filosofia & religione
.
La Filosofia a
Roma
Fondamento della formazione culturale
di Francesco Giannetti
Il rapporto iniziale di convivenza della
società romana con la filosofia greca, e
anche di altri aspetti importati dalla
Grecia, non è certo facile; Cicerone
dimostra questo difficoltoso rapporto
all’inizio di una sua opera, De
finibus, in quanto chi come lui
volesse occuparsi di filosofia a Roma,
all’incirca negli anni 50 a.C., si
trovava impossibilitato perché i ceti
benestanti di Roma non avvertono la
necessità di trascrivere le opere e i
pensieri dei filosofi greci.
Oltre a non avvertirne la necessità, e
forse questo che andiamo a dire è la
vera motivazione, è perché i romani
sostenevano che la filosofia nuocesse
alla dignitas romana. Quindi
anche coloro che come Cicerone erano
uomini colti spesso erano diffidenti
alla filosofia, e per spiegare questo
atteggiamento, bisogna da un lato
risalire all’ostilità da parte dei
romani per tutto ciò che era estraneo
alle proprie tradizioni, dall’altro,
all’avversione verso le speculazioni
astratte. Tutto ciò spiega perché i
romani non abbiano mai prodotto una
filosofia originale, ma abbiano adattato
quella greca, o perlomeno alcune
“correnti” filosofiche, alle proprie
esigenze.
La filosofia aveva comunque fatto la sua
comparsa a Roma a partire dalla I guerra
Punica (264-241 a.C.), nello stesso
periodo in cui anche la letteratura
greca aveva cominciato a diffondersi.
Cicerone parla di una larga diffusione
della dottrina pitagorica, ma è anche
vero che Cicerone cerca di nobilitare al
massimo le tradizioni romane facendole
risalire a precedenti illustri, è però
certo che altri personaggi, come il
poeta e drammaturgo Quinto Ennio, che fu
attratto da filosofi come Evemero che
riecheggiava la dottrina pitagorica.
Il primo contatto significativo dei
romani con la filosofia avvenne in
occasione dell’ambasceria dei filosofi
greci nel 155 a.C., inviata a Roma dagli
Ateniesi. Fu proprio in quel frangente
che la filosofia si impose per la prima
volta all’attenzione di un vasto
pubblico a causa dei tre personaggi
inviati e cioè Diogene di Babilonia,
Critolao e Carneade. Abbiamo molte fonti
che testimoniano la venuta dei tre come
quella di Polibio che descrive lo stile
di Carneade come “veemente e
trascinante”, “delicato e preciso”
quello di Critolao, “modesto e sobrio”
quello di Diogene.
Ma fu soprattutto Carneade, che “quando
argomentava non si riusciva più a capire
dove stesse la verità”, a sedurre
l’animo dei giovani suscitando una
reazione sentita di Catone l’Uticense.
Questi infatti espresse il parere che si
dovesse accorciare la permanenza dei tre
filosofi a Roma, facendoli tornare a
discutere nelle scuole della Grecia, e
che i giovani romani prestassero ascolto
come prima alle leggi e alle autorità
romane. Come sappiamo però questa
reazione di Catone non era dettata da
avversione verso i tre filosofi, ma come
ci testimonia Plutarco, “da avversione
verso la filosofia in generale e da
disprezzo per tutta l’arte e
l’educazione ellenica”, questo motivato
anche dalla difesa verso l’origine
italica, e non greca, sostenuta da
Catone.
Questo atteggiamento di ostilità verso
la filosofia attraversa fasi alterne, ma
non smette mai del tutto, tanto che sono
molto frequenti esili a partire dal II
secolo a.C. al VI secolo d.C. È proprio
però il pugno duro, a partire dal 161
a.C., che si ritorce contro la politica
di Roma, in quanto i filosofi spesso
divennero ospiti abituali delle case di
uomini potenti e la filosofia divenne
patrimonio di circoli privati; uno degli
esempi più noti è “il circolo degli
Scipioni” con i filosofi Panezio di Rodi
e lo storico Polibio.
Anche Cicerone aveva accolto nella sua
casa lo stoico Diodoto. Sempre in questo
periodo si consolida l’abitudine da
parte delle persone colte di andare in
Grecia a completare il curriculum degli
studi. Possiamo dunque dire che fra il
150 al 50 a.C. assistiamo a uno
spostamento di gravitazione della
filosofia dal mondo greco a quello
romano e che all’epoca di Cicerone si
era stabilita un’intensa tradizione di
scambi tra le varie scuole filosofiche
elleniste a Roma; in questo secolo
dunque, la filosofia greca cominciò a
esercitare un’influenza sui romani.
