N. 39 - Marzo 2011
(LXX)
Firenze e l’Arno: un rapporto difficile
Dalle origini al diluvio del 1333
di Salvina Pizzuoli
Come tutte le città fluviali Firenze deve molto al suo fiume,
nel
bene
e
nel
male.
La
storia
della
città
si
intreccia
infatti
con
quella
dell’Arno
come
si
allacciano
i
loro
elementi
di
pietra
e di
acqua
che
si
stringono
e
convivono
in
un
accostamento
strettissimo.
L’Arno
più
che
un
vero
e
proprio
fiume
è un
fiumicel
che
nasce
in
Falterona
e
cento
miglia
di
corso
nol
sazia
(Purgatorio
XIV);
un
giovinastro
scapestrato,
forse
troppo
stretto
e
ingabbiato
tra
le
braccia
della
sua
bella.
I
poeti,
che
sanno
indagare
nelle
pieghe
dei
sentimenti,
colgono
ed
evidenziano,
più
e
meglio
di
molti
trattati,
le
intime
e
vere
ragioni
di
un
rapporto
in
conflitto;
spesso
ammiriamo
l’infilata
dei
ponti
che
segnano
dall’alto
gli
incontri
delle
due
sponde
dell’Arno,
rapiti
dall’incanto
dell’opera
dell’uomo
che
si
coniuga
in
modo
mirabile
con
quella
della
natura,
specialmente
quando
è
trasfigurata
nella
magica
atmosfera
dei
tramonti.
Firenze
vista
dall’alto
o
dalle
spallette
del
suo
fiume
o
dal
ponte
a
Santa
Trinità,
scuote
e
cattura
nella
sua
magica
e
surreale
visione,
sempre
uguale
eppure
sempre
nuova,
che
sa
regalare
al
passante
emozioni
ed
ebbrezze
diverse
e
profonde:
l’acqua
scorre
tra
i
colori
gialli-rosati
e
grigiastri
delle
sue
pietre;
le
case
pare
si
stringano
ad
accarezzare
l’acqua
che
le
riflette
in
un
gioco
di
vibrazioni
e di
immoto.
Eppure
tra
tanta
bellezza
Luzi
ha
sottolineato
un
rapporto
difficile:
II
fiume
è
accolto
tra
le
mura
e
nel
mezzo
delle
case
nella
sua
qualità
di
fiume,
forza
benefica
e
insidiosa,
con
la
quale
non
è
lecito
indulgere
a
debolezze...
è
catturato
dai
muraglioni
e
procedendo
verso
il
cuore
della
città
rinserrato
nella
sua
petrosa
fossa...
La
storia
ci
racconta
che
alle
origini
c’era
solo
un
guado
che
gli
Etruschi
avevano
trovato
spostandosi
via
via
verso
est.
Il
guado
di
un
fiume
è
una
caratteristica
geografica
che
rende
questo
punto
strategicamente
importante;
gli
insediamenti
delle
antiche
popolazioni
erano
infatti
spesso
guidati
dalla
necessità
di
conquistare
e
poi
controllare
i
passaggi
obbligati;
per
questa
ragione
anche
il
passo
sull’Arno
sarà
controllato
in
un
primo
momento
dagli
Etruschi
e
poi
dai
Romani.
In
alto,
sulla
sovrastante
collina,
i
primi
avevano
fondato
Fiesole
che
dominava
una
valle
insalubre
e
paludosa
e
quindi
poco
adatta
all’insediamento.
L’abitato
si
limitava
infatti
a
essere
un
emporio
sul
fiume
mentre
l’Arno
con
il
suo
corso
tracciava
solo
una
linea
di
confine
naturale
tra
gli
Etruschi
e i
bellicosi
Liguri
i
quali,
come
ebbe
a
dire
Strabone,
furono
cattivi
vicini.
