N. 69 - Settembre 2013
(C)
LA FOLLIA IERI E OGGI
STATO DI GRAZIA E NECESSITÁ DELLO SPIRITO
di Chiara Francesca Chianella
Può
l’uomo
considerarsi
equilibrato
ed
essere
saldo
nei
suoi
propositi
in
ogni
istante
della
sua
vita?
Esiste
una
virtuosa
relazione
tra
follia
e
routine
quotidiana?
Per
meglio
cogliere
le
sfumature
che
si
possono
attribuire
al
tema
della
follia,
vale
la
pena
ricordare
che
il
lemma
«folle»
entra
a
far
parte
della
lingua
italiana
nel
XIII
secolo
e
trae
la
sua
origine
dal
latino
fŏllem
con
l’accezione
di
“mantice,
sacco
vuoto”
e,
successivamente,
il
suo
significato
si è
specializzato
sino
ad
indicare
“testa
vuota”,
per
metafora.
La
storia
della
letteratura
ci
testimonia
che
il
topos
della
follia
non
ha
lasciato
indifferenti
le
originali
menti
dei
letterati
di
ogni
tempo.
Infatti
l’indiscusso
fascino
che
esercita
ciò
che
si
scosta,
anche
se
lievemente,
dalla
norma
è
stato
soggetto
di
innumerevoli
opere
letterarie
all’interno
delle
quali
sono
contenuti
pareri
e
punti
di
vista
discordanti
frutto
delle
scuole
di
pensiero
contemporanee
agli
autori.
Il
termine
follia,
ad
esempio,
appare
in Dante con
un’accezione
negativa
e
designa
la
temerarietà
dell’agire
umano
che
presume
farsi
simile
a
Dio
e
ricorre
in
ben
quattro
canti
della
Divina
Commedia:
in
Inferno,
XXVI 125:
«
de'
remi
facemmo
ali
al
folle
volo
»;
in Paradiso XXVII 82-83
dove
il
termine
torna
a
definire
il
viaggio
di
Ulisse:
« sì
ch'io
vedea
di
là
da
Gade
il
varco
/
folle
di
Ulisse…
»;
in Purgatorio I 59
e in Paradiso VII 93.
L’intelligenza
umana,
quella
parte
di
noi
che
partecipa
al
divino,
è un
valore
a
rischio:
diviene
colpa
se
procede
al
di
fuori
della
virtù
morale
o
dei
precetti
divini.
Se
il
male
è
nell’autosufficienza
intellettuale,
può
tradursi
nella
superbia
conoscitiva,
punita
con
il
naufragio
di
Ulisse.
Il
tema
della
pazzia
ricopre
un’importanza
straordinaria
nella
cultura
umanistico-rinascimentale
e
tra
le
opere
del
tempo
si
possono
annoverare
tra
le
più
significative
l’ Encomium
moriae (“Elogio
della
pazzia”)
di Erasmo
da
Rotterdam e l’Orlando
furioso di
Ludovico
Ariosto.
Il
classicismo
tipico
del
periodo
a
cavallo
tra
XV e
XVI
secolo
conferisce
alla
follia
un’interpretazione
paradossale.
Nello
specifico,
la
follia
è
sintomo
di
forte
contraddizione,
di
duplicità,
di
un’inquietudine
morale
tale
da
mettere
a
soqquadro
il
tradizionale
assetto
pazzia/saggezza.
Così,
per
la
prima
volta
si
conferisce
alla
follia
il
merito
di
essere
portatrice
di
una
forza
conoscitiva
eccezionale
che
rivela
come
la
vera
mancanza
di
senno
sia
da
cercare
piuttosto
tra
i
cosiddetti
“saggi”,
dotati
di
incrollabili
certezze
e di
punti
di
vista
unilaterali,
che
non
presso
i
“folli”,
in
grado
di
assecondare
la
propria
coscienza
e le
proprie
pulsioni.
Il
punto
di
vista
di
Erasmo
da
Rotterdam
risulta
essere,
invece,
totalmente
“paradossale”:
egli
ritiene
che
la
follia
è
segno
di
conoscenza
e di
consapevolezza
razionale,
disapprova
la
demenza
del
mondo
che,
spinto
dalla
cupidigia,
rincorre
falsi
valori
esaltando
quella
superiore
“follia”
-
tale
solo
agli
occhi
del
mondo,
essendo
in
realtà
suprema
sapienza
-
che
spinge
il
cristiano
a
fare
della
fede
esercizio
di
vita.
Anche
Ariosto
sostiene
la
linea
del
paradosso
e
della
contraddizione,
infatti
in Orlando
furioso XXIV.1
si
legge:
«E
quale
è di
pazzia
segno
più
espresso
/
che,
per
altri
voler,
perder
sé
stesso?»
e
all'ottava
successiva:
«Varii
gli
effetti
son,
ma
la
pazzia
/ è
tutt’una
però,
che
li
fa
uscire».
Orlando
pazzo
si
sottopone
ad
“incredibili
prove”,
è
fuori
di
senno:
la
causa
prima
della
sua
“pazzia”
è il
suo
desiderio
amoroso
per
Angelica.
Il
paladino
va
fuori
di
senno
nel
momento
in
cui
giunge
nei
luoghi
che
hanno
ospitato
l'amore
tra
Angelica
e
Medoro.
La
sua
è
una
follia
scaturita
dalla
gelosia,
una
demenza,
dunque,
d'amore.
Questa
serie
di
esempi
può
essere
continuata
all’infinito
e
forse
potrebbe
darci
l’impressione
che
questo
stato
mentale
causato
ora
dal
desiderio
di
conoscenza,
ora
dalla
fede,
ora
dall’amore
sia
fuori
dalla
nostra
portata
perché
trattato
da
autori
di
epoche
lontane
dai
nostri
giorni.
Lo
scorrere
delle
pagine
del
tempo
non
ci
ha
tramandato
un’univoca
interpretazione
della
follia
ma
una
tra
le
menti
più
brillanti
dei
tempi
contemporanei
ha
incitato
la
nostra
generazione
ad
essere
folli.
I
laureandi
dell’università
di
Stanford
hanno
avuto
il
privilegio
di
ascoltare
le
ormai
celeberrime
parole
del
compianto
Steve
Jobs
il
quale,
citando
il
messaggio
d’addio
alle
pubblicazioni
del
The
Whole
Earth
Catalog
(«Stay
hungry.
Stay
foolish»),
fece
un
accorato
appello
a
seguire
ciò
che
ci
sembra
interessante,
ad
innamorarsi
di
ciò
che
si
fa
per
far
sì
che
sia
davvero
un
buon
lavoro,
a
credere
in
noi
stessi
e a
continuare
a
cercare
ciò
che
più
desideriamo,
a
non
accontentarsi
mai.
Bisogna
avere
una
folle
passione
in
questa
vita:
discostarsi
leggermente
dalla
regola
generale,
avere
il
coraggio
di
ascoltare
il
proprio
cuore
e la
propria
intuizione
è la
condizione
necessaria
per
realizzarci
come
uomini
e
vivere
pienamente
il
nostro
tempo.
Tra
il
ronzio
della
miriade
di
opinioni
emergerà
sempre
una
severa
e
sprezzante
voce
che
ci
chiamerà
“folli”.
Erasmo
da
Rotterdam
ci
rassicura
dicendo
che
«è
pacifico
che
tutte
le
passioni
rientrino
nella
sfera
della
follia».
Critiche
o
meno,
la
follia
è
connaturata
alla
nostra
indole.
Siamo
folli
proprio
perché
siamo
uomini.