N. 34 - Ottobre 2010
(LXV)
crollo fascista
sulla fine politica di mussolini
di Gennaro Tedesco
La guerra di Etiopia,
voluta
da
Mussolini
soprattutto
per
motivi
di
prestigio,
fu
il
momento
di
massimo
consenso
al
regime
fascista.
Ma se questo è vero, è
anche
vero
che
il
conflitto
etiopico
dimostra
i
legami
del
fascismo
con
la
grande
industria
in
quanto
quella
campagna
militare
condotta
in
Africa
non
fa
altro
che
gli
interessi
della
grande
industria
che
ne
ricava
enormi
profitti
vendendo
al
regime
tonnellate
di
materiale
bellico.
Il primo indebolimento
della
dittatura,
d’altra
parte,
viene
proprio
dalla
guerra
d’Etiopia
che
sembrava
dovesse
rafforzare
il
regime.
Infatti
il
duce
che
più
volte
aveva
dichiarato
pubblicamente
che
mai
avrebbe
permesso
ai
tedeschi
l’occupazione
e
l’annessione
dell’Austria
(si
pensi
alle
dichiarazioni
di
Mussolini
dopo
la
morte
del
cancelliere
austriaco
Dollfuss),
dopo
l’intervento
italiano
a
fianco
dei
tedeschi
nella
guerra
di
Spagna
e
dopo
che
le
sanzioni
economiche
lo
avevano
avvicinato
ancor
di
più
al
nazismo,
non
fa
nulla
e
non
si
muove
affatto,
quando
Hitler,
approfittando
della
guerra
d’Etiopia,
delle
conseguenze
negative
che
essa
comportava
per
il
fascismo
e
del
fatto
che
in
quella
situazione
il
dittatore
italiano
non
poteva
certo
mobilitare
truppe
ai
confini
dell’Austria,
decide
l’invasione
dell’Austria.
Per il fascismo è quasi
la
fine
di
un
sogno,
certamente
la
fine
di
quel
sogno
di
prestigio
che
il
regime
aveva
rincorso
per
tanto
tempo
e
che
forse
aveva
conquistato
molti
italiani
che
pure
aderenti
al
fascismo
non
lo
erano
mai
stati.
Inoltre
la
gente
in
Italia
non
poteva
comprendere
il
motivo
dell’intervento
fascista
in
Spagna
anche
se
esso
non
era
ufficiale,
perché
tanti
italiani
dovessero
andare
a
morire
in
una
guerra
non
sentita,
non
voluta,
così
lontana
e
così
estranea.
Molti già da allora cominciavano
a
capire
la
vera
natura
del
fascismo.
Le
leggi
razziali
antiebraiche
del
’36
accentuarono
il
distacco
di
molti
di
quei
“borghesi”
su
cui
si
era
appoggiato
il
movimento
fascista
per
la
conquista
del
potere.
Lo stesso Vaticano prese
posizione
contro
queste
leggi.
Lo
stesso
Mussolini
un
tempo
aveva
affermato
che
mai
le
avrebbe
applicate
in
Italia:
il
cambiamento
d’opinione
al
riguardo
confermava
agli
occhi
degli
italiani
la
subordinazione
in
cui
ormai
si
trovava
il
duce
rispetto
ad
Hitler.
Nell’ottobre 1936 c’era
stato
“l’asse
Roma-Berlino”
in
conseguenza
delle
sanzioni,
il 7
maggio
Mussolini
annuncia
“il
patto
d’acciaio”.
A conferma dell’antipatia
antitedesca
che
regna
in
Italia
si
dice
ci
siano
stati
a
Milano
delle
dimostrazioni
contro
questo
accordo.
Un abisso si spalanca
tra
il
regime
e
gli
italiani
quando
Mussolini
decide
di
entrare
in
guerra
a
fianco
dei
tedeschi.
A
questo
proposito
si
sono
dette
tante
cose:
certo
è
che
era
impossibile
e
comunque
da
escludere
che
il
duce
non
sapesse
delle
reali
condizioni
in
cui
si
trovava
il
Paese.