E
poi
ci
fu
un
ponte
di
legno,
costruito
dai
Romani
su
quello
stesso
guado,
ma
con
un
intento
diverso:
la
bonifica,
il
controllo
delle
pianure
e la
fondazione
di
nuove
città
che
potessero
costituire
una
trama
di
collegamenti
stesa
sul
territorio;
sulla
sponda
nord
e in
prossimità
del
guado
nascerà
quindi
una
nuova
colonia
romana.
Il
ponte
e il
nuovo
insediamento
avrebbero
favorito
infatti
il
raggiungimento
del
passo
appenninico,
attraverso
il
quale
arrivare
a
Bononia,
l’antica
Felsina
etrusca,
mentre
un
sistema
di
strade
avrebbe
messo
in
comunicazione
le
varie
città
della
pianura.
L’Arno
invece
acquistava
una
nuova
identità
e
diventava
un’arteria
importante
tra
l’entroterra
e la
costa:
in
epoca
romana
era
infatti
navigabile
dalla
foce
fino
alla
confluenza
con
il
torrente
Affrico,
a
monte
di
Firenze.
Con
questi
presupposti
nasceva
nel
59
a.C.
la
futura
Florentia,
ultima
tra
le
colonie
romane
della
valle
dell’Arno,
forse
in
origine
chiamata
Fluentia
per
quel
fiume
e
quel
ponte
di
legno
che
ne
sovrastava
la
corrente,
sulla
sponda
nord,
a
pochi
passi
dall’antico
guado
dove
sarà
poi
edificato
il
Ponte
Vecchio,
oggi
simbolo
della
città.
L’antica
Fluentia
però
non
ha
ancora
un
ruolo
economico
chiave
che
raggiungerà
intorno
al
mille
con
la
rinascita
della
valle
dell’Arno,
la
ripresa
dei
traffici
e la
nuova
crescita
delle
città,
ma
grazie
anche
a
una
serie
di
favorevoli
congiunture:
intorno
all’anno
mille
la
città
è
ancora
su
una
strada
romana
abbandonata
ed è
tagliata
fuori
dai
traffici
che
corrono
lungo
la
grande
arteria
del
tempo,
la
Via
Francigena,
sorta
sul
tracciato
della
vecchia
Clodia,
che
passa
molto
più
a
ovest;
è
lontana
dai
porti
marittimi
e
deve
importare
le
materie
prime
che
le
mancano
(lana
e
coloranti)
passando
dal
porto
di
Pisa;
successivamente
sarà
la
sua
politica
di
espansione
verso
le
rotte
dei
grandi
traffici,
favorita
dal
configurarsi
sempre
più
come
città
guelfa,
e il
perdurare
di
condizioni
climatiche
favorevoli
a
permettere
alla
città
un
notevole
sviluppo
demografico
insieme
alla
costruzione
di
una
serie
di
infrastrutture
viarie
urbane
ed
extra
urbane
che
renderanno
sempre
più
solide
quelle
potenzialità
mercantili
e
manifatturiere
che
la
vedranno
fiorente
in
piena
età
comunale.
È
proprio
con
l’espansione
urbana
della
prima
età
comunale
che
il
rapporto
con
il
fiume
cambia,
diviene
più
stretto:
con
la
realizzazione
della
quinta
cerchia
di
mura
(1172
–
1175)
infatti,
i
tre
borghi
cresciuti
Oltrarno,
dove
fioriva
l’artigianato,
verranno
compresi
nel
nuovo
perimetro;
l’Arno
cesserà
di
costituire
un
margine
naturale
della
città
per
diventare
un’autentica
infrastruttura
cittadina.
Il
nuovo
sviluppo
urbano,
che
vedrà
la
necessità
di
ulteriori
ponti,
ma
anche
di
pescaie
e di
approdi,
caratterizza
il
nuovo
rapporto
con
il
fiume,
parte
integrante
non
solo
del
paesaggio
cittadino,
ma
anche
di
uno
sviluppo
economico
che
risiede
nella
forza
e
nella
presenza
del
corso
d’acqua.
