filosofia & religione
SULLA
FILOSOFIA A ROMA
FONDAMENTI DI UNA FORMAZIONE CULTURALE /
PARTE II
di Francesco Giannetti
Un possibile seguace dell’epicureismo,
almeno in alcune idee, è pure Giulio
Cesare e per rivelare ciò è emblematico
il suo dibattito con Catone in occasione
del processo di Catilina. Essi sono in
disaccordo, ma entrambi si servono delle
stesse argomentazioni retoriche e delle
stesse categorie e fanno appello agli
stessi valori apparenti.
Cesare cerca di evitare loro la pena di
morte sostenendo che la morte non può
essere un castigo, perché a esagerare è
soltanto la fine di tutti i nostri mali;
inoltre condivide la tesi epicurea che
le tradizioni relative agli Inferi sono
tutte false. Tuttavia queste convinzioni
non sono sufficienti a fondare
un’interpretazione dell’epicureismo nel
senso di un utilitarismo filosofico
attivo che è la base dell’azione
politica di alcuni epicurei di questo
periodo, compreso Cesare.
Per comprendere ciò, bisogna analizzare
la posizione espressa da Torquato nel
“De finibus” di Cicerone, dove Torquato
opera una sintesi di virtù civiche e
sociali, insite nel mos maiorum,
con i valori morali epicurei, quali
l’atarassia e l’aponia. Ne risulta una
concezione della giustizia intesa come
il trionfo del limite dei desideri. Ma
poiché la giustizia assicura la
tranquillità, può garantire anche la
pace sociale. Di conseguenza la ricerca
individuale della saggezza non è perciò
disgiunta dalla riforma morale dello
stato e della società civile.
Si tratta dunque di un’ideologia morale
dello stato e della società civile; si
mira a fondere l’utilitarismo filosofico
e la più schietta tradizione romana.
Così è possibile trovare nella posizione
espressa da Torquato la genesi delle
azioni e dell’ideologia di Cesare,
ispirate alla ricerca della potenza e
della gloria, e volte alla difesa della
sua utilitas anche a prezzo della
guerra civile. Sarà però proprio la
giustificazione alla guerra civile che
indurrà alcuni epicurei, in un primo
momento cesariani, a condannare le
azioni di Cesare.
L’amore per la libertas, molto
radicato nel mos maiorum,
spingerà la maggior parte degli
epicurei, fra cui lo stesso Cassio, a
passare tra le file dei nemici di Cesare
e a schierarsi a favore della
repubblica. La dottrina epicurea concede
dunque la possibilità di partecipare
alla vita politica come “un’azione di
emergenza” in momenti eccezionali, per
esempio durante la tirannide. Ma la
politica attiva non era coerente con i
principi della dottrina, tanto che gli
epicurei romani di fatto tornarono alla
filosofia dopo l’assassinio di Cesare.
Cicerone infatti non cessò mai di
stigmatizzare l’incoerenza manifestata
dagli epicurei suoi contemporanei tra le
opinioni filosofiche e la condotta
politica. Rimproverava a Torquato di
perseguire nel suo programma d’azione il
proprio utile, ma non osare dichiararlo
in pubblico, dove invece si richiamava a
parole come officium, aequitas,
dignitas, fides, tra le quali non
compariva il piacere.
I termini chiave dell’etica stoica si
presentavano molto meglio a spiegare e
rafforzare il mos maiorum, a cui
Cicerone era particolarmente legato. Nel
“De re publica” egli afferma con molta
chiarezza che il mos maiorum è la
fonte della vera conoscenza. Cicerone
era convinto che i romani fossero
superiori ai greci per i costumi, le
istituzioni civili, l’organizzazione
dello stato ma riconosceva ai greci la
superiorità in campo filosofico. Lui è
consapevole di non elaborare una
filosofia originale e ammette
continuamente la sua dipendenza dai
modelli greci, anche se dichiara di non
fare una semplice opera di traduttore.
