N. 112 - Aprile 2017
(CXLIII)
Forse,
PER
L'EGITTO,
la
primavera
è
finitA
storie
sul
nilo,
6
anni
dopo
di
Gian
Marco
Boellisi
Per
l’Egitto
lo
scorso
24
marzo
si è
chiuso
un
cerchio.
Hosni
Mubarak,
l’ex-presidente
rimasto
per
trent’anni
ai
vertici
del
potere
egiziano
e
cacciato
via
dalle
sommosse
popolari
della
cosiddetta
primavera
araba,
è
stato
rilasciato
dall’ospedale
militare
di
Maadi,
dove
era
detenuto
dal
2011.
Per
coloro
che
hanno
manifestato
e
lottato
nelle
strade
del
Cairo
ed
in
tutto
l’Egitto,
questo
risulta
essere
solo
l’ultimo
di
una
catena
di
eventi
che
stanno
portando
il
paese
sempre
più
lontano
rispetto
a
quegli
obiettivi
che
si
era
preposto
all’alba
di
quell’11
febbraio,
data
in
cui
il
vecchio
regime
era
stato
deposto
con
le
dimissioni
dello
stesso
presidente.
Per
un’altra
parte
del
paese
invece,
questo
risulta
essere
un
segno
di
rinascita,
dato
che
sempre
più
il
vecchio
governo
viene
visto
come
una
vecchia
età
dell’oro,
dove
le
incertezze
politiche
e la
crisi
economica
non
erano
altro
che
parole
riportate
solamente
sulle
testate
straniere.
Cerchiamo
prima
però
di
inquadrare
quella
che
è la
situazione
attuale
dell’Egitto
e
soprattutto
il
passato
dell’era
Mubarak
dal
quale
proviene.
Hosni
Mubarak
diviene
formalmente
presidente
dell’Egitto
nel
1981,
in
seguito
all’assassinio
da
parte
di
fondamentalisti
islamici
del
suo
predecessore
nonché
amico
Anwar
al-Sadat.
Proveniente
da
una
formazione
militare
nell’aviazione
e
uomo
di
grande
spessore
politico,
Mubarak
riuscì
a
prendere
le
redini
del
potere
in
maniera
decisa
e
celere.
Effettuando
svariate
riforme
interne
e
optando
per
una
politica
di
coesistenza
pacifica
verso
i
vicini,
con
Israele
in
particolare,
Mubarak
riuscì
a
garantirsi
un
forte
consenso
da
parte
dei
suoi
concittadini
nel
primo
decennio
della
sua
presidenza.
Tuttavia,
nonostante
le
successive
rielezioni,
il
continuo
mantenimento
della
legge
marziale
sin
dai
tempi
dell’assassinio
di
Sadat,
permise
al
governo
di
esercitare
un
potere
incontrastato
verso
i
mezzi
di
stampa
e
soprattutto
contro
gli
oppositori
politici.
Forte
dell’esplicito
sostegno
degli
Stati
Uniti,
interessati
alla
posizione
strategica
egiziana
all’interno
del
calderone
mediorientale
(un
motivo
fra
tutti,
il
Canale
di
Suez),
Mubarak
è
riuscito
a
mantenere
il
controllo
del
proprio
Paese,
cercando
di
protrarre
il
più
a
lungo
possibile
il
proprio
potere
e di
ridurre
al
minimo
il
dissenso
popolare
con
atti
di
riforma
simbolici
e
puramente
ininfluenti
dal
punto
di
vista
pratico.
Nel
2011
però
neanche
l’Egitto
non
può
rimanere
impermeabile
a
ciò
che
succede
nel
mondo
arabo.
In
seguito
all’ondata
di
proteste
che
noi
oggi
conosciamo
come
primavera
araba,
Mubarak
fu
soggetto
a
pressioni
sia
interne
che
esterne,
le
quali
chiedevano
all’ormai
trentennale
presidente
solo
una
cosa:
le
dimissioni.
Ciò
che
ne
seguì
furono
sanguinosi
scontri
di
piazza
e
giorni
di
forti
tensioni
in
tutto
il
paese.
Un
paese
sull’orlo
della
guerra
civile,
diviso
tra
i
fedeli
al
vecchio
presidente
e
coloro
che
avrebbero
voluto
fare
un
passo
avanti,
lasciandosi
questa
esperienza
alle
spalle.
L’11
febbraio
2011
arrivò
la
notizia
in
piazza
Tahrir
che
Hosni
Mubarak
aveva
rassegnato
le
dimissioni,
estinguendo
quello
che
sarebbe
potuto
divenire
un
focolare
di
dimensioni
bibliche.
In
seguito
agli
eventi
di
quei
mesi,
Mubarak
fu
chiamato
a
rispondere
di
fronte
alla
giustizia
egiziana
dei
morti
di
quei
giorni
e di
numerose
altre
accuse,
comprese
alcune
imputazioni
per
corruzione.
A
parte
il
primo
periodo
post-rivoluzione,
in
cui
probabilmente
la
volontà
di
punire
l’ex-presidente
era
sincera
e
fondata,
con
il
passare
degli
anni
si è
assistito
sempre
più
ad
una
costante
attenuazione
dei
toni,
fino
all’assoluzione
da
tutte
le
accuse
di
questo
mese.
Complice
di
questo
cambiamento
di
atmosfera
sarà
stato
sicuramente
l’avvicendamento
avvenuto
ai
vertici
del
governo
egiziano,
con
l’avvento
iniziale
di
Morsi,
rappresentante
dei
Fratelli
Musulmani,
ovvero
di
una
delle
fazioni
che
più
hanno
voluto
la
destituzione
del
vecchio
faraone.