E’
nel
passato
dei
ponti
edificati
sull’Arno,
nella
loro
costruzione,
caduta
e
riedificazione
che
possiamo
rintracciare
gli
aspetti
peculiari
del
rapporto
tra
la
città
e il
suo
fiume.
Il
primo
sarà
detto
vecchio
dopo
la
costruzione
nel
1218
del
ponte
detto
nuovo;
quest’ultimo
a
sua
volta,
in
seguito
alla
costruzione
di
altri
due,
si
chiamerà
alla
Carraia
perché
in
corrispondenza
della
porta
omonima
sulla
sponda
destra.
Come
accadrà
a
molti
dei
ponti,
anche
il
ponte
alla
Carraia
sarà
rovinato
da
una
piena
dell’Arno
nel
1274;
sarà
quindi
ricostruito
con
un
piano
stradale
in
legno
che
nel
1304
crollerà
stavolta
però
sotto
il
peso
della
folla
che
assisteva
a
uno
spettacolo
in
Arno
come
allora
era
in
uso.
Il
terzo
ponte
fu
fatto
edificare
dal
Podestà
Rubaconte
nel
1237e
da
lui
prese
il
nome;
fu
così
solido
che
resistette
anche
alla
terribile
piena
del
1333;
solo
più
tardi
fu
chiamato
alle
Grazie,
da
una
cappella
dedicata
alla
Madonna
delle
Grazie;
infine
il
quarto,
il
Ponte
Santa
Trinità
nel
1252
fu
fatto
di
legno
e
dopo
sette
anni
fu
riedificato
in
pietra,
ma
non
venne
risparmiato
dalla
piena
del
1333
che
lo
abbatté.
Quattro
erano
quindi
i
ponti
che
completavano
il
sistema
di
collegamenti
fra
le
due
rive
popolose,
ma
stringevano
il
fiume
in
un
abbraccio
forse
troppo
stritolante
tanto
che
furono
spesso
abbattuti
dalla
forza
dell’acqua
fermata
dalle
loro
arcate,
dai
piloni
e da
tutto
quello
che
il
fiume
poi
rovinosamente
trasportava.
Più
volte
danneggiato
dalle
alluvioni,
il
primo
ponte
nel
1080
era
in
legno,
mentre
intorno
al
1170
fu
costruito
in
pietra
con
cinque
arcate,
ma
fu
spazzato
via
dall'alluvione
del
1333,
una
delle
più
violente
che
si
ricordino.
Nella
breve
storia
dei
ponti
troviamo
la
crescita
di
Firenze,
il
suo
rapido
sviluppo
economico
e la
sua
floridezza
che
doveva
comunque
fare
sempre
i
conti
con
la
presenza
di
un
fiume
al
suo
interno
dalla
fisionomia
particolare;
eppure,
incuranti
delle
sue
furie,
lungo
il
suo
corso
si
moltiplicarono
anche
gli
approdi
che
costituivano,
insieme
alla
viabilità
tra
le
due
sponde
garantita
dai
ponti,
una
rete
stradale
e
fluviale
fondamentale
per
le
attività
che
si
svolgevano
nel
suo
letto
a
monte
e a
valle.
Lungo
il
fiume
mulini,
mulini
da
follare
o
gualchiere
e
pescaie
che
dovevano
favorire
l’approvvigionamento
d’acqua
nei
momenti
di
magra.
Dante
varie
volte
cita
Firenze
nel
suo
poema,
ma
non
si
rivolge
alla
sua
città
con
amorevolezza,
ne
critica
aspramente
i
costumi
richiamando
con
nostalgia
i
tempi
della
Firenze
antica,
anche
per
questo
i
commentatori
della
catastrofe
che
investirà
la
città
nel
1333
tesero
a
interpretarla
come
una
punizione
divina,
come
scriverà
il
Villani
nella
sua
Nuova
Cronica,
dovuta
all’eccessiva
volontà
di
arricchimento
e al
conseguente
deterioramento
dei
costumi
e
alle
lotte
fratricide
per
il
potere.
