N. 122 - Febbraio 2018
(CLIII)
Ferdousì
SUl poeta classico dell’epopea iranica negli studi orientalistici
di Vincenzo La Salandra
Nato
a
Tus
nel
Khorasan,
presso
l’odierna
città
di
Mashhed,
nel
935
d.C.
e
morto
nel
medesimo
luogo
nel
1020,
Ferdousì
o
Firdusi,
grande
autore
aulico
persiano,
è il
maggiore
poeta
epico
della
Persia
musulmana,
grande
anello
di
congiunzione
con
tutta
la
tradizione
iranica
della
Persia
stessa.
Le
notizie
sulla
sua
vita
sono
piuttosto
vaghe
e
non
numerose:
il
suo
vero
nome
sarebbe
Abù
l-Qasim,
nome
di
penna
Ferdousì,
il
paradisiaco,
apparteneva
probabilmente
ad
una
famiglia
di
piccola
nobiltà
terriera,
quei
dihqàn
che
costituivano
la
vera
élite
sociale
e i
depositari
della
tradizione
poetica
e
religiosa
dell’antico
Iran.
È
importante
sottolineare
che,
dal
punto
si
vista
religioso,
l’islamizzazione
di
questa
classe
sociale
e
delle
masse
al
suo
seguito,
era
già
largamente
compiuta
e
capillarmente
estesa
nel
X
secolo
di
Ferdousì:
ed
infatti,
il
poeta
era
certamente
un
buon
musulmano,
ma
seppe
anche
raccogliere
e
trasmettere,
conferendo
loro
una
nuova
veste
islamica,
tutte
le
antiche
tradizioni,
le
storie
e i
personaggi
della
sua
cultura
millenaria.
Tutto
questo
materiale
formò
il
suo
poema
epico
Sciàhnàmè
o
Libro
dei
Re.
Per
quanto
riguarda
la
datazione
precisa
dello
Shàhnàmeh,
è lo
stesso
autore
ad
affermare
negli
ultimi
versi
del
suo
capolavoro
di
avere
ottanta
anni
e di
aver
terminato
il
poema
il
venticinquesimo
giorno
del
dodicesimo
mese
dell’anno
400
dell’egira,
corrispondente
al
venticinque
febbraio
del
1010
d.
C.
Così
è
probabile
fissare
la
data
di
nascita
del
poeta
al
930,
anche
se
queste
date
sono
in
contraddizione
con
altre
date
ricavabili
dal
poema;
la
data
più
probabile
della
sua
nascita
resterebbe
quindi
il
935/36.
La
leggenda
vuole
che
il
poeta
scrisse
il
suo
poema
dopo
aver
raggiunto
l’indipendenza
nella
sua
vita
piccolo-borghese
e
dopo
aver
intrapreso
con
passione
gli
studi
storici,
che
uniti
ad
un
forte
sentimento
nazionale
e
all’amore
per
la
poesia,
gli
fecero
ricercare
e
risistemare
le
tradizioni
epiche
della
patria
iranica.
Secondo
la
tradizione
Ferdousì
dedicò
è
donò
il
poema
nel
1010
d.
C. a
Mahmud
di
Ghazna,
sultano
turco
emergente
e
nuovo
campione
dell’Islàm
in
India
e
Asia
Centrale,
il
quale
avrebbe
promesso
una
moneta
d’oro
per
ciascuno
dei
60.000
mila
versi
composti
dal
poeta,
pare
tuttavia
che
Ferdousì
avesse
ricevuto
da
Mahmud
solo
60.0000
monete
d’argento
e
forse
nemmeno
quelle:
fatto
sta
che
il
nostro
poeta
cedde
in
disgrazia
presso
la
corte
di
Ghazna
e
decise
di
fuggire
per
vendicarsi,
ancora
e
sempre
in
versi,
con
una
sprezzante
elegia
contro
Mahmud
di
Ghazna,
sultano
ingeneroso
delle
Indie.
Secondo
altre
fonti
Ferdousì
avrebbe
speso
la
ricompensa
di
Mahmud
procurandosi
della
birra,
e
con
l’intero
ammontare
il
poeta
non
avrebbe
potuto
pagare
che
una
sola
bevuta.
Il
Bausani
aveva
lucidamente
evidenziato
l’importanza
di
Ferdousì
nella
sua
Letteratura
persiana,
partendo
dal
sentimento
nazionale
persiano:
“Ferdousì
è
dalle
moderne
generazioni
persiane
considerato
il
loro
Dante,
il
loro
più
grande
poeta.
Dubitare
della
grandezza
di
un
Hàfez
o di
un
Sa’dì
può
far
sorridere
un
persiano
di
commiserazione
per
il
cattivo
gusto
di
chi
fa
tali
affermazioni.
Dubitare
della
grandezza
di
un
Ferdousì
lo
offende.
Proprio,
forse,
perché
così
diverso
da
quella
che
è la
poesia
persiana
di
tutti
o
quasi
i
secoli
che
gli
succedettero
fino
ad
oggi,
proprio
perché
così
inaccessibile
esso
sembra
e
inimitabile
all’iranismo
attuale,
e
soprattutto
perché
ebbe
in
sorte
di
poetare
sui
grandi
della
Persia
antica,
seminascosti
in
una
nebbia
di
aureolata
perfezione,
i
Persiani
attuali
lo
considerano
il
simbolo
dell’iranismo,
il
padre
della
patria”.