Nel tentativo di interessare i romani,
che per la maggior parte pensavano che
la filosofia fosse un’occupazione buona
per i greci e i romani incapaci di
dedicarsi alla vita pubblica, cercò di
rivestire la filosofia greca di esempi
tratti dalla vita e dalla storia romana,
conferendole così maggiore dignità. Egli
aveva buona conoscenza della filosofia
greca e aveva studiato con i
rappresentanti più insigni delle scuole
filosofiche; dichiara che i suoi maestri
furono gli stoici Posidonio e Diodoto,
gli accademici Filone di Larissa e
Antioco d’Ascalona.
Entrambi questi ultimi esercitarono una
notevole influenza su di lui, tanto che
il contrasto dottrinale che li aveva
divisi, oltre a essere oggetto dei
“Libri Academici”, fu occasione, per
Cicerone, di continua riflessione.
Tuttavia non si può considerare Cicerone
un modello di coerenza filosofica,
perché egli scrisse anche opere di
carattere dogmatico, come il “De
officiis”, il “De re publica” e il “De
legibus”, in cui aderisce totalmente
alle dottrine esposte. Infatti in queste
opere, espone la rigenerazione della
classe governante di Roma, spingendola a
ritornare al modello di comportamento,
codificato nel mos maiorum, e che
aveva trovato la sua teorizzazione,
ancor prima, nella filosofia greca.
Le contraddizioni in cui si dibatte
Cicerone sono segno della difficoltà del
tentativo di fondere due mentalità così
diverse come quella greca, incline alla
speculazione e all’astrazione, e quella
latina, volta alle realizzazioni
concrete. Cicerone con la sua attività
filosofica ha posto le basi perché la
filosofia non fosse più avvertita come
un prodotto estraneo allo spirito
romano, creando una terminologia nuova
in un linguaggio che non era mai stato
adattato a questo uso. È dunque una
figura significativa dell’incontro della
cultura romana con la filosofia greca,
non soltanto perché è la fonte più
importante d’informazione di questo
evento, ma anche perché ha contribuito a
determinarlo.
Alla fine del periodo repubblicano le
scuole filosofiche greche, stoicismo,
epicureismo, Accademia e Peripato, si
sono costituite a Roma sulla base di una
storia del pensiero che Cicerone e
Varrone hanno imposto: il primo tentando
di unificare lo stoicismo e l’Accademia
eliminandone le differenze dottrinali,
il secondo utilizzando criteri di
classificazione sistematici che
permettessero di ordinarle. Anche
durante il principato si mantenne la
convinzione che la filosofia fosse
inutile per i romani anche appartenente
alla classe senatoriale. Tra le classi
colte permaneva la convinzione che chi
volesse accedere alla vita pubblica non
potesse coltivare oltre certi limiti la
filosofia, perché trasmetteva dottrine
inattuabili nella realtà politica.
Durante i primi secoli dell’impero le
scuole filosofiche, continuarono a
esistere non a Roma ma prevalentemente
nelle città della parte orientale, come
Alessandria, Smirne, Pergamo, mentre
insegnanti privati si incontravano nella
parte occidentale in città di fondazione
greca come Napoli o Marsiglia. Dal II e
III secolo d.C. furono il platonismo e
l’aristotelismo a mantener viva la
ricerca ontologica e metafisica
affermandosi e diffondendosi nell’impero
grazie a le opere di Plutarco, Galeno,
Alessandro di Afrodisiade, ma non fino
all’età degli Antonini.
Seneca, facendo un bilancio
dell’attività delle scuole filosofiche a
conclusione delle “Questioni naturali”,
ne afferma in termini inequivocabili il
declino, almeno a Roma. Tutto ciò però
non significa che non ci fossero a Roma
veri e propri maestri di filosofia come
Musonio Rufo, Demetrio o Epitteto. Essi
svolgevano la propria attività mediante
lezioni pubbliche, come attesta Seneca
per Demetrio, o all’interno della
struttura scolastica, secondo quanto
riferisce Epitteto della sua attività di
maestro. Il programma politico di
Augusto consisteva nella restaurazione
dei valori morali, politici, culturali e
religiosi del passato.
