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N. 39 - Marzo 2011 (LXX)

Firenze e l’Arno: un rapporto difficile
Dalle origini al diluvio del 1333

di Salvina Pizzuoli

 

Come tutte le città fluviali Firenze deve molto al suo fiume, nel bene e nel male. La storia della città si intreccia infatti con quella dell’Arno come si allacciano i loro elementi di pietra e di acqua che si stringono e convivono in un accostamento strettissimo.

 

L’Arno più che un vero e proprio fiume è un fiumicel che nasce in Falterona e cento miglia di corso nol sazia (Purgatorio XIV); un giovinastro scapestrato, forse troppo stretto e ingabbiato tra le braccia della sua bella. I poeti, che sanno indagare nelle pieghe dei sentimenti, colgono ed evidenziano, più e meglio di molti trattati, le intime e vere ragioni di un rapporto in conflitto; spesso ammiriamo l’infilata dei ponti che segnano dall’alto gli incontri delle due sponde dell’Arno, rapiti dall’incanto dell’opera dell’uomo che si coniuga in modo mirabile con quella della natura, specialmente quando è trasfigurata nella magica atmosfera dei tramonti.

 

Firenze vista dall’alto o dalle spallette del suo fiume o dal ponte a Santa Trinità, scuote e cattura nella sua magica e surreale visione, sempre uguale eppure sempre nuova, che sa regalare al passante emozioni ed ebbrezze diverse e profonde: l’acqua scorre tra i colori gialli-rosati e grigiastri delle sue pietre; le case pare si stringano ad accarezzare l’acqua che le riflette in un gioco di vibrazioni e di immoto.

Eppure tra tanta bellezza Luzi ha sottolineato un rapporto difficile:

 

II fiume è accolto tra le mura e nel mezzo delle case nella sua qualità di fiume, forza benefica e insidiosa, con la quale non è lecito indulgere a debolezze... è catturato dai muraglioni e procedendo verso il cuore della città rinserrato nella sua petrosa fossa...

 

La storia ci racconta che alle origini c’era solo un guado che gli Etruschi avevano trovato spostandosi via via verso est. Il guado di un fiume è una caratteristica geografica che rende questo punto strategicamente importante; gli insediamenti delle antiche popolazioni erano infatti spesso guidati dalla necessità di conquistare e poi controllare i passaggi obbligati; per questa ragione anche il passo sull’Arno sarà controllato in un primo momento dagli Etruschi e poi dai Romani. In alto, sulla sovrastante collina, i primi avevano fondato Fiesole che dominava una valle insalubre e paludosa e quindi poco adatta all’insediamento. L’abitato si limitava infatti a essere un emporio sul fiume mentre l’Arno con il suo corso tracciava solo una linea di confine naturale tra gli Etruschi e i bellicosi Liguri i quali, come ebbe a dire Strabone, furono cattivi vicini.

 

E poi ci fu un ponte di legno, costruito dai Romani su quello stesso guado, ma con un intento diverso: la bonifica, il controllo delle pianure e la fondazione di nuove città che potessero costituire una trama di collegamenti stesa sul territorio; sulla sponda nord e in prossimità del guado nascerà quindi una nuova colonia romana. Il ponte e il nuovo insediamento avrebbero favorito infatti il raggiungimento del passo appenninico, attraverso il quale arrivare a Bononia, l’antica Felsina etrusca, mentre un sistema di strade avrebbe messo in comunicazione le varie città della pianura. L’Arno invece acquistava una nuova identità e diventava un’arteria importante tra l’entroterra e la costa: in epoca romana era infatti navigabile dalla foce fino alla confluenza con il torrente Affrico, a monte di Firenze.

 

Con questi presupposti nasceva nel 59 a.C. la futura Florentia, ultima tra le colonie romane della valle dell’Arno, forse in origine chiamata Fluentia per quel fiume e quel ponte di legno che ne sovrastava la corrente, sulla sponda nord, a pochi passi dall’antico guado dove sarà poi edificato il Ponte Vecchio, oggi simbolo della città.