Di
diverso
avviso
il
rimatore
popolare
Antonio
Pucci
che
ravviserà
nella
malizia
dei
fiorentini,
ma
anche
in
una
cattiva
amministrazione
che
fa
le
leggi,
ma
le
disattende
non
facendole
rispettare,
i
motivi
della
più
disastrosa
alluvione
che
la
città
aveva
vissuto
fino
ad
allora.
Novello
sermintese
lacrimando.
Così
si
apre
un
antico
sermintese
datato
1333
a
opera
di
un
cantastorie
dell’epoca,
Antonio
Pucci,
conosciuto
a
Firenze
come
campanario,
banditore
e
autore
di
vari
componimenti
in
rima:
sonetti,
canzoni,
sermintesi
e il
più
famoso
Centiloquio,
in
terza
rima.
Il
sermintese
era
una
narrazione
in
rima
di
avvenimenti
politici,
di
cronaca,
di
feste
rituali,
in
uso
nel
periodo
che
va
dal
XIII
al
XV
secolo.
Il
nome,
nonostante
ricalchi
il
serventese
provenzale,
non
ha
con
esso
legami;
viene
più
a
essere
accostato
all’accezione
di
sermone
legata
al
fatto
che
l’argomento
trattato
era
di
tipo
narrativo,
didascalico
o
satirico.
Se è
vero
che
i
poeti
sanno
leggere
tra
le
pieghe
dei
sentimenti,
il
cantastorie
trecentesco
Antonio
Pucci,
aveva
saputo
leggere
chiaramente
le
cause
dell’alluvione
del
4
novembre
(e
le
date
si
ripetono
con
imprevedibile
coincidenza)
1333
e
con
arguta
saggezza
popolare
apostrofava
pesantemente
i
fiorentini
nel
suo
sermintese,
composto
subito
dopo
la
tragedia;
attribuiva
infatti
nel
suo
poemetto
narrativo
a
uno
sfrenato
desiderio
di
arricchimento
il
motivo
fondamentale
del
disastro.
Prosperità
e
distruzione:
l’Arno
diventa
infatti
elemento
fondamentale
della
fortuna
di
Firenze
fra
il
XIII
e il
XV
secolo,
ma
anche
portatore
di
morte
e di
devastazione.
Da
sempre
il
fiume
ha
infatti
aggredito
e
ghermito
la
città
lasciandola
stremata
e
indaffarata
a
ricostruire.
Tante
e
disastrose
sono
state
le
esondazioni
dell’Arno;
se
dovessimo
farne
l’elenco
resteremmo
sgomenti
del
loro
considerevole
numero.
Fino
al
XVI
secolo
le
alluvioni
furono
da
due
a
cinque
per
secolo;
da
allora
fino
ai
nostri
giorni
sono
aumentate
da
sette
a
nove
e
alcune
davvero
rovinose.
Lo
studioso
Giovanni
Targioni
Tozzetti
così
scriveva
nel
1767
al
Granduca
Leopoldo
di
Toscana
nella
Disamina
di
alcuni
progetti
fatti
nel
secolo
16°
per
salvare
Firenze
dalle
inondazioni
dell’Arno,
relativamente
al
fiume,
ai
problemi
legati
al
suo
alveo
e
alle
sue
inondazioni
come
la
disastrosa
piena
del
1333
molte
volte
ha
cagionato,
e
sempre
più
cagionerà
nell’avvenire
il
fiume
Arno,
suo
[di
Firenze
–
ndr]
ospite
malcontento,
e
traditore
(…)
ma
quel
ch’è
peggio,
colle
Fabbriche
fu
usurpato,
e
stroncato
il
suo
Alveo
naturale
(…)nel
1333
a dì
4
Novembre
gonfissimo
d’acque,
e
quasi
sdegnato
delle
angustie,
nelle
quali
pretendevano
tenerlo
i
buoni
Fiorentini,
dando
una
furiosa
capata
al
Ponte
vecchio,
e
agli
altri
due
di
S.