In campo filosofico però a Roma non
c’era niente da restaurare in quanto
Roma non aveva una filosofia originale,
ma quella greca era comunque penetrata;
la politica di Augusto fu dunque di
rendere la filosofia inoffensiva,
trasformandola all’interno. Tale
politica non favorì la nascita di
filosofie nuove, ma un minore vigore
speculativo che si tradusse da un lato
nell’inventariare i risultati raggiunti,
dall’altro nell’assistenza morale delle
coscienze. La filosofia confluiva nella
letteratura: Orazio, Ovidio, Virgilio
divulgano in versi i luoghi comuni
filosofici, come la ricerca della
quiete, della serenità, il disprezzo
dell’avaritia e della luxuria.
Del resto anche dei filosofi di cui
Augusto si circondò, nessuno era uno
strenuo sostenitore delle dottrine
filosofiche della scuola a cui
apparteneva, ma si adattava alla
politica culturale dell’imperatore, come
gli stoici Ario Didimo e Atenodoro, il
peripatetico Senarco e l’accademico
Nestore. Unica eccezione furono i Sesti,
che non accettarono mai i favori del
potere imperiale. Sestio padre riteneva
di aver fondato una scuola
essenzialmente romana, ma è
significativo che diffondesse il suo
insegnamento in greco. Erano molto
vicini allo stoicismo, almeno in campo
etico, anche se Sestio padre rifiutava
questa denominazione.
Nella sua dottrina confluivano anche
elementi cinici e pitagorici. Egli
teorizzava non più la libertà nello
stato, ma la libertà dello stato, che
doveva garantire al sapiente le
condizioni per esercitare la propria
attività; tale opposizione politica al
principato guadagnò le simpatie di molti
intellettuali. Durante il principato di
Augusto l’epicureismo ebbe diffusione
soprattutto nel “circolo di Mecenate”.
Infatti, dopo l’esplosione di vitalità
dell’ultimo periodo della repubblica, il
cenacolo della Campania indebolì il suo
vigore dottrinale. Augusto non era
favorevole all’epicurei, dal momento che
era vivo in lui il ricordo
dell’assassini di Cesare. Inoltre
l’attacco alla religio, l’ideale
dell’aponia e del piacere, il pacifismo,
propugnati dagli epicurei, erano
profondamente contrari al mos maiorum
e mal si adattavano ai valori della
restaurazione augustea.
Ciò non significa che l’epicureismo fu
del tutto estirpato, perché
profondamente radicato, ma fu costretto
a restare anonimo, come testimonia il
fatto che Lucrezio, principale veicolo
per la conoscenza della dottrina
epicurea, continuava a essere letto, ma
il suo nome non era mai pronunciato.
Anche in età neroniana l’influenza
dell’epicureismo è presente in Lucilio,
in Sereno, in Petronio e in alcuni altri
partecipanti alla congiura di Pisone, ed
è difeso all’epoca di Traiano
dall’imperatrice Plotina.
Il cinismo poi, si era manifestato a
Roma a partire dal I secolo a.C. più
come un fenomeno letterario e uno stile
di vita che come una filosofia;
l’assenza di personalità di rilievo
aveva fatto sì che i confini tra l’etica
cinica e quella stoica divenissero
sempre più incerti e sfumati, tanto che
nella tradizione la concezione di una
filosofia popolare stoico-cinica copre
un’area letteraria e filosofica
piuttosto vasta. Nel I secolo d.C. il
cinismo riassunse una propria fisionomia
e acquistò poi, la sua maggiore
espansione sotto la dinastia
giulio-claudia, contro la ricchezza e la
vita dissoluta. Demetrio verrà ammirato
profondamente da Seneca, e condusse una
critica serrata contro il principato,
tanto che Vespasiano nel 71 d.C., con un
provvedimento che colpiva tutti i
filosofi, lo esiliò su una piccola
isola.