 

L’antica Fluentia però non ha ancora un ruolo economico chiave che raggiungerà intorno al mille con la rinascita della valle dell’Arno, la ripresa dei traffici e la nuova crescita delle città, ma grazie anche a una serie di favorevoli congiunture: intorno all’anno mille la città è ancora su una strada romana abbandonata ed è tagliata fuori dai traffici che corrono lungo la grande arteria del tempo, la Via Francigena, sorta sul tracciato della vecchia Clodia, che passa molto più a ovest; è lontana dai porti marittimi e deve importare le materie prime che le mancano (lana e coloranti) passando dal porto di Pisa; successivamente sarà la sua politica di espansione verso le rotte dei grandi traffici, favorita dal configurarsi sempre più come città guelfa, e il perdurare di condizioni climatiche favorevoli a permettere alla città un notevole sviluppo demografico insieme alla costruzione di una serie di infrastrutture viarie urbane ed extra urbane che renderanno sempre più solide quelle potenzialità mercantili e manifatturiere che la vedranno fiorente in piena età comunale.

 

È proprio con l’espansione urbana della prima età comunale che il rapporto con il fiume cambia, diviene più stretto: con la realizzazione della quinta cerchia di mura (1172 – 1175) infatti, i tre borghi cresciuti Oltrarno, dove fioriva l’artigianato, verranno compresi nel nuovo perimetro; l’Arno cesserà di costituire un margine naturale della città per diventare un’autentica infrastruttura cittadina.

Il nuovo sviluppo urbano, che vedrà la necessità di ulteriori ponti, ma anche di pescaie e di approdi, caratterizza il nuovo rapporto con il fiume, parte integrante non solo del paesaggio cittadino, ma anche di uno sviluppo economico che risiede nella forza e nella presenza del corso d’acqua.

 

E’ nel passato dei ponti edificati sull’Arno, nella loro costruzione, caduta e riedificazione che possiamo rintracciare gli aspetti peculiari del rapporto tra la città e il suo fiume.

Il primo sarà detto vecchio dopo la costruzione nel 1218 del ponte detto nuovo; quest’ultimo a sua volta, in seguito alla costruzione di altri due, si chiamerà alla Carraia perché in corrispondenza della porta omonima sulla sponda destra. Come accadrà a molti dei ponti, anche il ponte alla Carraia sarà rovinato da una piena dell’Arno nel 1274; sarà quindi ricostruito con un piano stradale in legno che nel 1304 crollerà stavolta però sotto il peso della folla che assisteva a uno spettacolo in Arno come allora era in uso. Il terzo ponte fu fatto edificare dal Podestà Rubaconte nel 1237e da lui prese il nome; fu così solido che resistette anche alla terribile piena del 1333; solo più tardi fu chiamato alle Grazie, da una cappella dedicata alla Madonna delle Grazie; infine il quarto, il Ponte Santa Trinità nel 1252 fu fatto di legno e dopo sette anni fu riedificato in pietra, ma non venne risparmiato dalla piena del 1333 che lo abbatté.

 

Quattro erano quindi i ponti che completavano il sistema di collegamenti fra le due rive popolose, ma stringevano il fiume in un abbraccio forse troppo stritolante tanto che furono spesso abbattuti dalla forza dell’acqua fermata dalle loro arcate, dai piloni e da tutto quello che il fiume poi rovinosamente trasportava.

Più volte danneggiato dalle alluvioni, il primo ponte nel 1080 era in legno, mentre intorno al 1170 fu costruito in pietra con cinque arcate, ma fu spazzato via dall'alluvione del 1333, una delle più violente che si ricordino.

 

Nella breve storia dei ponti troviamo la crescita di Firenze, il suo rapido sviluppo economico e la sua floridezza che doveva comunque fare sempre i conti con la presenza di un fiume al suo interno dalla fisionomia particolare; eppure, incuranti delle sue furie, lungo il suo corso si moltiplicarono anche gli approdi che costituivano, insieme alla viabilità tra le due sponde garantita dai ponti, una rete stradale e fluviale fondamentale per le attività che si svolgevano nel suo letto a monte e a valle. Lungo il fiume mulini, mulini da follare o gualchiere e pescaie che dovevano favorire l’approvvigionamento d’acqua nei momenti di magra.

