N. 134 - Febbraio 2019
(CLXV)
Quando
la
storia
"non
insegna"
La fine del trattato "INF"
di
Gian
Marco
Boellisi
Negli
ultimi
mesi
si è
assistito
a
un
sistematico
smembramento
di
quello
che
è
stato
uno
dei
trattati
più
importanti
dell’ultimo
periodo
della
Guerra
Fredda:
il
trattato
INF
(Intermediate-Range
Nuclear
Forces
Treaty).
Siglato
l’8
dicembre
1987
tra
Ronald
Reagan
e
Michail
Gorbačëv,
ha
rappresentato
una
pietra
miliare
nella
diplomazia
per
quanto
riguarda
la
limitazione
del
dispiegamento
di
armi
nucleari
a
corto
e
medio
raggio
sul
suolo
europeo.
Oltre
ad
aver
fatto
la
storia,
ha
avuto
il
non
indifferente
merito
di
rendere
più
sicura
l’Europa
da
un
possibile
conflitto
tra
U.S.A.
e
U.R.S.S.
(o
Russia)
dalla
fine
degli
anni
‘80
in
poi.
Tuttavia,
come
possiamo
vedere
sempre
di
più
ogni
giorno
che
passa,
historia
non
è
più
ormai
magistra
vitae.
Nel
dettaglio,
gli
Stati
Uniti,
ed
in
particolare
il
loro
presidente
Trump,
hanno
cercato
in
tutti
i
modi
di
uscire
dal
trattato,
ponendo
accuse
di
violazione
dello
stesso
nei
confronti
della
Russia
ma
avendo
in
mente
un
altro
obiettivo
ben
preciso.
Andiamo
tuttavia
con
ordine
e
descriviamo
quella
che
fu
la
nascita
del
trattato
e le
cause
che
portarono
alla
sua
firma.
L’accordo
non
fu
altro
che
una
soluzione
diplomatica
alla
crisi
degli
euromissili
che
si
venne
a
creare
agli
inizi
degli
anni
‘80
in
Europa.
In
questo
periodo
il
cancelliere
tedesco
Helmut
Schmidt
manifestò
la
sua
preoccupazione
affermando
che
in
Europa
dell’Est
erano
stati
installati
missili
nucleari
sovietici
a
corto
e
medio
raggio,
i
quali
non
minacciavano
direttamente
gli
Stati
Uniti,
principale
nemico
dell’U.R.S.S.
ai
tempi,
ma
solo
gli
stati
europei
suoi
alleati
e
facenti
parte
della
NATO.
Ciò
denotava
una
forte
carenza
della
deterrenza
nucleare
americana
su
suolo
europeo,
poiché
non
in
grado
di
difendere
i
propri
alleati
in
caso
di
bisogno,
se
non
dopo
che
questi
fossero
già
stati
colpiti
dalle
testate
sovietiche.
L’assenza
di
missili
a
corto
e
medio
raggio
preoccupò
molto
gli
Stati
Uniti,
i
quali
non
persero
tempo.
Nel
gennaio
1979
il
consiglio
della
NATO,
su
proposta
di
Carter
e
Schmidt,
approvò
la
decisione
di
dislocare
missili
nucleari
a
media
gittata
su
suolo
europeo.
A
tale
scopo
furono
scelti
i
vettori
Cruise
BGM-109
Tomahawk
e
MGM-31
Pershing.
Il
numero
dei
missili
fu
scelto
essere
uguale
a
quello
degli
SS-20
sovietici
installati
in
Est
Europa.
Ciò
fu
fatto
per
perseguire
una
“politica
di
riequilibrio”,
ovvero
di
rialzo
qualora
i
sovietici
avessero
installato
ulteriori
missili
o di
ribasso
qualora
avessero
iniziato
uno
smantellamento
parziale
o
totale.
Questa
ennesima
prova
di
forza
tra
Stati
Uniti
e
Unione
Sovietica
durò
circa
10
anni,
periodo
durante
il
quale
si
ebbero
svariate
occasioni
di
tensione
ma
che
in
tutto
l’Occidente
svilupparono
un
forte
movimento
pacifista
più
consapevole
e
più
maturo
rispetto
a
quelli
creatisi
nei
decenni
passati
di
Guerra
Fredda.