Le scuole filosofiche ellenistiche
raggiunsero il culmine della loro
attività prima della fine della
repubblica e la loro diffusione si
intrecciò strettamente con la vita
culturale, politica e sociale del mondo
romano. Non tutte le filosofie furono
accolte allo stesso modo, ma di certo lo
stoicismo godette di larga popolarità
fra il II e il I secolo a.C. grazie a
Panezio e a Posidonio. Nonostante si
trovassero all’interno della filosofia
romana, entrambi affrontavano, seppure
con un realismo più concreto, le
problematiche che erano già state
sviluppate dalla scuola stoica. Una
delle maggiori divergenze dallo
stoicismo antico sta nel netto rifiuto
di Panezio nei confronti dell’astronomia
e della divinazione, senza però
intaccare il dogma per eccellenza dello
stoicismo e cioè che il mondo sia
ordinato dalla provvidenza. Inoltre, in
campo etico, l’interesse di Panezio è
rivolto alla natura individuale
dell’uomo, più che a quella universale,
alle caratteristiche che conferiscono a
ogni singolo uomo la sua specificità,
più che al concetto astratto di uomo.
Sosteneva dunque che la virtù fosse
l’unico bene e che quindi la perfezione
morale consiste nel compimento delle
azioni che scaturiscono dalla reale
conoscenza di bene. Tutto ciò è più un
mutamento di accento, tenendo conto del
fatto che Panezio scriveva per un
pubblico colto, ma comunque non
filosofo. Quindi crea un’etica fondata
su principi di condotta capaci di
regolare sia la vita dell’uomo comune
che quella del saggio, dando molto più
spazio alla categoria di “coloro che
progrediscono verso la virtù”. Anche
Cicerone è un grande estimatore di
Panezio perché accoglieva nella sua
dottrina elementi di quella platonica e
di quella aristotelica: egli infatti
sosteneva una concezione dell’anima
articolata in due parti, impulso e
ragione, e deduceva le quattro virtù
cardinali dai quattro impulsi
fondamentali peculiari alla natura
umana. Di conseguenza Cicerone
confermava che le scuole filosofiche
fossero fondamentalmente unite fra di sé
e di minimizzare di conseguenza le
divergenze.
Lo stoicismo ha fortemente influenzato
pure la politica a Roma fin dalla
seconda metà del II secolo a.C. Blossio
di Cuma è considerato l’ispiratore della
politica agraria di Tiberio Gracco,
anche se alcuni storici ritengono che le
idee politiche di Blossio non debbono
essere spiegate alla luce dello
stoicismo, quanto piuttosto debbano
essere ricondotte alla sua ostilità nei
confronti di Roma a causa della sua
origine italica. Comunque sia resta un
dato di fatto che la famiglia degli
Scevola, di cui sia Blossio che Tiberio
Gracco erano in stretti rapporti,
aderiva allo stoicismo.
Quindi abbiamo visto che sia la politica
della riforma agraria di Tiberio Gracco
che il suo partito avverso, quello degli
Scipioni, riconducevano la propria
politica a principi ispiratori della
filosofia stoica. Ciò è da ricercare in
una duplicità di atteggiamento
all’interno della corrente filosofica
stessa che esisteva già a partire dal II
secolo a.C., con due correnti
interpretative, che facevano capo
rispettivamente ai due scolarchi,
Diogene di Babilonia e Antipatro di
Tarso, che si combattevano
reciprocamente anche su divergenze di
natura politica e sociale.
Nello stesso periodo in cui lo stoicismo
contava numerosi seguaci tra gli
aristocratici romani, l’epicureismo si
diffondeva fra le masse popolari. La
spiegazione di questa diversa area di
propagazione non sta soltanto nel fatto
che le due scuole filosofiche erano
antagoniste sul piano etico, lo
stoicismo propugnava la virtù come fine
della vita, l’epicureismo il piacere. Ne
è storicamente sostenibile che
l’adesione delle masse popolari
all’epicureismo possa essere
giustificata con le teorie democratiche
in materia sociale e religiosa che esso
svolgeva. La vera ragione sta nella
diffusione della lingua latina degli
scritti degli epicurei, come Cicerone
sottolinea.