Trinità,
e
della
Carraia,
gli
rovinò,
e
gli
portò
via
insieme
colla
Pescaia
d’Ognissanti;
indi
per
rimettersi
in
possesso
del
suo
antico
e
conveniente
letto.
Antonio
Pucci
si
riferiva
nel
suo
racconto
in
rima
a
quanto
quattrocento
secoli
dopo
lo
studioso
Targioni
Tozzetti
denunciava
nei
suoi
scritti
indirizzati
al
Granduca.
Quando
nel
1333
l’Arno
colpì
infatti
Firenze
con
un’
alluvione
poderosa
e
devastatrice
che
spazzò
via
tutti
i
mulini
e le
gualchiere,
all’epoca
collocate
su
grandi
zattere
di
legno
ancorate
alle
sponde
del
fiume,
una
delle
cause
del
disastro
fu
attribuita
proprio
alla
presenza
di
quelle
strutture
produttive
lungo
il
suo
corso;
si
riteneva
infatti
che
insieme
alle
pescaie
che
le
alimentavano,
ne
avessero
impedito
il
libero
fluire,
tanto
che
il
comune
deliberò
che
nessuna
nuova
gualchiera
o
mulino
potesse
essere
ricostruito
per
400
braccia
a
valle
del
Ponte
alla
Carraia
e
per
ben
2000
a
monte
del
Ponte
di
Rubaconte.
Ma i
Fiorentini
sembravano
preferire
la
versione
punitiva,
forse
più
rassicurante
perché
più
semplice
da
allontanare;
è
documentato
infatti
che
le
spallette
e le
testate
dei
ponti,
soprattutto
quelle
del
ponte
Rubaconte,
il
primo
che
l’Arno
incontrava
giungendo
in
città,
ospitavano
oratori,
cappelle
votive
e
sacelli,
alcuni
dei
quali
abitati
da
monache
di
clausura,
la
cui
presenza,
accompagnata
da
immagini
sacre
e
scaramantiche,
mirava
a
scongiurare
la
furia
del
fiume.
Ma
sacro
e
profano
riescono
a
convivere
nel
cuore
dei
fiorentini;
si
erano
affidati
fino
ad
allora
anche
a un
altro
antico
simulacro
che
le
acque
nel
1333
però
avevano
strappato,
nella
loro
furia
devastatrice,
quello
di
Marte.
E
cadde
in
Arno
la
statua
di
Mars,
ch'era
in
sul
pilastro
a
piè
del
detto
ponte
Vecchio
di
qua.
E
nota
di
Mars
che
li
antichi
diceano
e
lasciarono
in
iscritta
che
quando
la
statua
di
Mars
cadesse
o
fosse
mossa,
la
città
di
Firenze
avrebbe
gran
pericolo
o
mutazione.
La
statua,
quanto
mai
di
misterioso
e
controverso
in
quanto
riconosciuta
come
simulacro
di
Marte,
ma
forse
raffigurante
un
cavaliere
germanico,
sorgeva
all’imboccatura
del
ponte,
sulla
sinistra,
all’angolo
di
via
Por
Santa
Maria,
ed
era
già
malconcia;
in
passato
infatti
era
stata
travolta
dalle
piene
del
fiume,
come
era
accaduto
nel
1178,
ma
la
pietra
scema
,
come
la
definisce
Dante,
sebbene
appunto
monca,
era
stata
ritrovata
e
rimessa
a
guardia
dell’Arno
a
protezione
della
città,
ma
in
occasione
della
alluvione
del
1333
non
fu
più
recuperata
dalle
acque.
Nel
raccontato
del
Villani
e
nei
versi
del
Pucci
troviamo
la
grande
paura
e il
bisogno
dei
fiorentini
di
esorcizzare
la
forza
dell’acqua,
senza
disdegnare
all’occorrenza
di
barattare
il
profano
con
il
sacro,
come
con
Giovanni
Battista
nel
cui
culto,
preferito
a
quello
di
Marte,
molti
cittadini
ricondurranno
i
motivi
della
disfatta
di
Firenze
(I'
fui
de
la
città
che
nel
Batista/mutò
il
primo
padrone;
ond’ei
per
questo/
sempre
con
l'arte
sua
la
farà
trista
-
Inferno
XIII).