I
primi
negoziati
tra
le
due
superpotenze,
le
quali
erano
ben
consce
che
gli
euromissili
alla
lunga
avrebbero
portato
le
relazioni
tra
i
due
blocchi
ad
un
deterioramento
costante,
avvennero
verso
la
fine
dell’epoca
Brežnev,
con
Ronald
Reagan
come
principale
interlocutore.
Le
trattative
andarono
avanti
per
qualche
mese
in
forma
segreta,
coinvolgendo
solamente
le
alte
sfere
dei
due
paesi
senza
che
né
l’opinione
pubblica
né
le
relative
amministrazioni
ne
fossero
a
conoscenza.
Tuttavia
il
tutto
si
tradusse
in
un
nulla
di
fatto,
sia
per
le
pressioni
interne
ai
due
blocchi
e
sia
per
la
difficoltà
a
gestire
l’opinione
pubblica.
Morto
Brežnev,
arrivarono
subito
dopo
Andropov
e
Černenko.
Di
certo
queste
due
personalità
non
sono
passate
alla
storia
tra
le
più
flessibili
a
capo
dell’Unione
Sovietica,
motivo
per
il
quale
le
trattative
furono
completamente
congelate
durante
i
loro
mandati
fino
a
data
da
destinarsi.
Come
si
può
intuire,
non
fu
lo
stesso
con
il
loro
successore.
L’arrivo
di
Gorbačëv
portò
una
ventata
di
cambiamento
mai
vista
prima
ai
vertici
sovietici.
Egli
stesso
tentò
sin
da
subito
di
trovare
un
terreno
d’incontro
ampio
e
condiviso
con
le
controparti
americane
per
cercare
di
raggiungere
il
compromesso.
Dopo
svariati
tentativi
l’11
ottobre
1986
i
delegati
di
Stati
Uniti
e
U.R.S.S.
si
incontrarono
a
Reykjavík
per
un
vertice
preliminare
per
poi
firmare
la
versione
definitiva
e
condivisa
dell’Intermediate-Range
Nuclear
Forces
Treaty
l’8
dicembre
1987.
L’importanza
e la
forza
di
questa
intesa
fu
uno
dei
primi
segnali
concreti
del
cambio
di
direzione
da
parte
della
dirigenza
dell’U.R.S.S.
Il
contenuto
del
trattato
fu
rivoluzionario
di
per
sé.
Infatti
esso
imponeva
alle
due
superpotenze
un
grande
controllo
sugli
armamenti
nucleari,
tanto
da
non
imporre
di
ridurle
o
ritirarle,
ma
di
smantellarle
in
toto.
Si
calcola
che
dal
1987
al
1991
circa
2700
testate
nucleari
furono
smantellate
dai
due
blocchi.
Inoltre,
evento
più
unico
che
raro,
l’Unione
Sovietica
accettò
un’importante
serie
di
ispezioni
internazionali
sul
proprio
territorio
per
verificare
l’effettivo
adempimento
del
trattato.
Tutte
queste
aperture
del
blocco
Est
possono
essere
lette
come
una
diretta
conseguenza
del
progressivo
deterioramento
del
Patto
di
Varsavia
e
l’incipit
della
linea
politica
che
Michail
Gorbačëv
avrebbe
adottato
negli
anni
successivi
con
la
Perestrojka.
Da
allora
il
trattato
è
rimasto
in
vigore
fino
ai
giorni
nostri.
O
meglio,
fino
a
pochi
giorni
fa.
Nel
tempo
vi
sono
state
varie
accuse
reciproche
tra
Stati
Uniti
e
Russia
inerenti
alla
violazione
del
trattato
INF.
Infatti,
nonostante
la
fine
della
Guerra
Fredda,
entrambi
gli
stati
hanno
continuato
la
propria
ricerca
militare
in
ambito
missilistico
sviluppando
nuove
tipologie
di
armamenti.
Che
questi
rispettassero
i
vincoli
imposti
dall’INF
nessuno
può
dirlo.