 

Dante varie volte cita Firenze nel suo poema, ma non si rivolge alla sua città con amorevolezza, ne critica aspramente i costumi richiamando con nostalgia i tempi della Firenze antica, anche per questo i commentatori della catastrofe che investirà la città nel 1333 tesero a interpretarla come una punizione divina, come scriverà il Villani nella sua Nuova Cronica, dovuta all’eccessiva volontà di arricchimento e al conseguente deterioramento dei costumi e alle lotte fratricide per il potere.

Di diverso avviso il rimatore popolare Antonio Pucci che ravviserà nella malizia dei fiorentini, ma anche in una cattiva amministrazione che fa le leggi, ma le disattende non facendole rispettare, i motivi della più disastrosa alluvione che la città aveva vissuto fino ad allora.

Novello sermintese lacrimando. Così si apre un antico sermintese datato 1333 a opera di un cantastorie dell’epoca, Antonio Pucci, conosciuto a Firenze come campanario, banditore e autore di vari componimenti in rima: sonetti, canzoni, sermintesi e il più famoso Centiloquio, in terza rima. Il sermintese era una narrazione in rima di avvenimenti politici, di cronaca, di feste rituali, in uso nel periodo che va dal XIII al XV secolo. Il nome, nonostante ricalchi il serventese provenzale, non ha con esso legami; viene più a essere accostato all’accezione di sermone legata al fatto che l’argomento trattato era di tipo narrativo, didascalico o satirico.

 

Se è vero che i poeti sanno leggere tra le pieghe dei sentimenti, il cantastorie trecentesco Antonio Pucci, aveva saputo leggere chiaramente le cause dell’alluvione del 4 novembre (e le date si ripetono con imprevedibile coincidenza) 1333 e con arguta saggezza popolare apostrofava pesantemente i fiorentini nel suo sermintese, composto subito dopo la tragedia; attribuiva infatti nel suo poemetto narrativo a uno sfrenato desiderio di arricchimento il motivo fondamentale del disastro. Prosperità e distruzione: l’Arno diventa infatti elemento fondamentale della fortuna di Firenze fra il XIII e il XV secolo, ma anche portatore di morte e di devastazione.

 

Da sempre il fiume ha infatti aggredito e ghermito la città lasciandola stremata e indaffarata a ricostruire. Tante e disastrose sono state le esondazioni dell’Arno; se dovessimo farne l’elenco resteremmo sgomenti del loro considerevole numero. Fino al XVI secolo le alluvioni furono da due a cinque per secolo; da allora fino ai nostri giorni sono aumentate da sette a nove e alcune davvero rovinose.

 

Lo studioso Giovanni Targioni Tozzetti così scriveva nel 1767 al Granduca Leopoldo di Toscana nella Disamina di alcuni progetti fatti nel secolo 16° per salvare Firenze dalle inondazioni dell’Arno, relativamente al fiume, ai problemi legati al suo alveo e alle sue inondazioni come la disastrosa piena del 1333 molte volte ha cagionato, e sempre più cagionerà nell’avvenire il fiume Arno, suo [di Firenze – ndr] ospite malcontento, e traditore (…) ma quel ch’è peggio, colle Fabbriche fu usurpato, e stroncato il suo Alveo naturale (…)nel 1333 a dì 4 Novembre gonfissimo d’acque, e quasi sdegnato delle angustie, nelle quali pretendevano tenerlo i buoni Fiorentini, dando una furiosa capata al Ponte vecchio, e agli altri due di S. Trinità, e della Carraia, gli rovinò, e gli portò via insieme colla Pescaia d’Ognissanti; indi per rimettersi in possesso del suo antico e conveniente letto.

 

Antonio Pucci si riferiva nel suo racconto in rima a quanto quattrocento secoli dopo lo studioso Targioni Tozzetti denunciava nei suoi scritti indirizzati al Granduca.