Ingordigia,
giusta
punizione
o
incuria
e
inadeguato
intervento
degli
amministratori,
comunque
problemi
a
cui
non
è
facile
sopperire
con
preghiere
e
simulacri;
ma
nulla
pare
frenare
le
richieste
sempre
più
urgenti
di
una
viabilità
articolata
e
funzionale
alle
attività
industriali
e
commerciali.
A
testimonianza
della
prosperità
raggiunta,
sui
ponti
nascevano
botteghe
mentre
il
fiume
pullula
di
approdi,
pescaie,
mulini,
fulloniche
o
gualchiere.
Gualchiere
era
il
nome
delle
macchine
di
legno
che
servivano
per
pigiare
e
comprimere
i
panni;
con
lo
stesso
nome
si
chiamavano
le
barche
a
fondo
piatto
che
le
alloggiavano
e
gli
edifici
in
cui
si
effettuava
la
gualcatura
ovvero
un
procedimento
di
follatura
per
rendere
i
panni
compatti
e
impermeabili
per
mezzo
del
follone
che
li
pestava
mentre
erano
immersi
in
un
bagno
di
acqua,
sapone
e
altri
ingredienti,
come
l’urina,
per
ammorbidirli.
Gualchiere
e
mulini
spesso
coesistevano
nello
stesso
edificio
in
quanto
utilizzavano
le
stesse
strutture
per
sfruttare
l’acqua
del
fiume.
Il
rumore
e il
cattivo
odore
dovevano
essere
notevoli
se,
come
racconta
Antonio
Pucci,
il
Comune
decise
di
allontanarli
dalla
città,
ma
soprattutto
per
rispondere
all’accusa
che
da
più
parti
si
levava
di
essere
la
causa
delle
esondazioni,
avendo
frenato
il
libero
fluire
delle
acque,
ma
aggiunge
in
termini
netti
e
precisi
che
le
leggi
non
sono
fatte
per
essere
rispettate
se
gli
interessi
economici
sono
precipui.
Due
date
segnano
l’inizio
e la
fine
di
questa
prima
fioritura
di
Firenze:
il
1252,
data
del
conio
del
fiorino
d’oro
e il
1333
data
della
catastrofica
alluvione.
A
partire
dal
1341
tutte
le
banche
fiorentine
falliranno
e
Firenze
vivrà
un
periodo
di
decadenza
e di
fame:
alla
grave
crisi
economica
si
accompagnerà
la
carestia
del
1346
e la
conseguente
peste
del
1348.
Dalla
tragedia
causata
dall’alluvione
e
dagli
avvenimenti
che
di
lì a
poco
seguirono,
Firenze
si
risolleverà
solo
più
tardi,
per
conoscere
una
nuova
fioritura
che
la
farà
non
solo
fiorente,
ma
culla
del
Rinascimento.
I
nomi
delle
strade
cittadine
ancora
oggi
conservano,
in
una
minima
nomenclatura,
la
memoria
di
quelle
attività
e di
quelle
strutture
che
fecero
Firenze
grande.
Nomi
legati
alla
presenza
del
fiume
o
alle
antiche
manifatture
e ai
vecchi
mestieri
che
vi
si
svolgevano:
così
corso
tintori,
via
del
tiratoio,
via
dell’Arte
della
Lana,
via
delle
gore.
Dei
tiratoi
manca
completamente
la
traccia
in
quanto
sono
stati
trasformati
in
palazzi
o
teatri
o
sono
stati
demoliti
per
far
spazio
a
piazze.
Il
tiratoio
era
un
edificio
industriale
preposto
all’asciugatura
dei
panni
di
lana
dopo
le
operazioni
di
gualcatura,
lavaggio
o
tintura;
era
costruito
con
un
sistema
di
terrazze
e
spazi
vuoti,
ed
era
situato
secondo
la
direzione
dei
venti
in
quanto
destinato
all’asciugatura
delle
pezze.