Negli
ultimi
anni,
in
particolare
durante
l’amministrazione
Obama,
le
accuse
verso
la
Russia
sono
aumentate,
fino
a
giungere
ai
giorni
nostri
con
l’amministrazione
Trump.
E
qui
ha
inizio
la
tragedia.
Il
20
ottobre
2018
Trump
ha
pubblicamente
dichiarato
di
voler
uscire
dal
trattato
a
causa
delle
ripetute
violazioni
da
parte
della
Federazione
Russa
nel
corso
degli
anni
dell’INF
e
che
queste
violazioni
costringevano
gli
Stati
Uniti
a
reagire
fermamente.
Ovviamente
le
reazioni
della
comunità
internazionale
sono
state
di
grande
sgomento
e
preoccupazione,
essendo
il
trattato
ormai
considerato
una
pietra
miliare
per
la
regolamentazione
delle
armi
nucleari
tra
i
due
stati.
In
risposta
a
queste
affermazioni,
il
26
ottobre
2018
la
Russia
ha
presentato
presso
le
Nazioni
Unite
una
mozione
per
confermare
i
termini
del
trattato
e
rafforzarne
le
clausole
al
posto
di
cancellarlo
del
tutto.
Inutile
dirlo,
la
mozione
è
stata
respinta
al
Consiglio
di
Sicurezza.
A
ciò
è
seguito
l’intervento
del
consigliere
per
la
sicurezza
nazionale
statunitense
John
R.
Bolton,
il
quale
ha
affermato
che
il
trattato
è
una
reliquia
della
Guerra
Fredda
e
che
ne
servirebbe
uno
nuovo
per
affrontare
le
nuove
minacce
globali.
Sa
tanto
di
scusa,
ma,
come
disse
il
sommo
poeta,
“Ai
posteri
l’ardua
sentenza”.
Il
20
novembre
Vladimir
Putin
ha
affermato
nuovamente
di
voler
ridiscutere
i
termini
dell’INF
con
gli
Stati
Uniti,
tuttavia
ha
anche
avvertito
che
qualora
questi
uscissero
dal
trattato
vi
sarebbe
stata
una
adeguata
ritorsione.
Un
clima
da
Guerra
Fredda
puro.
Il
30
gennaio
2019
delegati
delle
due
nazioni
si
sono
incontrati
in
un
summit
per
discutere
della
questione,
tuttavia
fallendo
gli
incontri
e
giungendo
ad
un
nulla
di
fatto.
La
mossa
finale
è
stata
degli
Stati
Uniti,
i
quali
il 2
febbraio
2019
sono
ufficialmente
usciti
dal
trattato
INF.
Ovviamente
la
reazione
di
Mosca
non
si è
fatta
attendere,
ed
il
giorno
successivo
anche
la
Russia
ha
sospeso
il
trattato
annunciando
l’avvio
delle
sperimentazioni
e
della
produzione
di
un
nuovo
missile
nucleare
supersonico
in
risposta
all’annuncio
di
Trump
di
riprendere
la
produzione
di
missili
proibiti
dall’accordo
appena
rescisso.
Al
momento
Washington
e
Mosca
sono
arroccate
entrambe
sulle
proprie
posizioni,
non
disposte
in
alcun
modo
a
venire
a
patti
tra
loro.
Il
presidente
Putin
ha
affermato
tuttavia
che
non
schiererà
i
propri
missili
in
Europa
a
meno
che
gli
Stati
Uniti
non
lo
facciano
per
primi.
Sembrerebbe
uno
spiraglio
di
speranza,
ma
con
Trump
presidente
è
molto
difficile
fare
previsioni
di
alcuna
sorta.
Ovviamente
all’annuncio
della
fine
del
trattato
tutta
la
comunità
internazionale
ha
manifestato
la
propria
disapprovazione.
Anche
all’interno
del
Congresso
le
voci
di
dissenso
non
sono
state
poche.
Lo
stesso
Gorbačëv
ha
affermato
che
tale
decisione
“non
è il
risultato
di
una
grande
mente”,
vedendo
il
proprio
lavoro
distrutto
nell’arco
di
pochi
mesi.