Mentre la conoscenza della lingua greca
era patrimonio esclusivo delle classi
colte, l’epicureismo, divulgato in
latino, divenne l’unica filosofia
comprensibile a tutti. Cicerone è un
oppositore della dottrina epicurea
perché ne critica la fisica e l’etica
che per lui vengono trattate in maniera
semplice e elementare, contrapponendo a
esse le difficoltà della filosofia
stoica e le proprie sottigliezze
dialettiche come segno di “superiorità
filosofica” di quest’ultima. Ma
tuttavia, nella contrapposizione è
piuttosto l’epicureismo a guadagnare per
la sua capacità di educare e di attrarre
la gran parte della popolazione; questo
perché si proponeva l’obiettivo di
liberare gli uomini dalla paura della
morte, del dolore, degli dèi, proponeva
un ideale di imperturbabilità,
sostenendo l’estensione della vita
politica, e inoltre esponeva tali
dottrine in un linguaggio semplice e
gradevole.
Così a partire della seconda metà del II
secolo alla metà del I secolo a.C. il
panorama filosofico cambiò, vedendo lo
stoicismo perdere terreno e
l’epicureismo si trasformò da movimento
popolare a movimento aristocratico e
comparve sulla scena la filosofia
dell’Accademia. Nello stesso tempo,
sempre in contrapposizione
all’epicureismo, si diffusero correnti
di indole mistico-religiosa, di
derivazione pitagorica di cui il più
illustre rappresentante di questo
neopitagorismo fu l’amico di Cicerone,
Nigidio Figuloche tentò di conciliare la
dottrina pitagorica con l’astrologia,
praticò l’occultismo, e per questo subì
un processo e fu esiliato; ma anche
altri personaggi del panorama romano più
illustri ebbero interesse per il
simbolismo dei numeri e le speculazioni
teologiche, come il grammatico Varrone e
lo storico Sallustio.
Quindi vediamo l’epicureismo dominare la
vita politica nella tarda repubblica,
anziché lo stoicismo che invece diverrà
la filosofia dominante durante l’impero,
a partire dal momento in cui Augusto la
assumerà come filosofia ufficiale del
suo principato. Questo perché lo
stoicismo incarnava di più di qualunque
altra filosofia gli ideali morali del
mos maiorum, come viene detto da
Cicerone stesso. Il declino dello
stoicismo alla fine dell’età
repubblicana è in parte dovuto al
momento politico, in cui erano richieste
abilità oratorie particolari, che lo
stoicismo non era in grado di fornire,
in parte al fatto che proprie queste
abilità erano assicurate dall’Accademia
e dal Peripato.
Questi due luoghi si occupavano della
formazione dell’oratore, soppiantando
dunque lo stoicismo e non è un caso che
lo stesso Cicerone attribuisca alla
filosofia, intesa come disciplina
indispensabile all’educazione retorica,
un ruolo fondamentale anche alle sue
realizzazioni di uomo politico. L’evento
chiave che spiega il fascino della
dottrina epicurea, e che contribuisce
nello stesso tempo a determinarlo, è la
composizione del “De rerum natura”
di Lucrezio. L’autore infatti ricava un
resoconto della dottrina epicurea del
tutto antitetico a quello di Cicerone.
Lascia intendere che in quel periodo
l’epicureismo avrebbe cessato di essere
un movimento popolare; sceglie di
scrivere in lingua latina, proseguendo
con ciò la tradizione propria degli
epicurei romani, ma formula alcune
riserve: la lingua latina non è in grado
di esprimere i concetti della filosofia
epicurea in tutta la sua pienezza.
Cicerone aveva invece rivendicato la
superiorità del latino sul greco “per la
ricchezza del lessico” e aveva criticato
gli epicurei per aver tentato di
tradurre in latino gli “atomi” di
Epicuro.
Lucrezio sarà il primo a scrivere in
latino perché vuole essere compreso da
tutti, ma è anche vero che ricrea la
filosofia epicurea nella sua lingua. Sa
che l’impresa è difficile perché si
propone di descrivere una realtà nuova,
cioè di fornire una nuova teoria del
mondo con nuove parole, sia creandole
ex novo che modificando dall’interno
i termini significativi del mos
maiorum. È proprio la società
oligarchica romana, con i suoi strumenti
politici, in cui Lucrezio colloca il suo
poema. Lucrezio rivolge preghiera a
Venere parlando dell’indifferenza degli
dèi, e poi attacca il concetto di
religio, perché ha spinto gli uomini
a compiere sacrifici umani agli dèi.