Ancora una volta il dittatore
vuole
giocare
d’azzardo:
si
tratterà
di
una
breve
passeggiata
militare
a
cui
l’Italia
contribuirà
insieme
ai
nazisti
con
qualche
migliaio
di
vittime
accaparrandosi
poi
i
frutti
della
vittoria.
Il Paese entra in guerra
completamente
impreparato:
l’industria
bellica
non
può
sopperire
ai
bisogni
di
un’altra
guerra
non
solo
perché
le
precedenti
condotte
dal
fascismo
l’hanno
quasi
prostrata
ma
anche
perché
il
tenore
tecnologico
è
molto
basso
e
comunque
molto
inferiore
a
quello
tedesco.
Anche
l’agricoltura
è in
crisi
grazie
alla
insostenibile
politica
autarchica
del
regime.
Come recentemente confermato
in
un
libro
dal
titolo
“Fascismo
e
capitalismo”,
i
vertici
militari
che
avrebbero
dovuto
guidare
il
Paese
in
guerra
erano
in
un
completo
marasma
dovuto
in
gran
parte
allo
stesso
duce.
Le
condizioni
della
popolazione
che
già
con
gli
accordi
di
Monaco
aveva
manifestato
la
sua
totale
avversione
alla
guerra
erano
disperate.
“Negli ultimi dieci anni
il
salario
orario
dei
lavoratori
si
era
ridotto
del
3
per
cento
e il
totale
della
calorie
pro-capite
era
sceso
da
2806
a
2723,
segno
che
il
popolo
aveva
avvertito
le
conseguenze
delle
avventure
militari
di
Mussolini
e
che
il
suo
tenore
di
vita
si
stava
pericolosamente
avvicinando
ai
minimi
vitali.”
Dopo un primo periodo di
vittorie,
la
guerra
volge
a
sfavore
delle
forze
italo-tedesche.
Le
sconfitte
in
Grecia,
in
Albania,
in
Africa
mettono
a
nudo
le
deficienze
incredibili
dell’apparato
bellico
fascista.
Insomma, la guerra è un
vero
e
proprio
disastro.
Cominciarono
nel
’43
i
bombardamenti
su
Roma
e lo
sbarco
in
Sicilia.
Per
l’Italia
è
ormai
la
fine.
“Il
morale
della
popolazione
era
sempre
più
depresso,
le
razioni
sempre
più
scarse,
i
bombardamenti
sulle
città
sempre
più
frequenti
e
più
rovinosi.
Il
peso
della
guerra
gravava
soprattutto
sulle
classi
meno
abbienti.
Dal
1939
al
1943
il
costo
della
vita,
nonostante
razionamenti
e
calmieri,
era
salito
da
un
indice
22 a
164,
mentre
l’indice
dei
salari
per
lo
stesso
periodo
era
sceso
da
90 a
80.
Il
disinteresse
per
l’andamento
della
guerra
era
sempre
più
diffuso,
sfuggire
ai
bombardamenti,
trovare
il
necessario
ad
integrare
le
razioni
di
fame,
in
una
parola
sopravvivere
diventava
la
preoccupazione
principale
d’ognuno.”
Ma come si presenta la
situazione
agli
occhi
della
classe
dirigente?
Mussolini stesso si rende
conto
probabilmente
che
la
partita
per
l’Italia
è
chiusa.
Gli
industriali
che
mai
avevano
cessato
di
intrattenere
rapporti
d’affari
con
gli
alleati
(basti
qui
ricordare
la
FIAT
che
aveva
filiali
intatte
in
America)
avvertono
per
primi
la
necessità
di
mettersi
al
sicuro
abbandonando
il
fascismo
e
Mussolini,
per
puntare
a un
accordo
con
i
partiti
antifascisti
e
gli
alleati.
I
vertici
militari
e
amministrativi
rimangono
fedeli
al
re e
alla
corte.
Al re da più parti si
fanno
pressioni
affinché
convinca
Mussolini
ad
abbandonare
i
tedeschi:
come
se
Hitler
lo
avesse
impunemente
permesso.
Un
tentativo
del
generale
Ambrosio
e di
alcuni
fascisti
di
convincere
Mussolini
a
parlare
chiaro
a
Hitler
non
ottenne
alcun
risultato.
