementi
del
rinnovato
apparato
costituzionale:
nei
tempi
in
cui
il
re
rappresentava
completamente
la
giustizia
dello
Stato,
perché
amministrata
da
giudici
che
venivano
scelti
da
lui
e
che
applicavano
leggi
da
lui
dettate,
il
diritto
di
grazia
si
presentava
in
modo
totalmente
armonico;
ma
quel
sistema,
ormai,
non
poteva
più
essere
applicato.
Tale
viene
quindi
smantellato
nel
1865,
quando
l’allora
Ministro
della
Giustizia
Vacca
si
assunse
la
responsabilità
della
grazia
davanti
alle
Camere
come
qualunque
altro
atto
regio
controfirmato
da
un
ministro.
In
questo
modo
l’articolo
8
dello
Statuto
Albertino
andava
letto
insieme
all’articolo
4,
sulla
sacralità
e
l’inviolabilità
della
persona
del
Re,
e
all’articolo
67,
riguardante
la
responsabilità
ministeriale,
a
garanzia
dell’irresponsabilità
del
Sovrano.
L’articolo
826
del
codice
di
procedura
penale
del
1865
affermava
inoltre
che
le
suppliche
dovevano
essere
dirette
al
Re e
presentate
al
Ministro
di
grazia
e
giustizia.
L’intervento
del
potere
esecutivo
attraverso
l’azione
adottata
dal
Ministero
di
Grazia
e
Giustizia
aveva
quindi
anche
il
compito
di
garantire
l’autorevolezza
del
Sovrano.
Ci
furono
però
delle
resistenze
all’ingerenza
del
Ministro
Guardasigilli
nel
potere
di
concedere
la
grazia
che
molti,
con
un’ideologia
piuttosto
arcaica,
tendevano
ancora
a
considerare
come
un
potere
distinto
dagli
altri
e
sostanzialmente
e
arbitrariamente
del
Re.
In
aggiunta,
nel
1870,
si
riconobbe
in
Parlamento
anche
la
libertà
delle
Camere
di
sindacare
l’esercizio
del
diritto
di
grazia;
Urbano
Rattazzi,
due
volte
Presidente
del
Consiglio
dei
ministri
del
Regno
d’Italia,
sostenne
a
tale
proposito
in
aula
che
“nulla
quindi
sotto
l’aspetto
Costituzionale,
nulla
impedisce
che
anche
il
Parlamento,
per
effetto
di
quel
diritto
di
controllo
che
ha
sul
potere
esecutivo
possa
esprimere
un
voto,
il
cui
effetto
non
può
essere
certamente
quello
di
concedere,
o
negare
la
grazia,
e
così
d’invadere
il
diritto
della
Corona,
ma
solo
di
far
conoscere
al
Ministero
responsabile
le
conseguenze
che
sopra
di
esso
potrebbero
ricadere,
se
quel
voto
non
venisse
accolto”.
Nonostante
l’ingerenza
del
Ministro
della
Giustizia,
bisogna
però
notare
che
i
provvedimenti
di
clemenza
individuale,
anche
per
la
secolare
tradizione
che
li
associava
alla
benevola
intercessione
del
monarca,
hanno
trovato
molto
spesso
nella
persona
del
re
un
primo
fondamentale
intermediario,
tanto
è
vero
che
erano
numerosissime,
ad
esempio,
le
domande
di
grazia
che
Vittorio
Emanuele
II
riceveva
direttamente
e
che
poi
doveva
trasmettere
al
Guardasigilli.
Col
tempo
acquistano
importanza
nel
provvedimento
di
concessione
della
clemenza
anche
le
considerazioni
dell’autorità
giudiziaria,
organo
che
meglio
degli
altri
coinvolti
conosceva
le
vicende
processuali.
La
dottrina
riteneva
infatti
che
la
decisione
dovesse
coinvolgere
una
grande
quantità
di
soggetti
istituzionali,
in
modo
tale
da
poterla
considerare
come
una
volontà
collettiva.
Il
Ministro
di
grazia
e
giustizia
Vigliani
descriveva
così
il
procedimento:
“
(…)
sopra
ciascun
ricorso
di
grazia
si
assumono
le
informazioni
e il
parere
del
Pubblico
Ministero
che
ha
promossa
la
condanna
e
anche,
in
alcuni
casi,
del
presidente
del
collegio
che
l’ha
pronunciata.
Negli
affari
di
maggiore
gravità
si
esplora
eziandio
l’opinione
dell’autorità
politica
e si
chiede
il
voto
del
Consiglio
di
Stato
o
talvolta
se
ne
riferisce
al
Consiglio
dei
ministri.
