N. 14 - Febbraio 2009
(XLV)
UNA
PARTITA COME
UN’ALTRA…?
Flakelf VS Start
di Giuseppe
Tramontana
Trusevich,
Sviridovskiy, Korotkikh, Klimenko, Tyutchev, Putistin,
Kuzmenko, Balakhin, Goncharenko, Sukharev e Melnik. Alla
stragrande maggioranza della gente questi nomi non
dicono nulla. Proprio nulla. Più muti del servo muto di
Zorro. Eppure si tratta di una squadra di calcio. Di una
grande squadra di calcio. Ma ciò non aiuta ancora.
Scommetto che a nessun tifoso questi nomi sono
familiari.
Neanche a quelli che, dopo
una sconfitta del Milan, si soffermano a guardare
pensierosi un dirupo, indecisi se fare o meno il grande
salto per sfuggire ai mali della vita. Bene, una squadra
di calcio, dicevamo. Che squadra? Russa? Jugoslava?
Slava, comunque? Ucraina. Già, ucraina. E fu
protagonista di una delle partite più memorabili della
storia. Una partita tremenda, incredibile. Giuro.
Tutta la storia comincia
quando all’inizio della primavera del 1942, in una Kiev
occupata dai nazisti (fin dal 19 settembre 1941), il
signor Josif Kordik, di professione panettiere, viene
fulminato per strada da una visione che definire
straordinaria è il minimo. Il cuore gli si arresta in
petto, perle di sudore gli corrono lungo le tempie, le
gambe sconocchiano: ma quello dall’altra parte della
strada non è il portiere della Dinamo Kiev Nikolaj
Trusevich? Sì, lo è. Ora, c’è da dire che Kordik era un
gran furbone.
Di origine tedesca, era
riuscito ad ottenere un trattamento privilegiato dai
tedeschi: non era stato rinchiuso nei campi di
prigionia, era praticamente di casa – anche grazie al
suo mestiere – negli uffici del comando nazi, era
persino entrato in buone relazioni con alcuni kamaranden.
Ma Kordik aveva un problema. Un problema grosso come un
macigno: era malato. Malato di tifo. Di tifo calcistico,
intendo. Era tifoso all’ultimo stadio proprio della
Dinamo Kiev, lo squadrone che, all’epoca, era una delle
squadre più forti d’Europa. Ora, immaginatevi la scena.
Voi siete tifosi della Juventus.
L’Italia viene invasa, che
so?, da San Marino, voi siete sostanzialmente al riparo
dalle violenze degli invasori, mentre gli altri sono
rinchiusi in campi di prigionia e soffrono la fame e le
vessazioni, e incontrate per strada – coperto di
stracci, emaciato, sporco e moralmente affranto - Del
Piero o Buffon.
Il fato vi offre su un
piatto d’argento la possibilità di aiutare un vostro
mito, quello che avete acclamato, osannato, difeso al
Bar dello Sport per anni. Che fate?
Probabilmente quello che
fece Kordik in quel giorno imprecisato della primavera
ucraina del 1942. Il panettiere si avvicina e offre
aiuto al suo idolo. Lo accoglie nella sua panetteria,
gli da’ un lavoro (clandestino) e lo accudisce. Ogni
tanto probabilmente ne approfitta per chiedere qualche
informazione sulla Dinamo, qualche ragguaglio su vecchie
azioni di gioco, qualche rimpatriata intorno a partite
ormai avvizzite nella memoria. E ci piace pensare che il
portierone rispondesse sempre con molta cortesia e
diligenza.
Kordik, con l’andare del
tempo, comincia a pensare che se ne ha salvato uno, può
provare a salvarne altri, di quella squadra. E se ne
salva abbastanza, perché non rimettere in piedi la
formazione, come la band dei Blues Brothers?
Cerca che ti cerco,
infòrmati che ti informo, scopre con l’aiuto di
Trusevich dove stanno gli altri. Ne trova otto della
Dinamo e tre (Vladimir Balakhin, Vasiliy Sukharev e
Mikhail Melnik) della Lokomotiv Kiev. Li mette insieme,
plasma la nuova squadra e, visto che i nazisti hanno
sciolto le società preesistenti, la chiamano F.C. Start.