La separazione fra religio e
pietas, che erano strettamente
collegate nei valori del mos maiorum,
non poteva essere più netta e con essa
il rifiuto del modello di vita costruito
dagli aristocratici romani. Gli dèi
inventano la dottrina con delle pene
tremende a cui gli uomini vanno incontro
dopo la morte per avere controllo su di
essi attraverso la superstizione, ma la
dottrina di Epicuro, distruggendo la
credenza della sopravvivenza dell’anima,
libera gli uomini anche dalla paura
della morte. La dottrina epicurea spiega
la vera natura dell’universo e mostra il
processo attraverso cui la religio
è potuta crescere e affermarsi.
Poiché la paura della morte è la causa
della distruzione di tutti i valori
morali e anche la radice dell’ambizione
politica, nel terzo libro Lucrezio cerca
di provare che la morte segna la fine di
ogni sensibilità e coscienza.
Lucrezio ha poi presente la vita
politica contemporanea; tuttavia non è a
favore della repubblica più di quanto
Epicuro lo fosse della monarchia.
Infatti la lotta per il potere e
l’ambizione non appartengono soltanto
alle epoche passate, ma
contraddistinguono anche la situazione
presente. L’autore vede nella situazione
politica attuale di Roma un periodo di
degenerazione. Le magistrature e il
governo costituzionale nascono perché
gli uomini sono stanchi della violenza e
perché non sono rispettati i comuni
patti di pace, ma non rappresentano lo
stato ideale della società umana. A
Lucrezio sta a cuore dimostrare che gli
stessi falsi valori che distruggono
l’atarassia (assoluta imperturbabilità
di fronte alle passioni, quindi esente
da ogni dolore) del filosofo epicureo
sono responsabili della corruzione e
dell’anarchia dello stato: solo i valori
propugnati dall’epicureismo sono in
grado di assicurare una pace stabile e
duratura; così la filosofia epicurea e
la politica vanno di pari passo e
diventano delle strette alleate.
Questa alleanza può spiegare l’adesione
all’epicureismo di alcuni rappresentanti
dell’aristocrazia romana, però tuttavia
non ne giustifica l’impegno politico;
dobbiamo dunque capire su quali basi
essi poterono conciliare le due cose.
Lucrezio stesso, spinge gli epicurei
verso l’aponia (assenza di dolore),
piuttosto che a una vita politica
attiva. Un possibile seguace
dell’epicureismo, almeno in alcune idee,
è pure Giulio Cesare e per rivelare ciò
è emblematico il suo dibattito con
Catone in occasione del processo di
Catilina.
Essi sono in disaccordo, ma entrambi si
servono delle stesse argomentazioni
retoriche e delle stesse categorie e
fanno appello agli stessi valori
apparenti. Cesare cerca di evitare loro
la pena di morte sostenendo che la morte
non può essere un castigo, perché a
esagerare è soltanto la fine di tutti i
nostri mali; inoltre condivide la tesi
epicurea che le tradizioni relative agli
Inferi sono tutte false. Tuttavia queste
convinzioni non sono sufficienti a
fondare un’interpretazione
dell’epicureismo nel senso di un
utilitarismo filosofico attivo che è la
base dell’azione politica di alcuni
epicurei di questo periodo, compreso
Cesare.
Per comprendere ciò, bisogna analizzare
la posizione espressa da Torquato nel
De finibus di Cicerone, dove
Torquato opera una sintesi di virtù
civiche e sociali, insite nel mos
maiorum, con i valori morali
epicurei, quali l’atarassia e l’aponia.
Ne risulta una concezione della
giustizia intesa come il trionfo del
limite dei desideri. Ma poiché la
giustizia assicura la tranquillità, può
garantire anche la pace sociale. Di
conseguenza la ricerca individuale della
saggezza non è perciò disgiunta dalla
riforma morale dello stato e della
società civile.
Si tratta dunque di un’ideologia morale
dello stato e della società civile; si
mira a fondere l’utilitarismo filosofico
e la più schietta tradizione romana.
Così è possibile trovare nella posizione
espressa da Torquato la genesi delle
azioni e dell’ideologia di Cesare,
ispirate alla ricerca della potenza e
della gloria, e volte alla difesa della
sua utilitas anche a prezzo della
guerra civile. Sarà però proprio la
giustificazione alla guerra civile che
indurrà alcuni epicurei, in un primo
momento cesariani, a condannare le
azioni di Cesare.