Un
vecchio
tiratoio
occupava
l'intera
area
rettangolare
compresa
fra
l’attuale
piazza
Mentana
(allora
Piazza
d’Arno)
e
de’
Giudici
e
fra
via
dei
Saponai
e il
Lungarno
Diaz,
a
poche
decine
di
metri
da
Palazzo
Vecchio
e
dagli
Uffizi.
Le
vicine
via
dei
saponai,
via
dei
vagellai
e
corso
dei
tintori,
richiamano
infatti
alla
memoria
le
attività
dell’arte
della
lana.
I
tiratoi
erano
situati
in
città
in
quanto
le
stoffe
pregiate
e
costose
rischiavano
di
essere
rubate
e
pertanto
dovevano
essere
controllate
da
vicino;
la
loro
sistemazione
dipendeva
dalla
vicinanza
dei
corsi
d’acqua
necessari
per
smaltire
i
residui
della
tinteggiatura
e
dalla
presenza
in
quella
zona
di
venti
tali
da
poter
assicurare
l’asciugatura
dei
panni.
Come
ogni
struttura
idraulica
avevano
bisogno
di
una
serie
di
apparati
accessori
per
far
arrivare
l’acqua
alle
manifatture,
ovvero
canali
e
bacini
di
riserva,
detti
gore
(nella
toponomastica
fiorentina
via
delle
Gore
lungo
il
Terzolle),
che
servivano
per
alimentare
le
ruote
idrauliche
e
potevano
essere
in
muratura
o di
terra
battuta
rivestita
di
legno
e
pietra
per
assicurare
un
costante
afflusso
delle
acque.
Così
anche
le
pescaie,
come
quella
di
Santa
Rosa,
presso
il
Ponte
detto
nuovo
o
alla
Carraia,
fu
costruita,
assieme
a un
sistema
di
canali,
dai
frati
Umiliati
per
mantenere
l’acqua
a un
certo
livello,
anche
in
tempo
di
magra
del
fiume;
la
zona
sotto
il
profilo
geografico
infatti
si
prestava
alla
lavorazione
della
lana,
perché
all'altezza
della
Porta
alla
Carraia,
dove
il
torrente
Mugnone
sfociava
nell'Arno,
c'era
un'isoletta
che
formava
un
canale
utile
per
ricavare
l'energia
idraulica
per
mulini
e
gualchiere.
All’altezza
della
pescaia
di
S.
Rosa
si
dipartiva
dall’Arno
un
lungo
canale
che
corre
parallelo
al
Parco,
detto
oggi
delle
Cascine,
e
agli
ippodromi:
il
canale
era
chiamato
il
Fosso
macinante;
oggi
ne
resta
traccia
nell’omonima
strada
come
agli
ippodromi
resta
il
nome
delle
Mulina;
nei
nomi
ritroviamo
ancora
una
volta
una
traccia,
un
pezzo
di
storia:
il
fosso
macinante
infatti
si
chiamava
così
perché
lungo
il
suo
percorso
era
tutto
un
susseguirsi
di
ruote
di
mulino.
In
quei
nomi
si
legge
chiaramente
l’opera
di
un
sodalizio
che
ancora
oggi
continua:
l’Arno,
sebbene
non
d’argento,
con
le
sue
pigrizie
e
lentezze
o
con
le
sue
piene
un
po’
da
scavezzacollo
scriteriato,
insieme
ai
monumenti
e
alle
opere
dell’ingegno
e
della
creatività
umana,
con
i
ponti
e il
loro
artistico
abbraccio
tra
le
due
sponde,
regalano
ai
numerosissimi
visitatori
la
tangibile
visione
di
affascinanti
brandelli
di
storia
in
una
geografia
ancora
intatta,
lungo
quel
tratto
di
fiume
che
sin
dai
primordi
ha
contribuito,
e
non
poco,
a
costruire
tutti
i
fortunosi
eventi.