Questi
atti,
che
dirò
d’istruzione,
sono
esaminati
diligentemente
prima
dalla
Divisione
degli
affari
penali,
custode
delle
massime
e
delle
tradizioni
del
ministero
in
questo
argomento,
e
poi
dal
segretario
generale,
che
ne
fa
relazione
al
ministro,
il
quale
viene
in
questo
modo
posto
in
grado
di
prendere
una
matura
risoluzione
conforme
a
quei
principi
di
equità
e di
prudenza
che
debbono
guidare
l’applicazione
di
questa
benefica
e
importante
prerogativa
della
Corona”.
Sorprendenti
e
indicativi
sono
i
dati
delle
grazie
domandate
e
concesse:
dal
1880
e
1897
vengono
presentate
228.346
domande
di
grazia
e di
queste
ne
vengono
accolte
circa
il
9,2%;
negli
anni
dal
1898
al
1910,
le
domande
di
grazia
ammontano
a
39.531
e
viene
concessa
la
grazia
nel
20,8%
dei
casi;
nel
periodo
che
va
dal
1911
al
1922,
si
hanno
171.956
domande
di
grazia,
delle
quali
50313
vengono
accolte,
con
delle
percentuali
che
superano
anche
il
36%,
come,
per
esempio,
è il
caso
del
1914.
È
particolarmente
evidente
che
il
re
solamente
non
poteva
occuparsi
di
una
così
grossa
mole
di
richieste
di
grazia.
Tutti
questi
esempi
permettono
di
comprendere
l’importanza
e il
frequente
uso
del
potere
di
grazia
nonostante
la
sua
natura
di
strumento
d’eccezione.
Nel
dibattito
in
Assemblea
Costituente
prevalse
l’idea
che
si
era
consolidata
nello
Statuto
Albertino,
ovvero,
di
non
concedere
al
Capo
dello
Stato
dei
poteri
incontrollati
e
incontrovertibilmente
personali.
Il
potere
di
concedere
la
grazia
ai
condannati
è
espressamente
riconosciuto
nella
Costituzione
all’articolo
87
comma
11,
che
recita
“[Il
Presidente
della
Repubblica]
può
concedere
grazia
e
commutare
le
pene”.
Analogamente
a
quanto
accadde
con
il
potere
di
grazia
individuale,
ci
fu
una
rivoluzione
anche
per
quanto
concerne
la
clemenza
collettiva.
Lo
Statuto
Albertino
disciplinava
esplicitamente
solo
la
grazia
all’articolo
8 e
non
anche
gli
altri
poteri
di
amnistia
e
indulto
che
la
dottrina
dell’epoca
era
solita
comunque
ricomprendere
tra
i
provvedimenti
di
clemenza.
Ciononostante,
il
Sovrano
concesse
fin
dall’inizio
frequenti
amnistie
senza
riscontrare
minimamente
proteste
da
parte
del
Parlamento.
La
maggior
parte
delle
censure
venivano
dalla
dottrina
costituzionalistica
e
dalla
stampa
che
ritenevano
la
condotta
della
corona
in
contrasto
con
la
legge
fondamentale.
Molte
furono
le
reazioni
negative
dovute
all’esercizio
del
potere
di
amnistia
da
parte
del
Re
senza
il
concorso
delle
Camere
e
tale
fu
la
situazione
d’incertezza
che
portò
il
Ministro
della
Giustizia
a
consultare
in
merito
il
Consiglio
di
Stato
nel
1856.
Il
Consiglio
di
Stato,
interpretando
anche
la
volontà
del
costituente
in
conformità
a
una
comparazione
con
la
prassi
Francese
(dalla
cui
Carta
deriva
la
formulazione
dell’articolo
8)
concluse
affermando
che
per
motivi
di
ordine
pubblico
la
Corona
può
concedere
amnistie
che
abbiano
per
effetto
di
impedire
l’istituzione
di
giudizi
criminali
e di
abolire
quelli
già
istituiti.
Il
massimo
organo
consultivo
dello
Stato,
alla
luce
di
un’interpretazione
estensiva
della
parola
“grazia”,
espresse
un
parere
che
fu
nel
senso
della
piena
ammissibilità
all’esercizio
del
potere
di
amnistia
da
parte
del
Re,
sia
pure
con
la
collaborazione
del
Governo.