In
italiano
lo
Sciàhnàmè,
il
Libro
dei
Re,
è
stato
tradotto
da
Italo
Pizzi
e
pubblicato
in
otto
volumi
da
Vincenzo
Bona
editore,
a
Torino
tra
il
1886
e il
1888:
la
traduzione
del
Pizzi
è in
endecasillabi,
ma
conserva
ancora
una
certa
freschezza
aulica,
in
ogni
caso
il
Pizzi
dedicò
appassionati
e
ludici
studi
all’epopea
persiana
e a
Ferdousì
in
particolare.
Prima
del
Pizzi
lo
Sciàhnàmè
o
Shàhnàmeh
di
Ferdousì
era
già
stato
tradotto
in
prosa
francese
da
Iulius
Mohl,
ed
edito
a
Parigi
in
sette
volumi
tra
il
1877
e il
1878;
la
traduzione
inglese
di
A.
G.
ed
E.
Warner,
pubblicata
a
Londra
in
vove
volumi
ed
in
versi
inglesi,
sarà
completata
tra
il
1904
e il
1924.
Per
sottolineare
la
centralità
del
Libro
dei
Re
nell’alveo
delle
opere
di
Ferdousì
sarà
utile
ricordare
alcune
frasi
di
Gino
Lupi,
che
scriveva
nel
1947
una
sintesi
biografica
sul
poeta:
“Il
nome
di
Firdusi
è
talmente
illustrato
dallo
Shàhnàmeh
che
le
opere
minori
finiscono
per
restare
nell’ombra.
Non
si
può
negare
però
l’importanza
del
poema
Yùsuf
u
Zalìkhà
e
per
il
suo
valore
intrinseco
e
per
aver
esso
costituito
il
punto
di
partenza
da
cui
derivò,
come
dalla
seconda
parte
dello
Shàhnàmeh,
il
poema
romantico
neopersiano.
Per
questo
Firdusi
non
conclude
un
tempo,
ma
inizia
tutta
un’epoca,
preannunciando
lo
spirito
del
mondo
persiano
rinnovantesi,
con
le
sue
caratteristiche
sensuali,
fiabesche,
avventurose
e
passionali,
contrastanti
con
la
didattica
moraleggiante
e il
senso
religioso.
Con
Firdusi
si
concluse
l’epica
eroica,
da
Firdusi
ebbe
origine
l’epica
romanzesca,
poichè
egli
seppe,
col
suo
grande
ingegno
e
più
ancora
col
suo
grande
spirito,
esprimere
l’anima
della
Persia
che
la
conquista
araba
aveva
per
sempre
spento
e
nello
stesso
tempo
comprendere
e
dare
una
voce
alla
nuova
Persia
trasformata
dal
contatto
col
mondo
arabo
musulmano”.
Italo
Pizzi,
Gino
Lupi,
Francesco
Gabrieli
e
Alessandro
Bausani
hanno
adattato
Ferdousì
e la
sua
poesia
alla
lingua
italiana
e
giungiamo
fino
alle
traduzioni
recenti
di
Gianroberto
Scarcia:
questi
studiosi
rappresentano
un
filone
di
interesse
orientalistico
italiano
di
pregio
e
quasi
di
lunga
durata.
Severo
e
leggermente
riduttivo
anche
se
concreto
il
giudizio
di
Francesco
Gabrieli,
che
concludeva
una
sua
voce
enciclopedica
sul
nostro
poeta
descrivendolo:
“Quasi
Giano
Bifronte,
egli
sta
all’inizio
della
nuova
letteratura
neopersiana,
e
conclude
a un
tempo
l’elaborazione
dell’epica
iranica
più
antica,
risalente
risalente
fino
alla
Avesta.
Della
sua
pratica
personalità
poco
sappiamo,
avvolta
com’è
dall’aneddotica
e
dalla
leggenda.
Traspare
comunque
una
figura
mite
e
buona,
ma
non
priva
di
un
forte
sentimento
del
suo
valore
poetico.
La
tenera,
dolorosa
elegia
per
un
figlio
premortogli
in
tenera
età
è
l’unico
spiraglio
che
ci
resta
sulla
sua
vita
intima,
e ci
conferma
la
pensosa
delicatezza
del
sentimento,
quale
emerge
emerge
anche
in
altri
episodi
del
suo
poema.
Senza
giungere
alla
inopportuna
parificazione
con
i
maggiori
geni
poetici
dell’umanità,
si
deve
vedere
in
Firdusi
una
nobile
tempra
di
artista,
e
una
simpatica
figura
d’uomo”.
Alessandro
Bausani
invece
ci
restituisce
un
più
equilibrato
giudizio,
anche
se
non
apologetico,
che
è
anche
una
fine
riflessione
sull’arte
e
sul
tempo:
“Se
per
la
generalità
dei
poeti
persiani
l’arte
è
soprattutto,
‘adornare
la
sposa
del
significato
con
il
velo
della
parola’,
oppure,
per
i
mistici
specialmente,
‘un
disvelare
le
realtà
nascostÈ
col
verso,
Ferdousì
ci
dice
invece
lui
stesso
quello
che
è
l’arte
per
lui:
risuscitare
a
vita
i
morti
al
pronunciarne
il
nome.
È
dovuto
forse,
questo
suo
sentimento
dell’arte
della
parola
come
magia
creatrice,
allo
speciale
compito
che
nel
grande
suo
poema
s’era
assunto,
quello
di
lottare
col
tempo,
il
grande
attore
del
poema,
per
far
rivivere,
in
un
tempo
nuovo
e da
lui
ricreato,
la
storia
degli
antichi
eroi
già
mitici.
Il
suo
poema
è,
quindi,
a
sua
stessa
confessione,
cosa
vivente
d’un
suo
tempo
proprio,
non
decorazione
né
cenno
al
mondo
delle
idee
trascendenti”.