Anche i rapporti dello stoicismo con il
potere imperiale non furono sempre
idilliaci. La dottrina almeno in teoria,
era pronta a riconoscere l’imperatore
come l’incarnazione dell’ideale di
monarchia, se questi avesse usato il
potere in modo giusto. Emblematico è
l’esempio di Seneca, che divenuto
consigliere di Nerone in linea con la
tradizione della scuola, si adoperò nel
“De clementia” a fornire una
giustificazione filosofica alla
monarchia. Tuttavia l’attacco alla
libertas produrrà all’interno dello
stoicismo un forte movimento di
opposizione contro il potere imperiale,
che percorrerà essenzialmente l’età
giulio-claudia e quella dei Flavi,
esaurendosi soltanto con l’età degli
Antonini.
Lo stoicismo fu senza dubbio l’indirizzo
filosofico maggiormente corrispondente
alle specifiche necessità dei romani,
anche se non raggiunse mai la sua
dimensione filosofica popolare.
Caratteristica dello stoicismo romano fu
l’abbandono della fisica e della logica
a favore dell’etica, in nome del rifiuto
di un astratto intellettualismo. Per
Epitteto e il suo maestro Musonio solo
la filosofia può procurare all’uomo la
vera libertas, che non teme né
l’esilio né la morte e che rende liberi
dalla schiavitù degli appetiti del
corpo. Una posizione peculiare
all’interno dello stoicismo occupa
Seneca, che, pur costruendo la sua etica
sui principi fondamentali della scuola,
accolse e rielaborò elementi delle altre
dottrine filosofiche, rivendicando
indipendenza di giudizio; affermò con
chiarezza che solo lo stoicismo forniva
una spiegazione coerente e organica
della realtà.
La sua posizione fu dunque di apertura
verso gli epicurei, che difese
dall’accusa di professare un edonismo
volgare, del medio platonismo, del
cinismo, di cui condivise la polemica
contro la ricchezza e il lusso; ma fu
sempre considerato uno stoico. Ci sono
due principi alla base della realtà: la
materia, il principio passivo e la
ragione, il principio attivo. Il
principio attivo che governa e dirige il
cosmo è dio e pervade tutte le cose, la
ragione umana è intimamente partecipe di
quella divina. Nella perfezione della
ragione, dunque, consiste il fine ultimo
dell’uomo e solo l’attività speculativa
e scientifica rappresenta la più alta
attività umana.
Bisognerà giungere a Marco Aurelio per
avere un riconoscimento ufficiale del
ruolo dei filosofi con l’istituzione ad
Atene di quattro cattedre di filosofia,
assegnate con imparzialità alle scuole
filosofiche greche tradizionalmente più
importanti: stoica, epicurea, platonica
e aristotelica. Pur professando lo
stoicismo, Marco Aurelio, nell’esercizio
del potere non si comportò da stoico, ma
si mantenne fedele alle tradizioni
romane.
È comunque significativo che egli si
servisse della lingua greca per esporre
la sua filosofia; in ciò egli rivelava
l’atteggiamento tipico dei romani nei
confronti della filosofia, integrandola
nella formazione culturale come un
elemento importante della humanitas,
ma conformandosi alla tradizione e
ai costumi romani nel governo dello
stato.
Riferimenti Bibliografici:
Cambiano G., I filosofi in Grecia e a
Roma. Quando pensare era un modo di
vivere, Il Mulino, Bologna 2013.
Cambiano G., Fonnesu L., Mori M., La
filosofia antica. Dalla Grecia antica ad
Agostino, Il Mulino, Bologna 2018.
Ioppolo
A.M., La continuità della filosofia
greca a Roma, in “I greci. Storia,
cultura, arte, società. Titolo III:
trasformazioni”, Einaudi, Torino 1998.
Maso
S., La filosofia a Roma. La riflessione
sui principi e l’arte della vita,
Carocci, Roma 2012. |