Nel frattempo nel nord a
marzo
del
’43
c’erano
stati
parecchi
scioperi
soprattutto
a
Milano
e
Torino
da
cui
erano
partiti.
“Nonostante le agitazioni
sindacali
si
fossero
già
avute
nell’estate
precedente,
per
le
loro
dimensioni
e il
loro
significato
gli
scioperi
di
marzo
potevano
essere
considerati
la
prima
aperta
manifestazione
contro
la
guerra
e
contro
il
fascismo,
segnando
dopo
molti
anni
di
assenza,
il
ritorno
dell’opposizione
organizzata
contro
il
regime.
La
giustificazione
ufficiale
degli
scioperi
era
la
richiesta
di
aumenti
salariali
resi
urgenti
dall’alto
costo
della
vita,
ma
il
loro
reale
obiettivo
era
politico.
Gli
scioperi
erano
stati
preceduti
da
una
intensa
azione
di
propaganda
impostata
su
rivendicazioni
sindacali
e su
una
tematica
politica
contro
Mussolini
e la
guerra.
Essa
era
stata
svolta
da
un
piccolo
gruppo
di
agitatori
(non
più
di
una
ottantina
sui
20000
operai
della
FIAT
Mirafiori)
appartenenti
all’organizzazione
clandestina
del
partito
comunista
che
dopo
la
graduale
riduzione
dell’opposizione
organizzata
al
regime
era
tra
i
partiti
antifascisti
il
primo
a
riaccenderla.
Da
Torino
dove
in
pochi
giorni
riusciva
a
coinvolgere
ben
100000
operai
il
moto
si
sposterà
a
Milano
dove
gli
operai
della
Pirelli,
della
Falk
e
della
Marelli
il
24
marzo
entravano
in
sciopero.”
Il governo, non potendo
intervenire
con
la
forza,
dovette
piegarsi
alle
richieste
degli
scioperanti.
Lo
stesso
Churchill
aveva
affermato
che
Mussolini
era
l’unico
responsabile
della
guerra.
Quindi
il
gruppo
dirigente,
gli
industriali
e il
re
credevano
che,
eliminato
Mussolini,
si
sarebbe
potuto
patteggiare
con
gli
alleati
più
vantaggiosamente.
Non dimentichiamo che i
vertici
militari
stavano
tutti
dalla
parte
del
re.
D’altra
parte
Churchill
e la
corona
inglese
volevano
che
fosse
la
monarchia
a
portare
l’Italia
fuori
dalla
guerra
e
che
questa
istituzione
rimanesse
anche
dopo.
Forte di questi appoggi,
il
re
prepara
il
piano
per
eliminare
Mussolini
e
sostituirgli
Badoglio,
suo
servitore
fedele.
È qui che entrano in
scena
i
partiti
che,
come
si
vedrà,
non
ebbero
alcun
peso
nell’eliminazione
di
Mussolini.
“Anzitutto non bisogna
dimenticare
che
i
partiti
soppressi
uno
dopo
l’altro
dalla
legge
di
PS
del
6
novembre
1926
(la
quale
lascerà
sussistere
solo
il
partito
unico,
il
partito
fascista)
vivono
un’esistenza
clandestina,
non
possono
agire
che
clandestinamente.”
Una prima intesa, ma
limitata,
c’era
stata
tra
tre
partiti
dello
antifascismo
di
sinistra
all’estero:
il
partito
comunista,
il
promotore
dell’intesa,
i
socialisti
e
gli
azionisti.
Tra i partiti dell’antifascismo
l’unico
che
sia
riuscito
a
mantenere
centri
clandestini
in
Italia
è il
partito
comunista
a
prezzo
di
gravissime
perdite
umane.
Infatti
fino
ai
primi
anni
trenta
il
centro
comunista
di
Parigi
dove
si
erano
rifugiati
i
dirigenti
del
PCI
era
riuscito
a
tenere
collegamenti
e
cellule
a
costo
di
gravi
sacrifici,
ma
dopo
gli
anni
trenta
l’OVRA,
la
polizia
politica
fascista
smantellava
l’organizzazione
comunista.