Vale
la
pena
tuttavia
interrogarsi
sulle
ragioni
ultime
che
hanno
portato
Trump
ad
uscire
dall’INF.
Sicuramente
la
Russia
è
stato
uno
dei
motivi,
ciò
nonostante
si
ritiene
che
la
ragione
principale
sia
stata
la
Cina.
Pechino
allo
stato
attuale
non
è
uno
dei
firmatari
del
trattato,
il
che
lascia
mano
libera
al
dragone
asiatico
di
comportarsi
come
vuole
in
merito
alla
propria
politica
nucleare.
Si
stima
che
la
Repubblica
Popolare
Cinese
abbia
circa
400
testate
nucleari,
ma
nessuno
può
dirlo
con
certezza.
Gli
Stati
Uniti
hanno
visto
il
proprio
potere
di
ritorsione
nucleare
danneggiato
nel
corso
degli
anni
dagli
accordi
del
1987,
e
quindi
hanno
colto
semplicemente
la
palla
al
balzo.
Alcuni
generali
americani
hanno
affermato
che
per
mantenere
in
vita
l’INF
si
doveva
includere
la
Cina
nel
trattato.
In
caso
contrario
l’uscita
era
una
scelta
obbligata
così
da
conferire
all’America
la
libertà
necessaria
per
potersi
armare
adeguatamente
e
poter
tenere
testa
a
Pechino.
Guardando
i
fatti
per
quello
che
sono,
portare
la
Cina
all’interno
del
trattato
sarebbe
stato
impossibile.
In
primis
perché
non
avrebbe
mai
acconsentito
a
farsi
mettere
deliberatamente
un
siffatto
guinzaglio
diplomatico,
ed
in
secondo
luogo
inserire
la
Cina
in
tali
accordi
avrebbe
complicato
le
relazioni
con
le
confinanti
potenze
nucleari,
ovvero
Pakistan
ed
India.
Una
situazione
decisamente
complessa,
in
cui
scacchieri
regionali
ed
internazionali
si
intrecciano
senza
vedere
dove
inizia
l’uno
e
finisce
l’altro.
In
conclusione,
il
futuro
inerente
agli
armamenti
nucleari
è
oggi
incerto
più
che
mai.
Nonostante
Trump
continui
ad
affermare
che
gli
Stati
Uniti
siano
usciti
dal
trattato
per
dei
recenti
test
missilistici
russi,
ai
quali
la
Russia
aveva
chiesto
alle
Nazioni
Unite
e ad
osservatori
occidentali
di
venire
a
parteciparvi
per
mostrare
la
conformità
di
tali
test
all’INF
(richiesta
ovviamente
ignorata),
il
sospetto
che
il
vero
obiettivo
americano
sia
stata
la
Cina
diviene
sempre
più
una
certezza.
La
Cina
ora
è il
nuovo
nemico,
e a
Washington
lo
si
sta
capendo
ogni
giorno
di
più.
Prima
la
guerra
commerciale,
ora
il
gioco
della
deterrenza
nucleare.
Si
sta
assistendo
ad
una
rilettura
del
copione
della
Guerra
Fredda,
solamente
con
protagonisti
diversi.
Qualora
si
voglia
veramente
regolare
il
numero
di
testate
nucleari
a
corto
e
medio
raggio
si
devono
mettere
tutte
le
potenze
nucleari
al
tavolo,
ovvero
Stati
Uniti;
Russia;
Regno
Unito;
Francia;
Cina;
India;
Pakistan;
Israele,
Nord
Corea.
Fino
a
quando
solo
alcuni
di
questi
attori
parleranno
non
includendo
gli
altri
si
adotteranno
soluzioni
a
breve
termine
e
nulla
di
veramente
concreto.
La
parte
peggiore
è
che
con
la
situazione
attuale
l’Europa
potrebbe
tornare
ad
essere
in
pericolo,
essendo
l’obiettivo
della
strategia
nucleare
delle
varie
superpotenze
a
capo
dei
giochi
oggi.
Questa
volta
però,
non
saranno
solamente
Mosca
e
Washington
a
giocare.