Questa
decisione
unita
alla
prassi
di
quegli
anni
comportò,
nel
1865,
l’adozione
da
parte
del
legislatore
dell’articolo
830
del
nuovo
Codice
di
procedura
penale,
il
quale
stabilì
che:
“L’amnistia
si
concede
per
decreto
reale,
sopra
proposta
del
Ministro
di
Grazia
e
Giustizia,
udito
il
Consiglio
dei
Ministri”.
Nei
primi
quarant’anni
del
periodo
statutario,
ovvero
dal
1848
al
1888,
vennero
concesse
107
amnistie.
La
maggior
parte
dei
casi
riguardano
materie
ricorrenti
soprattutto
in
ambito
militare
ovvero
per
condoni
di
diserzione,
insubordinazione
e
violazione
dei
regolamenti,
ma,
in
particolare,
per
renitenza
alla
leva.
Diversi
(ma
infruttuosi)
furono
i
tentativi
di
riforma
legislativa
presentati
per
cercare
di
fare
rientrare
l’amnistia
come
un
atto
di
legislazione
delegata,
così
che
la
sospensione
della
legge
penale
determinata
dall’amnistia
sarebbe
stata
consentita
da
un
atto
del
potere
legislativo.
Queste
tesi
sono
comunque
importanti
per
la
soluzione
scelta
nella
Costituzione
Repubblicana
del
1948.
I
nostri
Padri
Costituenti
interpretarono
l’indulto
e
l’amnistia
come
dei
provvedimenti
concessi
dal
Presidente
della
Repubblica
previa
legge
di
delegazione
delle
Camere,
come
sancito
dall’articolo
79
della
Costituzione
Repubblicana.
In
questo
modo
il
Parlamento,
promuovendo
l’emanazione
dell’indulto
e
dell’amnistia
attraverso
la
legge
delega,
fissava
le
direttive
a
cui
il
decreto
presidenziale
avrebbe
dovuto
attenersi.
Nel
corso
della
decima
legislatura
si
ebbe
la
modifica
dell’articolo
79
della
Costituzione
attraverso
la
l.
cost.
n.
1/1992,
con
il
quale
fu
soppresso
il
meccanismo
di
delegazione
a
favore
del
Presidente
della
Repubblica
e il
potere
di
clemenza
collettiva
viene
completamente
attribuito
al
Parlamento.
Con
questa
legge
di
revisione
costituzionale
termina
il
progressivo
affrancamento
del
potere
di
grazia
collettiva
dalla
disponibilità
del
Capo
dello
Stato
e
dunque
il
suo
totale
trasferimento
alle
assemblee
legislative.
Riferimenti
bibliografici:
C.
S.,
Consiglio
di
Stato,
Sessione
Generale,
anno
1856
dal
16
giugno
al
27
luglio,
Relazione
del
Consigliere.
Camera
dei
Deputati,
Atti
Parlamentari,
Discussioni,
1°
luglio
1870.
Colombo
P.,
Il
re
d’Italia:
prerogative
costituzionali
e
potere
politico
della
Corona
(1848-1922),
Milano
1999.
Fascione
L.,
Storia
del
diritto
privato
Romano,
Torino
2012.
Grossi
P.,
Un
diritto
senza
stato
(la
nozione
di
autonomia
come
fondamento
della
costituzione
giuridica
medievale),
in
P.
Grossi,
Assolutismo
giuridico
e
diritto
privato,
Milano
1998.
Majorana
G.,
La
prerogativa
del
potere
di
grazia
alla
luce
dei
casi
“Sallusti”
e
“Romano”,
in
F.
Giuffré,
I.A.
Nicotra
(a
cura
di),
L’eccezionale
“bis”
del
Presidente
della
Repubblica
Napolitano,
Torino
2014.
Mega
A.,
Il
potere
di
grazia,
Storia
e
problemi
di
una
questione
giurisprudenziale,
Napoli
2015.
Nubola
C.,
Giustizia,
perdono,
oblio,
La
grazia
in
Italia
dall’età
moderna
ad
oggi,
in
K.
Harter,
C.
Nubola
(a
cura
di),
Grazia
e
giustizia,
Figure
della
clemenza
fra
tardo
medioevo
ed
età
contemporanea,
Bologna
2011.
Stronati
M.,
Il
Governo
della
grazia.
Giustizia
e
ordine
giuridico
nell’esperienza
Italiana
(1858-1913),
Macerata
2009.
Stronati
M.,
Il
più
bel
gioiello
della
Corona.
La
grazia
nella
tradizione
costituzionale
italiana,
in
Giornale
di
storia
costituzionale,
n.
7,
2004.
Vigliani
P.
O.,
Il
Diritto
di
grazia,
in
L’Opinione
dell’11
settembre
1876.