Quando nel 1333 l’Arno colpì infatti Firenze con un’ alluvione poderosa e devastatrice che spazzò via tutti i mulini e le gualchiere, all’epoca collocate su grandi zattere di legno ancorate alle sponde del fiume, una delle cause del disastro fu attribuita proprio alla presenza di quelle strutture produttive lungo il suo corso; si riteneva infatti che insieme alle pescaie che le alimentavano, ne avessero impedito il libero fluire, tanto che il comune deliberò che nessuna nuova gualchiera o mulino potesse essere ricostruito per 400 braccia a valle del Ponte alla Carraia e per ben 2000 a monte del Ponte di Rubaconte.

 

Ma i Fiorentini sembravano preferire la versione punitiva, forse più rassicurante perché più semplice da allontanare; è documentato infatti che le spallette e le testate dei ponti, soprattutto quelle del ponte Rubaconte, il primo che l’Arno incontrava giungendo in città, ospitavano oratori, cappelle votive e sacelli, alcuni dei quali abitati da monache di clausura, la cui presenza, accompagnata da immagini sacre e scaramantiche, mirava a scongiurare la furia del fiume. Ma sacro e profano riescono a convivere nel cuore dei fiorentini; si erano affidati fino ad allora anche a un altro antico simulacro che le acque nel 1333 però avevano strappato, nella loro furia devastatrice, quello di Marte.

 

E cadde in Arno la statua di Mars, ch'era in sul pilastro a piè del detto ponte Vecchio di qua. E nota di Mars che li antichi diceano e lasciarono in iscritta che quando la statua di Mars cadesse o fosse mossa, la città di Firenze avrebbe gran pericolo o mutazione.

La statua, quanto mai di misterioso e controverso in quanto riconosciuta come simulacro di Marte, ma forse raffigurante un cavaliere germanico, sorgeva all’imboccatura del ponte, sulla sinistra, all’angolo di via Por Santa Maria, ed era già malconcia; in passato infatti era stata travolta dalle piene del fiume, come era accaduto nel 1178, ma la pietra scema , come la definisce Dante, sebbene appunto monca, era stata ritrovata e rimessa a guardia dell’Arno a protezione della città, ma in occasione della alluvione del 1333 non fu più recuperata dalle acque.

 

Nel raccontato del Villani e nei versi del Pucci troviamo la grande paura e il bisogno dei fiorentini di esorcizzare la forza dell’acqua, senza disdegnare all’occorrenza di barattare il profano con il sacro, come con Giovanni Battista nel cui culto, preferito a quello di Marte, molti cittadini ricondurranno i motivi della disfatta di Firenze (I' fui de la città che nel Batista/mutò il primo padrone; ond’ei per questo/ sempre con l'arte sua la farà trista - Inferno XIII). Ingordigia, giusta punizione o incuria e inadeguato intervento degli amministratori, comunque problemi a cui non è facile sopperire con preghiere e simulacri; ma nulla pare frenare le richieste sempre più urgenti di una viabilità articolata e funzionale alle attività industriali e commerciali. A testimonianza della prosperità raggiunta, sui ponti nascevano botteghe mentre il fiume pullula di approdi, pescaie, mulini, fulloniche o gualchiere.

 

Gualchiere era il nome delle macchine di legno che servivano per pigiare e comprimere i panni; con lo stesso nome si chiamavano le barche a fondo piatto che le alloggiavano e gli edifici in cui si effettuava la gualcatura ovvero un procedimento di follatura per rendere i panni compatti e impermeabili per mezzo del follone che li pestava mentre erano immersi in un bagno di acqua, sapone e altri ingredienti, come l’urina, per ammorbidirli. Gualchiere e mulini spesso coesistevano nello stesso edificio in quanto utilizzavano le stesse strutture per sfruttare l’acqua del fiume. Il rumore e il cattivo odore dovevano essere notevoli se, come racconta Antonio Pucci, il Comune decise di allontanarli dalla città, ma soprattutto per rispondere all’accusa che da più parti si levava di essere la causa delle esondazioni, avendo frenato il libero fluire delle acque, ma aggiunge in termini netti e precisi che le leggi non sono fatte per essere rispettate se gli interessi economici sono precipui.

 

Due date segnano l’inizio e la fine di questa prima fioritura di Firenze: il 1252, data del conio del fiorino d’oro e il 1333 data della catastrofica alluvione.