Ora, c’è da dire che la
creazione di una squadra di calcio, nella Kiev sotto
occupazione, non era una delle esigenze principali della
popolazione. Però, anche il calcio aiuta a sollevare il
morale. E poi, vuoi mettere?, il senso o l’illusione di
normalità che dà un partita di calcio? Per non parlare
di un vero campionato!
Ed, infatti, i tedeschi,
proprio in quel torno di tempo, avevano pensato bene di
far rimasticare un po’ di placido tran-tran agli ucraini
approntando un mini-campionato: la normalità è
normalità. La gente ha bisogno di divertirsi.
Liberatori, siamo, mica
occupanti. Viene persino ristrutturato lo stadio. E poi,
via al torneo. Al campionato si iscrivono sei squadre.
Quattro formate da soldati tedeschi o dai loro alleati,
romeni e ungheresi, una di ucraini collaborazionisti (la
Rukh) e la Start appunto.
Quelli della Start sono
professionisti. Grandi professionisti. Seppur emaciati,
debilitati dai campi di lavoro e dalla malnutrizione
trattano la palla come la loro fidanzata, la portano a
spasso come il bebé nella carrozzina, addomesticata come
il leone sdentato del circo, scorrevole e fluida come la
vodka nelle vene. Uno spettacolo, insomma.
Contro di loro, gente
abituata a portare anfibi, strillando “heil Hitler!”,
fucilare partigiani ed ebrei e, di tanto in tanto,
ubriacarsi o andare a puttane. Non ci poteva essere
partita.
L’incontro inaugurale si gioca tra le squadre locali.
Gli ucraini sottoalimentati di Kordik e Trusevich contro
i satolli e lindi collaborazionisti della Rukh. Vincono
i primi per 7 a 2. I fornai vincitori, in casacca rossa,
sono tutti orrendamente comunisti e non nascondono
l’avversione nei confronti dell’Idra che sta devastando
il loro paese.
La vittoria dello Start
non era stata una buona propaganda per i nazi ed i loro
amici collaborazionisti. Così l’allenatore della Rukh
ottiene che le future partite lo Start le giochi non
nello stadio grande di Kiev, ma in uno più piccolo e
periferico. Di vincere potevano vincere, ma senza dare
nell’occhio…
Tuttavia, nonostante il
trasferimento, la squadra dei fornaretti rossi va che è
un piacere. Nella partita successiva asfaltano con il
risultato di 11 a 0 la squadra dei romeni. La cosa
incomincia a destare curiosità. La gente si affolla per
vederli giocare. Piccole soddisfazioni per un popolo
offeso e deluso, in ginocchio, vedere la propria squadra
schiantare i nemici invasori. Al contrario, la Rukh è
una pena. La cosa più eccitante che ti può capitare
vedendoli giocare è sbadigliare.
Quello che gli riesce
indubbiamente meglio è lasciarsi sconfiggere dalla più
forte delle formazioni tedesche, la più forte e quella
maggiormente accreditata per la vittoria finale, la
squadra dell’aviazione tedesca, la Luftwaffe, con un
nome che sembra uno scioglilingua: Flakelf.
Presentata come
invincibile, la Flakelf ha un preciso compito: farla
finita con il mito dello Start, la quale sta diventando
il cuore pulsante della resistenza agli invasori. Farla
finita e chiudere con i mormorii, i sorrisini di
malcelata soddisfazione, i petti gonfi di quei
untermenschen ucraini. Se lo Start era un baluardo,
ebbene aveva trovato l’ariete capace di abbatterlo!
Intanto, lo Start vola. Altro che Luftwaffe!
Il 6 agosto 1942 lo
scontro tra titani si trasforma in una passeggiata per
gli ucraini che sommergono gli avversari sotto un
umiliante 5-1. Storditi, confusi, offesi, sconvolti, i
tedeschi tornano a casa, anzi in caserma. Ma, si sa, i
tedeschi, non mollano così come se nulla fosse. I
campioni intanto sono i rossi. Hanno realizzato 43 gol
in 7 partite. Partite tutte vinte, chiaramente.