L’amore per la libertas, molto
radicato nel mos maiorum,
spingerà la maggior parte degli
epicurei, fra cui lo stesso Cassio, a
passare tra le file dei nemici di Cesare
e a schierarsi a favore della
repubblica. La dottrina epicurea concede
dunque la possibilità di partecipare
alla vita politica come “un’azione di
emergenza” in momenti eccezionali, per
esempio durante la tirannide. Ma la
politica attiva non era coerente con i
principi della dottrina, tanto che gli
epicurei romani di fatto tornarono alla
filosofia dopo l’assassinio di Cesare.
Cicerone infatti non cessò mai di
stigmatizzare l’incoerenza manifestata
dagli epicurei suoi contemporanei tra le
opinioni filosofiche e la condotta
politica. Rimproverava a Torquato di
perseguire nel suo programma d’azione il
proprio utile, ma non osare dichiararlo
in pubblico, dove invece si richiamava a
parole come officium, aequitas,
dignitas, fides, tra le quali non
compariva il piacere.
I termini chiave dell’etica stoica si
presentavano molto meglio a spiegare e
rafforzare il mos maiorum, a cui
Cicerone era particolarmente legato. Nel
“De re publica” egli afferma con molta
chiarezza che il mos maiorum è la
fonte della vera conoscenza. Cicerone
era convinto che i romani fossero
superiori ai greci per i costumi, le
istituzioni civili, l’organizzazione
dello stato ma riconosceva ai greci la
superiorità in campo filosofico. Lui è
consapevole di non elaborare una
filosofia originale e ammette
continuamente la sua dipendenza dai
modelli greci, anche se dichiara di non
fare una semplice opera di traduttore.
Nel tentativo di interessare i romani,
che per la maggior parte pensavano che
la filosofia fosse un’occupazione buona
per i greci e i romani incapaci di
dedicarsi alla vita pubblica, cercò di
rivestire la filosofia greca di esempi
tratti dalla vita e dalla storia romana,
conferendole così maggiore dignità. Egli
aveva buona conoscenza della filosofia
greca e aveva studiato con i
rappresentanti più insigni delle scuole
filosofiche; dichiara che i suoi maestri
furono gli stoici Posidonio e Diodoto,
gli accademici Filone di Larissa e
Antioco d’Ascalona. Entrambi questi
ultimi esercitarono una notevole
influenza su di lui, tanto che il
contrasto dottrinale che li aveva
divisi, oltre a essere oggetto dei
“Libri Academici”, fu occasione, per
Cicerone, di continua riflessione.
Tuttavia non si può considerare Cicerone
un modello di coerenza filosofica,
perché egli scrisse anche opere di
carattere dogmatico, come il De
officiis, il De re publica e
il De legibus, in cui aderisce
totalmente alle dottrine esposte.
Infatti in queste opere, espone la
rigenerazione della classe governante di
Roma, spingendola a ritornare al modello
di comportamento, codificato nel mos
maiorum, e che aveva trovato la sua
teorizzazione, ancor prima, nella
filosofia greca.
Le contraddizioni in cui si dibatte
Cicerone sono segno della difficoltà del
tentativo di fondere due mentalità così
diverse come quella greca, incline alla
speculazione e all’astrazione, e quella
latina, volta alle realizzazioni
concrete. Cicerone con la sua attività
filosofica ha posto le basi perché la
filosofia non fosse più avvertita come
un prodotto estraneo allo spirito
romano, creando una terminologia nuova
in un linguaggio che non era mai stato
adattato a questo uso. È dunque una
figura significativa dell’incontro della
cultura romana con la filosofia greca,
non soltanto perché è la fonte più
importante d’informazione di questo
evento, ma anche perché ha contribuito a
determinarlo.
Alla fine del periodo repubblicano le
scuole filosofiche greche, stoicismo,
epicureismo, Accademia e Peripato, si
sono costituite a Roma sulla base di una
storia del pensiero che Cicerone e
Varrone hanno imposto: il primo tentando
di unificare lo stoicismo e l’Accademia
eliminandone le differenze dottrinali,
il secondo utilizzando criteri di
classificazione sistematici che
permettessero di ordinarle.
