filosofia & religione
SULLA FILOSOFIA A ROMA
FONDAMENTI DI UNA FORMAZIONE CULTURALE
/ PARTE I
di Francesco Giannetti
Il rapporto iniziale di convivenza della
società romana con la filosofia greca, e
anche di altri aspetti importati dalla
Grecia, non è certo facile; Cicerone
dimostra questo difficoltoso rapporto
all’inizio di una sua opera, “De
finibus”, in quanto chi come lui volesse
occuparsi di filosofia a Roma,
all’incirca negli anni 50 a.C., si
trovava impossibilitato perché i ceti
benestanti di Roma non avvertono la
necessità di trascrivere le opere e i
pensieri dei filosofi greci. Oltre a non
avvertirne la necessità, e forse questo
che andiamo a dire è la vera
motivazione, è perché i romani
sostenevano che la filosofia nuocesse
alla dignitas romana. Quindi
anche coloro che come Cicerone erano
uomini colti spesso erano diffidenti
alla filosofia, e per spiegare questo
atteggiamento, bisogna da un lato
risalire all’ostilità da parte dei
romani per tutto ciò che era estraneo
alle proprie tradizioni, dall’altro,
all’avversione verso le speculazioni
astratte. Tutto ciò spiega perché i
romani non abbiano mai prodotto una
filosofia originale, ma abbiano adattato
quella greca, o perlomeno alcune
“correnti” filosofiche, alle proprie
esigenze.
La filosofia aveva comunque fatto la sua
comparsa a Roma a partire dalla I guerra
Punica (264-241 a.C.), nello stesso
periodo in cui anche la letteratura
greca aveva cominciato a diffondersi.
Cicerone parla di una larga diffusione
della dottrina pitagorica, ma è anche
vero che Cicerone cerca di nobilitare al
massimo le tradizioni romane facendole
risalire a precedenti illustri, è però
certo che altri personaggi, come il
poeta e drammaturgo Quinto Ennio, che fu
attratto da filosofi come Evemero che
riecheggiava la dottrina pitagorica.
Il primo contatto significativo dei
romani con la filosofia avvenne in
occasione dell’ambasceria dei filosofi
greci nel 155 a.C., inviata a Roma dagli
Ateniesi. Fu proprio in quel frangente
che la filosofia si impose per la prima
volta all’attenzione di un vasto
pubblico a causa dei tre personaggi
inviati e cioè Diogene di Babilonia,
Critolao e Carneade.
Abbiamo molte fonti che testimoniano la
venuta dei tre come quella di Polibio
che descrive lo stile di Carneade come
“veemente e trascinante”, “delicato e
preciso” quello di Critolao, “modesto e
sobrio” quello di Diogene. Ma fu
soprattutto Carneade, che “quando
argomentava non si riusciva più a capire
dove stesse la verità”, a sedurre
l’animo dei giovani suscitando una
reazione sentita di Catone l’Uticense.
Questi infatti espresse il parere che si
dovesse accorciare la permanenza dei tre
filosofi a Roma, facendoli tornare a
discutere nelle scuole della Grecia, e
che i giovani romani prestassero ascolto
come prima alle leggi e alle autorità
romane.
Come sappiamo però questa reazione di
Catone non era dettata da avversione
verso i tre filosofi, ma come ci
testimonia Plutarco, “da avversione
verso la filosofia in generale e da
disprezzo per tutta l’arte e
l’educazione ellenica”, questo motivato
anche dalla difesa verso l’origine
italica, e non greca, sostenuta da
Catone. Questo atteggiamento di ostilità
verso la filosofia attraversa fasi
alterne ma non smette mai del tutto,
tanto che sono molto frequenti esili a
partire dal II secolo a.C. al VI secolo
d.C.
È proprio però il pugno duro, a partire
dal 161 a.C., che si ritorce contro la
politica di Roma, in quanto i filosofi
spesso divennero ospiti abituali delle
case di uomini potenti e la filosofia
divenne patrimonio di circoli privati;
uno degli esempi più noti è “il circolo
degli Scipioni” con i filosofi Panezio
di Rodi e lo storico Polibio. Anche
Cicerone aveva accolto nella sua casa lo
stoico Diodoto. Sempre in questo periodo
si consolida l’abitudine da parte delle
persone colte di andare in Grecia a
completare il curriculum degli studi.
Possiamo dunque dire che fra il 150 al
50 a.C. assistiamo a uno spostamento di
gravitazione della filosofia dal mondo
greco a quello romano e che all’epoca di
Cicerone si era stabilita un’intensa
tradizione di scambi tra le varie scuole
filosofiche elleniste a Roma; in questo
secolo dunque, la filosofia greca
cominciò a esercitare un’influenza sui
romani.
Le scuole filosofiche ellenistiche
raggiunsero il culmine della loro
attività prima della fine della
repubblica e la loro diffusione si
intrecciò strettamente con la vita
culturale, politica e sociale del mondo
romano. Non tutte le filosofie furono
accolte allo stesso modo, ma di certo lo
stoicismo godette di larga popolarità
fra il II e il I secolo a.C. grazie a
Panezio e a Posidonio. Nonostante si
trovassero all’interno della filosofia
romana, entrambi affrontavano, seppure
con un realismo più concreto, le
problematiche che erano già state
sviluppate dalla scuola stoica.