Il
PCI
usciva
dalla
politica
del
Socialfascismo
e
all’interno
del
Komintern
partecipò
alla
guerra
di
Spagna
iniziando
così
la
resistenza
al
fascismo.
Come il Pd’A e i socialisti,
era
per
un
rinnovamento
completo
dello
stato
prefascista
rivendicando
come
tanti
anni
prima
Gramsci
la
mobilitazione
e la
partecipazione
attiva
delle
masse
operaie
e
contadine
all’abbattimento
del
fascismo.
Comunque
già
nel
’42-43
dal
centro
estero
di
Parigi
si
infittiscono
gli
invii
di
militanti
al
fine
di
organizzare
nel
migliore
dei
modi
una
rete
clandestina,
approfittando
dello
sfacelo
in
cui
ormai
si
trovava
la
dittatura
dopo
i
disastri
del
conflitto
e
del
conseguente
allentamento
della
sorveglianza
ai
confini.
“Si tratta di un’organizzazione
quasi
militare.
Di
tutti
i
partiti,
perciò,
quello
comunista
è il
più
preparato.”
Sono i comunisti, insieme
ai
socialisti,
ad
organizzare
o
quanto
meno
a
spingere
gli
operai
di
Torino
e di
Milano
a
scioperare
contro
il
regime
nel
marzo
del
’43.
Il
PCI
non
solo
fu
importante
nella
lotta
al
fascismo
per
la
sua
organizzazione,
ma
anche
per
la
sua
elasticità
politica
che
nel
’43,
poco
prima
del
25
luglio,
divenne
mediazione
tra
i
due
poli
dell’antifascismo
per
il
superamento
delle
divisioni
all’interno
di
esso.
I socialisti potevano
contare
su
piccoli
gruppi
locali
attivi,
ma
di
scarso
rilievo.
Potevano
certamente
attingere
alla
loro
tradizione
tra
le
masse,
ma
sicuramente
era
impossibile
in
quel
momento.
All’interno
del
fronte
socialista
anch’esso
costretto
all’esilio
in
Francia
c’erano
molte
divisioni
risalenti
a
prima
e
dopo
l’instaurazione
della
dittatura.
Il PSI non poteva fare
affidamento
su
una
pur
minima
organizzazione
come
i
comunisti
o i
democristiani
in
quanto
soprattutto
rispetto
ai
comunisti
proprio
allora
ricominciava
la
sua
ricostruzione.
Era un partito fortemente
antimonarchico
che
non
accettava
alcuna
collaborazione
con
il
re.
Come
i
comunisti
e
gli
azionisti,
era
per
un
rinnovamento
completo,
dalle
fondamenta,
dello
stato
prefascista.
“Ai primi dell’agosto
1943
PSI,
MUP
e UP
si
fondevano
in
un
unico
partito
il
PSIUP.
Era
un
incontro
tra
il
socialismo
tradizionale,
nelle
sue
componenti
riformista
e
massimalista,
rappresentato
dal
PSI,
e le
giovani
leve
che
si
sentivano
attratte
dal
grande
prestigio
del
vecchio
partito,
ma
che
vi
arrivavano
con
idee
e
esperienze
nuove,
destinate
ad
alimentare
altre
polemiche
ed
altre
divisioni.”
Altro partito dell’antifascismo,
ma
questo
completamente
nuovo
nel
panorama
politico
italiano,
era
il
partito
d’azione
(Pd’A)
sorto
dal
movimento
clandestino
Giustizia
e
Libertà
fondato
dai
fratelli
Rosselli.
Anch’esso
rivendicava
una
rifondazione
totale
dello
stato.
Questo
movimento
politico
era
alla
ricerca
di
una
mediazione
tra
le
due
correnti
ideologiche
protagoniste
in
epoca
prefascista:
il
liberalismo
e il
socialismo,
di
qui
quello
che
sarà
poi
il
liberalsocialismo.
Vari gruppi confluiscono
e si
riconoscono
nel
Pd’A.
Dal
gruppo
dei
fratelli
Rosselli
a
quelli
gobettiani,
dai
radical-repubblicani
di
Ferruccio
Parri
(il
famoso
Maurizio),
ai
liberal-socialisti
di
Guido
Calogero.