Anche durante il principato si mantenne
la convinzione che la filosofia fosse
inutile per i romani anche appartenente
alla classe senatoriale. Tra le classi
colte permaneva la convinzione che chi
volesse accedere alla vita pubblica non
potesse coltivare oltre certi limiti la
filosofia, perché trasmetteva dottrine
inattuabili nella realtà politica.
Durante i primi secoli dell’impero le
scuole filosofiche, continuarono a
esistere non a Roma ma prevalentemente
nelle città della parte orientale, come
Alessandria, Smirne, Pergamo, mentre
insegnanti privati si incontravano nella
parte occidentale in città di fondazione
greca come Napoli o Marsiglia.
Dal II e III secolo d.C. furono il
platonismo e l’aristotelismo a mantener
viva la ricerca ontologica e metafisica
affermandosi e diffondendosi nell’impero
grazie a le opere di Plutarco, Galeno,
Alessandro di Afrodisiade, ma non fino
all’età degli Antonini. Seneca, facendo
un bilancio dell’attività delle scuole
filosofiche a conclusione delle
“Questioni naturali”, ne afferma in
termini inequivocabili il declino,
almeno a Roma. Tutto ciò però non
significa che non ci fossero a Roma veri
e propri maestri di filosofia come
Musonio Rufo, Demetrio o Epitteto. Essi
svolgevano la propria attività mediante
lezioni pubbliche, come attesta Seneca
per Demetrio, o all’interno della
struttura scolastica, secondo quanto
riferisce Epitteto della sua attività di
maestro.
Il programma politico di Augusto
consisteva nella restaurazione dei
valori morali, politici, culturali e
religiosi del passato. In campo
filosofico però a Roma non c’era niente
da restaurare in quanto Roma non aveva
una filosofia originale, ma quella greca
era comunque penetrata; la politica di
Augusto fu dunque di rendere la
filosofia inoffensiva, trasformandola
all’interno.
Tale politica non favorì la nascita di
filosofie nuove, ma un minore vigore
speculativo che si tradusse da un lato
nell’inventariare i risultati raggiunti,
dall’altro nell’assistenza morale delle
coscienze. La filosofia confluiva nella
letteratura: Orazio, Ovidio, Virgilio
divulgano in versi i luoghi comuni
filosofici, come la ricerca della
quiete, della serenità, il disprezzo
dell’avaritia e della luxuria.
Del resto anche dei filosofi di cui
Augusto si circondò, nessuno era uno
strenuo sostenitore delle dottrine
filosofiche della scuola a cui
apparteneva, ma si adattava alla
politica culturale dell’imperatore, come
gli stoici Ario Didimo e Atenodoro, il
peripatetico Senarco e l’accademico
Nestore.
Unica eccezione furono i Sesti, che non
accettarono mai i favori del potere
imperiale. Sestio padre riteneva di aver
fondato una scuola essenzialmente
romana, ma è significativo che
diffondesse il suo insegnamento in
greco. Erano molto vicini allo
stoicismo, almeno in campo etico, anche
se Sestio padre rifiutava questa
denominazione. Nella sua dottrina
confluivano anche elementi cinici e
pitagorici. Egli teorizzava non più la
libertà nello stato, ma la libertà dello
stato, che doveva garantire al sapiente
le condizioni per esercitare la propria
attività; tale opposizione politica al
principato guadagnò le simpatie di molti
intellettuali.
Durante il principato di Augusto
l’epicureismo ebbe diffusione
soprattutto nel “circolo di Mecenate”.
Infatti, dopo l’esplosione di vitalità
dell’ultimo periodo della repubblica, il
cenacolo della Campania indebolì il suo
vigore dottrinale. Augusto non era
favorevole all’epicurei, dal momento che
era vivo in lui il ricordo
dell’assassini di Cesare. Inoltre
l’attacco alla religio, l’ideale
dell’aponia e del piacere, il pacifismo,
propugnati dagli epicurei, erano
profondamente contrari al mos maiorum
e mal si adattavano ai valori della
restaurazione augustea.
Ciò non significa che l’epicureismo fu
del tutto estirpato, perché
profondamente radicato, ma fu costretto
a restare anonimo, come testimonia il
fatto che Lucrezio, principale veicolo
per la conoscenza della dottrina
epicurea, continuava a essere letto, ma
il suo nome non era mai pronunciato.