Altro da aggiungere? Però,
l’indomani, il 7 agosto, un giovedì, gli ucraini
scoprono che i tedeschi della Flakelf si vogliono rifare
sotto. La città è tappezzata da una miriade di
manifestini che annunciano, per la domenica successiva,
il 9, la partita di ritorno. Proprio così: partita di
ritorno. Non rivincita. E già, solo per questo, la cosa
puzza un po’. Tutti capiscono l’antifona: i nazisti non
ci stanno a perdere. Sono i padroni, i dominatori, i
superuomini.
Loro non possono perdere.
No, perdere proprio no. I giocatori si stringono attorno
al portiere Trusevich: sanno. In quel momento
rappresentano l’onore di Kiev, dell’Ucraina. E, volendo,
non solo. Visto che sono tutti comunisti, avranno
pensato magari a migliaia di altre cose. Insomma, non ci
si può tirare indietro. La gente si avvicina e porta
indumenti, scarpe da pallone, cibo. Persino alcuni
soldati romeni e ungheresi fanno la stessa cosa.
Quando la gente ha tanta
fiducia in te, non puoi tradirla. Non puoi far finta di
non vedere gli sguardi di ammirazione delle ragazze, gli
occhi lucidi dei bambini, il senso di orgoglio che si
dipinge sui visi. Grazie a questi aiuti riescono a
procurarsi calze, tute, scarpe decenti per tirare una
palla. Giocare e perdere non si può.
Insomma, domenica 9 agosto, allo stadio Zenit di Kiev le
due squadre si presentano per disputare la partita di
rivincita. Poco prima di fare il suo ingresso in campo,
mentre si trova ancora negli spogliatoi, lo Start riceve
la visita di un ufficiale in divisa da SS, che si
scoprirà, tra l’altro, essere l’arbitro.
L’ufficiale-arbitro ricorda alla compagine ucraina di
salutare gli avversari “secondo la consueta formula”
ossia l’ “heil Hitler” nazista. Inoltre suggerisce di
fare la parte che le compete: alias… essere una buona
squadra-cuscinetto e far vincere i biondi della Flakelf.
Gli ucraini fanno cenno di
sì col capo, poi si guardano negli occhi e sanno già
cosa fare. Scendono in campo e davanti ad un pubblico
formato quasi esclusivamente di soldati e ufficiali
nazisti, rispondono al saluto tedesco con un sonoro:
“Fitzcult Hurrà!”, viva lo sport! Ma questa non è
l’unica regola che da lì a poco avrebbero violato.
La partita inizia con un
pressing asfissiante dei tedeschi. Pasciuti, ben
vestiti, impomatati e con undici riserve a disposizione.
Di fronte, i macilenti ucraini, con braghe cascanti,
traballanti sulle gambe ossute, malnutriti e, inutile
dirlo, senza nessuna riserva. E con l’arbitro tedesco,
pure! I tedeschi ci danno dentro. Picchiano, insultano,
provocano. Lo Start non cade nella trappola. I falli dei
nazisti vengono regolarmente ignorati dal direttore di
gara, quelli dei rossi segnalati tutti. Lo stadio è una
bolgia, o quasi. E proprio un’azione dalla dubbia
regolarità, con un fuorigioco grande come il Tavoliere
delle Puglie, permette ai tedeschi di passare in
vantaggio. Sembra fatta. Sembra.
La reazione dello Start è
stratosferica. In meno di venti minuti segnano tre
volte. Il primo gol lo segna Kuzmenko: palla vagante ai
limiti dell’aria, tiro di prima e vai che la sfera si
insacca, bassa, alla destra del portiere tedesco. Poi,
una doppietta del bomber Goncharenko (con il primo gol
frutto di una serpentina in area) porta la propria
squadra sul 3-1. E si va all’intervallo.
Negli spogliatoi i calciatori russi ricevono un’altra
visita. Di un altro ufficiale, il quale fa presente con
mota tranquillità che nel caso non avessero perso quella
partita le conseguenze sarebbe state terribili. A questo
punto le testimonianze divergomono. C’è chi giura di
aver sentito la parola “fucilazione”, mentre c’è chi
dice che quella parola non venne propriamente
pronunciata, ma il senso fu chiaro per tutti.