In
seguito
all’arresto
di
Morsi
a
causa
della
sua
evidente
quanto
preoccupante
deriva
islamista
e
alla
conseguente
discesa
in
campo
dei
militari,
i
quali
sono
sempre
stati
i
detentori
del
vero
potere
in
Egitto,
è
arrivato
l’attuale
presidente
al-Sisi.
Questi
ha
sempre
esplicitamente
ringraziato
e
visto
con
ammirazione
gli
eventi
che
portarono
alla
cacciata
del
vecchio
regime.
Tuttavia
con
il
passare
del
tempo
e
delle
leggi,
sempre
più
il
suo
governo
assumeva
i
connotati
di
quel
vecchio
status
quo
tanto
ripudiato.
Limitazioni
alla
libertà
di
stampa,
intimidazione
degli
avversari
politici,
restrizioni
verso
gli
oppositori:
il
pacchetto
è
onnicomprensivo.
Con
questo
cambio
di
rotta,
e
soprattutto
con
la
constatazione
che
le
primavere
arabe
non
hanno
portato
ai
risultati
voluti,
anche
le
vicende
giudiziarie
di
Mubarak
hanno
cambiato
direzione.
Un
esempio
fra
tutti:
nel
2012
viene
condannato
all’ergastolo
per
i
morti
delle
proteste,
ma
la
corte
di
cassazione
dichiara
nullo
il
processo,
il
quale
deve
essere
rifatto
da
capo.
Nel
2014
per
lo
stesso
processo
viene
assolto
sia
dall’accusa
di
omicidio
sia
da
quella
di
corruzione.
Dopo
diverse
assoluzioni,
nel
2015
arriva
la
condanna
per
l’ex-presidente
e i
due
figli
Alaa
e
Gamal
per
malversazione
per
il
periodo
tra
il
2002
ed
il
2011,
emettendo
la
pena
di
tre
anni
di
detenzione
e
125
milioni
di
sterline
egiziane
(circa
6.375.000
euro)
da
versare
allo
stato.
Tuttavia
i
giudici
hanno
accolto
la
richiesta
di
rilascio
in
virtù
della
pena
già
scontata.
Infatti
il
presidente
è
confinato
nell’ospedale
militare
di
Maadi,
a
fasi
alterne,
sin
dalle
sue
dimissioni
nel
2011.
L’epitaffio
definitivo
alle
vicende
giudiziarie
del
faraone
viene
messa
questo
3
marzo,
quando
la
corte
di
cassazione
assolve
definitivamente
Mubarak
per
tutte
le
accuse
di
omicidio
relative
al
periodo
delle
manifestazioni,
riconoscendogli
solo
la
colpa
di
aver
fornito
all’esercito
armi
e
veicoli
usati
negli
scontri,
e
quindi
dando
il
nullaosta
per
il
suo
rilascio.
Questa
inversione
di
rotta
deve
essere
vista,
oltre
come
un
parziale
ritorno
sulla
vecchia
via,
anche
come
una
ricerca
di
punti
di
riferimento.
È
bene
ricordare
che
l’Egitto
versa
in
uno
stato
di
crisi
profonda,
con
una
svalutazione
della
sterlina
egiziana
spropositata
e
l’allontanarsi
sempre
più
di
investimenti
stranieri.
Persa
per
sempre
la
sfera
d’influenza
statunitense,
il
Cairo
ormai
guarda
a
riferimenti
diversi,
quali
la
Russia
di
Putin
e la
Cina
di
Xi
per
affrontare
le
sfide
future.
Ora
più
che
mai,
gli
egiziani
si
trovano
in
un
grave
stato
di
difficoltà
economica,
politica
e
sociale.
E
molti
di
loro
rimpiangono
non
poco
quelli
che
furono
i
tempi
in
cui
Mubarak
costruiva
case
popolari
e
abbatteva
i
costi
dell’energia.
Il
periodo
in
carcere
di
Mubarak,
se
carcere
si
può
definire
una
stanza
di
ospedale
con
vista
sul
Nilo
ben
lontana
dagli
standard
egiziani,
è
sempre
maggiormente
visto
come
una
questione
politica,
e
non
più
giuridica.
Questa
la
dice
lunga
sul
sentimento
egiziano
sulla
questione.
Molti
definiscono
questa
scarcerazione
l’ultimo
passo
verso
una
completa
“Restaurazione”,
se
non
in
termini
concretamente
politici
quanto
meno
ideologici.
E di
fatto
forse
lo
è,
considerando
che
nessuna
delle
figure
che
ha
acquisito
potere
sotto
la
presidenza
Mubarak
è ad
oggi
in
carcere.
Come
per
tutte
le
altre
primavere
arabe,
in
Egitto
i
movimenti
e le
sommesse
di
ormai
6
anni
fa
non
hanno
ottenuto
i
risultati
sperati.
Il
paese
è
lontano
ancora
anni
luce
da
quelle
riforme
di
cui
avrebbe
disperatamente
bisogno
e da
quella
stabilità
politica
per
cui
ha
tanto
lottato.
Tuttavia
i
morti
e
gli
slogan
di
quei
giorni
non
dovrebbero
essere
dimenticati
con
tanta
facilità,
e la
promessa
di
un
ritorno
ad
un
passato
ameno,
o
presunto
tale,
non
deve
tentare
il
popolo
egiziano
a
guardare
indietro
verso
modelli
ormai
inconsistenti
con
l’epoca
attuale,
ma
piuttosto
a
guardare
avanti
verso
il
futuro
che
questo
meraviglioso
popolo
sa
di
meritare.