Gli
azionisti
saranno
i
più
intransigenti
repubblicani
attribuendo
alla
monarchia
l’instaurazione
del
fascismo.
Insieme
ai
comunisti
gli
azionisti
sono
stati
gli
unici
a
continuare
attività
clandestine
in
Italia.
“Si potrebbe osservare
che
mentre
l’azione
clandestina
dell’estrema
sinistra
resta
sempre
salda
intorno
al
partito
e da
esso
promana,
quella
democratica,
al
contrario,
si
distacca
dai
vecchi
partiti
e
rimane
sul
principio
movimento,
gruppo,
per
costituirsi
solo
in
seguito
in
partito.
È un
fatto
non
privo
di
conseguenze
che
dimostra
la
volontà
dei
democratici
coerenti
di
andare
oltre
le
vecchie
formazioni
politiche
precedenti
il
1919
e di
superare
la
loro
azione
e i
loro
obiettivi.”
Ricompare anche il partito
cattolico,
Democrazia
cristiana,
sorto
sulle
ceneri
del
vecchio
partito
popolare.
I
cattolici,
ovviamente,
sono
appoggiati
in
pieno
dal
Vaticano
di
cui
sono
il
braccio
secolare.
Nella
Città
del
Vaticano
si è
rifugiato
colui
che
sarà
il
leader
supremo
della
Democrazia
cristiana,
De
Gasperi.
I
cattolici,
come
e
più
dei
comunisti,
possono
contare
su
una
vasta
e
capillare
organizzazione,
quella
dell’Azione
cattolica.
“L’Azione cattolica significa
il
clero,
significa
un
influsso
morale
e
quindi
politico
che
si
estende
da
un
capo
all’altro
a
tutta
l’Italia.”
La Democrazia cristiana
non
era
certamente
un
partito
rivoluzionario
e
anzi
voleva
semplicemente
restaurare
il
vecchio
stato
prefascista
magari
con
la
stessa
monarchia.
Quindi
esso
già
allora
era
un
partito
moderato
che
non
intendeva
minimamente
mettere
in
dubbio
l’assetto
economico
e
politico
del
decrepito
stato
liberale
prefascista.
Da
ciò
è
facile
spiegarsi
l’alleanza
“naturale”
con
i
liberali.
I liberali erano i meno
colpiti
dalla
repressione
fascista,
ma
anche
i
più
compromessi
col
regime
di
cui
prima
avevano
favorito
l’ascesa
e
poi
lo
avevano
consolidato.
Essi
si
riorganizzavano
nei
“Gruppi
di
ricostruzione
liberale”,
una
specie
di
movimento.
Loro
capo
carismatico
era
Benedetto
Croce.
Essi
erano
i
più
timorosi
di
una
mobilitazione
di
massa
contro
il
fascismo
vedendo
in
essa
soltanto
una
pericolosa
sovversione.
D’altra parte lo stesso
Croce
più
volte
aveva
tenuto
a
precisare
che
il
fascismo
era
solo
un
accidente
nella
storia
italiana,
una
malattia
momentanea
e
come
egli
stesso
affermò
“una
invasione
degli
Iksos”.
Quindi,
l’istituto
monarchico
doveva
rimanere
intatto
a
garanzia
della
continuazione
dello
stato
liberale
prefascista,
al
massimo
potendo
concedere
agli
altri
componenti
dell’antifascismo
l’abdicazione
di
Vittorio
Emanuele
III.
Comunque i liberali erano
gli
unici
a
conservare
contatti
a
corte,
nell’alta
finanza
e
nell’amministrazione.
I
partiti
antifascisti,
tranne
i
comunisti
che
d’altra
parte
da
poco
prima
del
’43
avevano
cominciato
a
costituirsi
come
organizzazione
attiva
all’interno
del
Paese
e
quindi
erano
agli
inizi,
non
avevano
solide
basi
e
del
resto
la
scure
repressiva
fascista
non
disarmava
rimanendo
ancora
attiva.