Ma le minacce non
riscuotono l’effetto auspicato. Ritornano in campo. Dopo
uno sbandamento iniziale che permette ai tedeschi di
portarsi sul 3-3, lo Start decolla e segna altre due
volte: 5-3. Ma quello che umilia di più i tedeschi è la
sesta rete. Quella non segnata. Klimenko, come Maradona
contro l’Inghilterra, salta come birilli mezza squadra
avversaria, portiere compreso, ed invece di depositare
la palla in rete, si ferma sulla linea di porta, si gira
su se stesso e la calcia verso il centro del campo: uno
sfregio bello e buono.
La rappresaglia non arriva subito. Anzi: la settimana
dopo gli ucraini trovano il tempo di dare la rivincita
ai collaborazionisti della Rukh, trebbiandoli con 8 gol
(a zero).
Ma il tempo era ormai scaduto. La festa era finita per
davvero. Una mattina di metà agosto alcuni ufficiali
della Gestapo in abiti civili si presentano in fabbrica
con la lista dei giocatori dello Start. Ne trovano otto.
Tutti della Dinamo. Vengono arrestati e portati in
caserma. I nazisti vogliono sapere dove sono gli altri
componenti della squadra. Ma loro non parlano. Vengono
torturati sistematicamente senza pietà. Bocche cucite.
Il terzino Nikolaj
Korotkikh, che era anche un membro attivo della polizia
sovietica, non sopravvive alle torture. Gli altri
vengono deportati nel campo di Siretz, comandato dal
famigerato Paul von Radomski.
Dopo un attacco
partigiano, agli inizia del 1943, Radomski ordina la
fucilazione di un internato ogni tre. A farne le spese
sono Kuzmenko (quello che ha segnato la rete del
pareggio), Trusevich (il portierone) e Klimenko (il
capitano, quello che aveva sbeffeggiato i nazi con il
gol-non gol). Vengono portati sull’orlo del burrone di
Babij Jar e fucilati. I corpi scaraventati giù,
nell’abisso.
Come quelli di più di
altri 100.000 fucilati nello stesso posto durante tutta
l’occupazione, 33.771 nei soli giorni del 29 e 30
settembre 1941. Gli unici per i quali la sorte si
rivelerà più favorevole sono il bomber Goncharenko,
Tyutchev e Sviridovsky. Sono trasferiti in un campo di
lavori forzati a Kiev, ma quando vengono a sapere della
fine dei compagni, trovano il coraggio di fuggire e
nascondersi fino all’arrivo dell’Armata Rossa. Degli
altri elementi dello Start non si saprà mai più nulla.
Nel dopoguerra, la paura di essere accusati di
collaborazionismo per aver partecipato al torneo voluto
dai tedeschi, fa tacere i superstiti. Solo all’indomani
della morte di Stalin Goncharenko trova la forza di
raccontare tutto, consegnando alla leggenda le gesta
dello Star, che seppe vincere la paura della morte pur
di tenere alta la dignità. A ricordo della vicenda è
stato eretto un monumento fuori dallo stadio Zenit di
Kiev, il quale, dal 1981, ha cambiato nome: Start
Stadium si chiama ora.
La storia della valorosa squadra ucraina è stata
un’ispirazione per molti. Nel 1961 il regista ungherese
Zoltan Fabri ne trasse un film, Due tempi all’Inferno, e
così fece il collega sovietico Evgenij Karelov, nel
1962, con il lungometraggio Il terzo tempo.
Titoli, in fondo, che non
dicono nulla se non ai più accaniti cinefili. Assai più
noto è, invece, il film Fuga per la vittoria (1981)
dell’americano John Huston, con Sylvester Stallone,
Michael Caine ed i calciatori Ardiles, Bobby Moore e
Pelè, libera rielaborazione della vicenda dello Start.
Ed anche l’epopea dello Start può servire a non
dimenticare in quale inferno la barbarie nazista
precipitò il mondo.
Per quanto riguarda il gioco del pallone, poi, il grande
allenatore del Liverpool Bill Shansky una volte dichiarò
che “il calcio non è questione di vita o di morte. E’
molto di più.”
Forse pensava agli eroi
dello Start, forse no. Forse non sopportava le derisioni
e le ironie degli uomini di buon senso verso i tifosi di
calcio, così fanatici, passionali e insensati.
Tutti i tifosi di calcio.
Tutti coloro che, in fondo in fondo, pensano ancora che
una partita di calcio altro non sia che “una vita intera
concentrata in 90 minuti.”
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