A partire dal 1341 tutte le banche fiorentine falliranno e Firenze vivrà un periodo di decadenza e di fame: alla grave crisi economica si accompagnerà la carestia del 1346 e la conseguente peste del 1348.

Dalla tragedia causata dall’alluvione e dagli avvenimenti che di lì a poco seguirono, Firenze si risolleverà solo più tardi, per conoscere una nuova fioritura che la farà non solo fiorente, ma culla del Rinascimento.

 

I nomi delle strade cittadine ancora oggi conservano, in una minima nomenclatura, la memoria di quelle attività e di quelle strutture che fecero Firenze grande. Nomi legati alla presenza del fiume o alle antiche manifatture e ai vecchi mestieri che vi si svolgevano: così corso tintori, via del tiratoio, via dell’Arte della Lana, via delle gore. Dei tiratoi manca completamente la traccia in quanto sono stati trasformati in palazzi o teatri o sono stati demoliti per far spazio a piazze. Il tiratoio era un edificio industriale preposto all’asciugatura dei panni di lana dopo le operazioni di gualcatura, lavaggio o tintura; era costruito con un sistema di terrazze e spazi vuoti, ed era situato secondo la direzione dei venti in quanto destinato all’asciugatura delle pezze. Un vecchio tiratoio occupava l'intera area rettangolare compresa fra l’attuale piazza Mentana (allora Piazza d’Arno) e de’ Giudici e fra via dei Saponai e il Lungarno Diaz, a poche decine di metri da Palazzo Vecchio e dagli Uffizi. Le vicine via dei saponai, via dei vagellai e corso dei tintori, richiamano infatti alla memoria le attività dell’arte della lana.

 

I tiratoi erano situati in città in quanto le stoffe pregiate e costose rischiavano di essere rubate e pertanto dovevano essere controllate da vicino; la loro sistemazione dipendeva dalla vicinanza dei corsi d’acqua necessari per smaltire i residui della tinteggiatura e dalla presenza in quella zona di venti tali da poter assicurare l’asciugatura dei panni. Come ogni struttura idraulica avevano bisogno di una serie di apparati accessori per far arrivare l’acqua alle manifatture, ovvero canali e bacini di riserva, detti gore (nella toponomastica fiorentina via delle Gore lungo il Terzolle), che servivano per alimentare le ruote idrauliche e potevano essere in muratura o di terra battuta rivestita di legno e pietra per assicurare un costante afflusso delle acque. Così anche le pescaie, come quella di Santa Rosa, presso il Ponte detto nuovo o alla Carraia, fu costruita, assieme a un sistema di canali, dai frati Umiliati per mantenere l’acqua a un certo livello, anche in tempo di magra del fiume; la zona sotto il profilo geografico infatti si prestava alla lavorazione della lana, perché all'altezza della Porta alla Carraia, dove il torrente Mugnone sfociava nell'Arno, c'era un'isoletta che formava un canale utile per ricavare l'energia idraulica per mulini e gualchiere.

 

All’altezza della pescaia di S. Rosa si dipartiva dall’Arno un lungo canale che corre parallelo al Parco, detto oggi delle Cascine, e agli ippodromi: il canale era chiamato il Fosso macinante; oggi ne resta traccia nell’omonima strada come agli ippodromi resta il nome delle Mulina; nei nomi ritroviamo ancora una volta una traccia, un pezzo di storia: il fosso macinante infatti si chiamava così perché lungo il suo percorso era tutto un susseguirsi di ruote di mulino.

 

In quei nomi si legge chiaramente l’opera di un sodalizio che ancora oggi continua: l’Arno, sebbene non d’argento, con le sue pigrizie e lentezze o con le sue piene un po’ da scavezzacollo scriteriato, insieme ai monumenti e alle opere dell’ingegno e della creatività umana, con i ponti e il loro artistico abbraccio tra le due sponde, regalano ai numerosissimi visitatori la tangibile visione di affascinanti brandelli di storia in una geografia ancora intatta, lungo quel tratto di fiume che sin dai primordi ha contribuito, e non poco, a costruire tutti i fortunosi eventi.



 

 

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