Non
dimentichiamo
poi
che
il
regime
poteva
contare
sulle
forze
armate
a
cui
l’opposizione
non
poteva
contrapporre
che
pochissimi
e
male
armati
gruppi
di
militanti
ristretti
per
lo
più
ai
partiti
di
sinistra,
azionisti,
socialisti
e
comunisti
che
nulla
potevano
contro
l’esercito.
“Un’azione concertata di
partiti
antifascisti
comincerà
ad
abbozzarsi
nella
primavera
del
’43.
A
Roma
il
27
aprile
si
forma
un
comitato
d’azione
di
cui
fanno
parte
socialdemocratici
(Bonomi),
liberali
(Bergamini
e
Casati),
socialisti
(Romita)
e
democristiani
(De
Gasperi).
Quasi
contemporaneamente
a
Milano
se
ne
costituisce
un
secondo
che
raccoglie
esponenti
del
partito
comunista
(Concetto
Marchesi),
del
MUP
(Basso),
socialisti
azionisti
(Lombardi)
e
democristiani
(Giovanni
Gronchi).
L’obiettivo
dei
due
comitati
– la
liquidazione
del
regime
fascista
– è
lo
stesso,
ma
diversi
sono
i
loro
orientamenti
e le
loro
impostazioni
politiche.
Il
primo,
formato
da
esponenti
moderati,
rappresentanti
della
democrazia
prefascista,
puntava
su
una
collaborazione
con
la
monarchia;
il
secondo,
espressione
dell’antifascismo
di
sinistra,
mirava
a
rovesciare
il
regime
attraverso
un’azione
popolare
e
diretta.
I
comunisti
e
per
essi
Concetto
Marchesi,
rettore
dell’ateneo
padovano,
faranno
opera
di
mediazione
tra
i
due
comitati
per
un
fronte
unitario
che
unisca
i
partiti
antifascisti
e la
monarchia,
ma
inutilmente;
fin
da
allora
si
delineava
netta
l’intransigenza
dei
socialisti
e
azionisti
a
venire
a
patti
con
il
re a
cui
essi
imputavano
le
stesse
colpe
del
fascismo.”
Era una situazione drammatica
che
certo
non
favoriva
nel
complesso
il
pur
eterogeneo
fronte
antifascista
che
rivelava
anche
ai
più
sprovveduti
le
profonde
spaccature
che
lo
laceravano.
Le
cose
comunque
e
fortunatamente
sono
destinate
a
mutare
e
positivamente.
L’accordo infatti “verrà
raggiunto
solo
alcuni
giorni
prima
del
25
luglio:
i
‘milanesi’
acconsentivano
a
sollecitare
l’intervento
della
monarchia
e i
‘romani’
ad
accettare
il
ricorso
alla
azione
popolare
se
la
monarchia
non
si
fosse
mossa.
Ma
l’accordo
risulterà
inutile:
nessuno
dei
due
comitati
riuscirà
ad
inserirsi
nell’azione
che
doveva
portare
al
25
luglio
ad
influenzarne
gli
sviluppi.
Già ai primi di giugno
Bonomi
aveva
chiesto
e
ottenuto
un
incontro
col
sovrano,
ma
Vittorio
Emanuele
aveva
eluso
i
suggerimenti
del
vecchio
uomo
politico
che
lo
esortava
a
servirsi
dei
suoi
poteri
costituzionali
e a
deporre
Mussolini
e il
colloquio
si
risolveva
in
un
nulla
di
fatto”.
Il
re
aveva
paura,
accordandosi
con
i
partiti
antifascisti,
di
dovere
poi
rispondere
ad
essi
delle
proprie
complicità
col
fascismo,
di
essere
insomma
eliminato
dalla
scena
politica.
Ma ancor più paura gli
metteva
il
pericolo
che
il
ricorso
alla
mobilitazione
delle
masse
che
pure
chiedevano
i
partiti
di
sinistra,
facesse
evolvere
la
situazione
politica
in
senso
ancor
più
radicale
di
quanto
potesse
immaginare.
Il
vecchio
timore
del
sovversivismo
riaffiorava
e
consigliava
“il
re a
servirsi
esclusivamente
dell’esercito,
sulla
cui
fedeltà
e
sul
cui
agnosticismo
politico
poteva
totalmente
contare.