Anche in età neroniana l’influenza
dell’epicureismo è presente in Lucilio,
in Sereno, in Petronio e in alcuni altri
partecipanti alla congiura di Pisone, ed
è difeso all’epoca di Traiano
dall’imperatrice Plotina.
Il cinismo poi, si era manifestato a
Roma a partire dal I secolo a.C. più
come un fenomeno letterario e uno stile
di vita che come una filosofia;
l’assenza di personalità di rilievo
aveva fatto sì che i confini tra l’etica
cinica e quella stoica divenissero
sempre più incerti e sfumati, tanto che
nella tradizione la concezione di una
filosofia popolare stoico-cinica copre
un’area letteraria e filosofica
piuttosto vasta. Nel I secolo d.C. il
cinismo riassunse una propria fisionomia
e acquistò poi, la sua maggiore
espansione sotto la dinastia
giulio-claudia, contro la ricchezza e la
vita dissoluta. Demetrio verrà ammirato
profondamente da Seneca, e condusse una
critica serrata contro il principato,
tanto che Vespasiano nel 71 d.C., con un
provvedimento che colpiva tutti i
filosofi, lo esiliò su una piccola
isola.
Anche i rapporti dello stoicismo con il
potere imperiale non furono sempre
idilliaci. La dottrina almeno in teoria,
era pronta a riconoscere l’imperatore
come l’incarnazione dell’ideale di
monarchia, se questi avesse usato il
potere in modo giusto. Emblematico è
l’esempio di Seneca, che divenuto
consigliere di Nerone in linea con la
tradizione della scuola, si adoperò nel
De clementia a fornire una
giustificazione filosofica alla
monarchia. Tuttavia l’attacco alla
libertas produrrà all’interno dello
stoicismo un forte movimento di
opposizione contro il potere imperiale,
che percorrerà essenzialmente l’età
giulio-claudia e quella dei Flavi,
esaurendosi soltanto con l’età degli
Antonini.
Lo stoicismo fu senza dubbio l’indirizzo
filosofico maggiormente corrispondente
alle specifiche necessità dei romani,
anche se non raggiunse mai la sua
dimensione filosofica popolare.
Caratteristica dello stoicismo romano fu
l’abbandono della fisica e della logica
a favore dell’etica, in nome del rifiuto
di un astratto intellettualismo. Per
Epitteto e il suo maestro Musonio solo
la filosofia può procurare all’uomo la
vera libertas, che non teme né
l’esilio né la morte e che rende liberi
dalla schiavitù degli appetiti del
corpo.
Una posizione peculiare all’interno
dello stoicismo occupa Seneca, che, pur
costruendo la sua etica sui principi
fondamentali della scuola, accolse e
rielaborò elementi delle altre dottrine
filosofiche, rivendicando indipendenza
di giudizio; affermò con chiarezza che
solo lo stoicismo forniva una
spiegazione coerente e organica della
realtà. La sua posizione fu dunque di
apertura verso gli epicurei, che difese
dall’accusa di professare un edonismo
volgare, del medio platonismo, del
cinismo, di cui condivise la polemica
contro la ricchezza e il lusso; ma fu
sempre considerato uno stoico. Ci sono
due principi alla base della realtà: la
materia, il principio passivo e la
ragione, il principio attivo. Il
principio attivo che governa e dirige il
cosmo è dio e pervade tutte le cose, la
ragione umana è intimamente partecipe di
quella divina. Nella perfezione della
ragione, dunque, consiste il fine ultimo
dell’uomo e solo l’attività speculativa
e scientifica rappresenta la più alta
attività umana.
Bisognerà giungere a Marco Aurelio per
avere un riconoscimento ufficiale del
ruolo dei filosofi con l’istituzione ad
Atene di quattro cattedre di filosofia,
assegnate con imparzialità alle scuole
filosofiche greche tradizionalmente più
importanti: stoica, epicurea, platonica
e aristotelica. Pur professando lo
stoicismo, Marco Aurelio, nell’esercizio
del potere non si comportò da stoico, ma
si mantenne fedele alle tradizioni
romane.
È comunque significativo che egli si
servisse della lingua greca per esporre
la sua filosofia; in ciò egli rivelava
l’atteggiamento tipico dei romani nei
confronti della filosofia, integrandola
nella formazione culturale come un
elemento importante della humanitas,
ma conformandosi alla tradizione e
ai costumi romani nel governo dello
stato.
Riferimenti Bibliografici:
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IOPPOLO
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MASO S., La filosofia a Roma. La
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