Pertanto
all’episodio
che
porterà
alla
caduta
del
regime,
i
rappresentanti
dell’antifascismo
rimarranno
estranei.
Impedendone
la
partecipazione,
la
monarchia
si
tutelava
contro
possibili
incognite,
ma,
al
tempo
stesso,
rifiutando
di
associarseli
proprio
nel
momento
decisivo
della
lotta
contro
il
regime,
si
isolava
dal
Paese
e
inaspriva
i
sentimenti
antimonarchici
dell’antifascismo,
rendendo
inevitabile
che
si
ponesse
la
questione
istituzionale.”
Ormai alle strette, continuamente
bersagliato
dalle
pressioni
degli
ambienti
di
corte
e
dell’amministrazione,
resosi
conto
che
il
duce
mai
abbandonerà
il
suo
posto
e
d’altra
parte
volendo
tutti
la
testa
del
dittatore,
sperando
così
di
salvare
il
salvabile,
il
re
si
vede
costretto
ad
agire.
Egli
investe
dell’operazione
di
destituzione
del
dittatore
i
militari
che
gli
sono
tutti
fedeli.
Il monarca provvede anche
al
successore
di
Mussolini:
sarà
il
maresciallo
Badoglio,
fedele
servitore
della
corona.
Ma
quando
tutto
è
pronto,
ecco
che
a
dargli
una
copertura
ufficiale
interviene
la
rivolta
dei
gerarchi.
Grandi,
Bottai,
Ciano
e
per
altri
motivi
Farinacci
informarono
dell’intenzione
di
esautorare
il
duce
nella
seduta
del
Gran
Consiglio
del
Fascismo.
Essi
credevano
che,
così
facendo,
eliminando
cioè
Mussolini,
avrebbero
potuto
salvarsi
e
continuare
un
fascismo
senza
Mussolini.
Come si è detto, lo stesso
Churchill
abilmente
attraverso
la
propaganda
aveva
additato
agli
italiani
come
unico
responsabile
della
guerra
Mussolini.
Essi
speravano
che,
sbarazzandosi
del
duce
di
cui
pure
avevano
condiviso
in
pieno
le
responsabilità,
avrebbero
potuto
continuare
impunemente
a
restare
al
potere.
Dopo
la
messa
in
stato
d’accusa
di
Mussolini
sarebbe
stato
facile
e
“legale”
per
la
monarchia
esautorare
il
dittatore.
“La seduta del Gran Consiglio,
cominciata
alle
5
del
pomeriggio
di
sabato
24,
terminava
alle
4
del
giorno
successivo.
Dopo
una
sbiadita
relazione
di
Mussolini
sulla
situazione
militare,
la
opposizione
si
manifestava
prima
cauta
e
circospetta,
poi
aperta
e
violenta,
per
raggiungere
i
suoi
momenti
più
drammatici
col
discorso
di
Grandi.
Una
requisitoria
serrata
contro
le
degenerazioni
del
fascismo
e le
colpe
di
Mussolini.
Parlarono
Ciano,
Bottai
e
Federzoni,
poi
fu
la
volta
di
Farinacci.
L’odg
Grandi
veniva
approvato
con
una
maggioranza
vistosa:
19
voti
favorevoli,
7
contrari.”
Per Mussolini era la
fine.
“Nel pomeriggio del 25
luglio
Mussolini
si
recava
a
Villa
Savoia
per
una
normale
udienza
reale.
Vittorio
Emanuele,
benevolo
ma
ormai
resoluto,
lo
pregava
di
lasciare
la
sua
carica
e lo
informava
che
il
nuovo
capo
del
governo
era
Badoglio.
Uscito
dalla
palazzina
dove
era
avvenuta
l’udienza
trovava
ad
attenderlo
una
autoambulanza
militare
e
alcuni
carabinieri
che
lo
prendevano
in
consegna
per
assicurargli
quell’incolumità
che
il
re
gli
aveva
garantito,
ma
soprattutto
per
isolarlo
dai
tedeschi
e
usarlo
come
ostaggio
contro
un’eventuale
reazione
dei
fascisti.”
Ma non ci fu alcuna reazione,
segno
evidente
del
disfacimento
del
fascismo.