Una delle maggiori divergenze dallo
stoicismo antico sta nel netto rifiuto
di Panezio nei confronti dell’astronomia
e della divinazione, senza però
intaccare il dogma per eccellenza dello
stoicismo e cioè che il mondo sia
ordinato dalla provvidenza. Inoltre, in
campo etico, l’interesse di Panezio è
rivolto alla natura individuale
dell’uomo, più che a quella universale,
alle caratteristiche che conferiscono a
ogni singolo uomo la sua specificità,
più che al concetto astratto di uomo.
Sosteneva dunque che la virtù fosse
l’unico bene e che quindi la perfezione
morale consiste nel compimento delle
azioni che scaturiscono dalla reale
conoscenza di bene. Tutto ciò è più un
mutamento di accento, tenendo conto del
fatto che Panezio scriveva per un
pubblico colto, ma comunque non
filosofo. Quindi crea un’etica fondata
su principi di condotta capaci di
regolare sia la vita dell’uomo comune
che quella del saggio, dando molto più
spazio alla categoria di “coloro che
progrediscono verso la virtù”.
Anche Cicerone è un grande estimatore di
Panezio perché accoglieva nella sua
dottrina elementi di quella platonica e
di quella aristotelica: egli infatti
sosteneva una concezione dell’anima
articolata in due parti, impulso e
ragione, e deduceva le quattro virtù
cardinali dai quattro impulsi
fondamentali peculiari alla natura
umana. Di conseguenza Cicerone
confermava che le scuole filosofiche
fossero fondamentalmente unite fra di sé
e di minimizzare di conseguenza le
divergenze.
Lo stoicismo ha fortemente influenzato
pure la politica a Roma fin dalla
seconda metà del II secolo a.C. Blossio
di Cuma è considerato l’ispiratore della
politica agraria di Tiberio Gracco,
anche se alcuni storici ritengono che le
idee politiche di Blossio non debbono
essere spiegate alla luce dello
stoicismo, quanto piuttosto debbano
essere ricondotte alla sua ostilità nei
confronti di Roma a causa della sua
origine italica. Comunque sia resta un
dato di fatto che la famiglia degli
Scevola, di cui sia Blossio che Tiberio
Gracco erano in stretti rapporti,
aderiva allo stoicismo.
Quindi abbiamo visto che sia la politica
della riforma agraria di Tiberio Gracco
che il suo partito avverso, quello degli
Scipioni, riconducevano la propria
politica a principi ispiratori della
filosofia stoica. Ciò è da ricercare in
una duplicità di atteggiamento
all’interno della corrente filosofica
stessa che esisteva già a partire dal II
secolo a.C., con due correnti
interpretative, che facevano capo
rispettivamente ai due scolarchi,
Diogene di Babilonia e Antipatro di
Tarso, che si combattevano
reciprocamente anche su divergenze di
natura politica e sociale.
Nello stesso periodo in cui lo stoicismo
contava numerosi seguaci tra gli
aristocratici romani, l’epicureismo si
diffondeva fra le masse popolari. La
spiegazione di questa diversa area di
propagazione non sta soltanto nel fatto
che le due scuole filosofiche erano
antagoniste sul piano etico, lo
stoicismo propugnava la virtù come fine
della vita, l’epicureismo il piacere. Ne
è storicamente sostenibile che
l’adesione delle masse popolari
all’epicureismo possa essere
giustificata con le teorie democratiche
in materia sociale e religiosa che esso
svolgeva. La vera ragione sta nella
diffusione della lingua latina degli
scritti degli epicurei, come Cicerone
sottolinea.
Mentre la conoscenza della lingua greca
era patrimonio esclusivo delle classi
colte, l’epicureismo, divulgato in
latino, divenne l’unica filosofia
comprensibile a tutti. Cicerone è un
oppositore della dottrina epicurea
perché ne critica la fisica e l’etica
che per lui vengono trattate in maniera
semplice e elementare, contrapponendo a
esse le difficoltà della filosofia
stoica e le proprie sottigliezze
dialettiche come segno di “superiorità
filosofica” di quest’ultima. Ma
tuttavia, nella contrapposizione è
piuttosto l’epicureismo a guadagnare per
la sua capacità di educare e di attrarre
la gran parte della popolazione; questo
perché si proponeva l’obiettivo di
liberare gli uomini dalla paura della
morte, del dolore, degli dèi, proponeva
un ideale di imperturbabilità,
sostenendo l’estensione della vita
politica, e inoltre esponeva tali
dottrine in un linguaggio semplice e
gradevole.
Così a partire della seconda metà del II
secolo alla metà del I secolo a.C. il
panorama filosofico cambiò, vedendo lo
stoicismo perdere terreno e
l’epicureismo si trasformò da movimento
popolare a movimento aristocratico e
comparve sulla scena la filosofia
dell’Accademia. Nello stesso tempo,
sempre in contrapposizione
all’epicureismo, si diffusero correnti
di indole mistico-religiosa, di
derivazione pitagorica di cui il più
illustre rappresentante di questo
neopitagorismo fu l’amico di Cicerone,
Nigidio Figulo che tentò di conciliare
la dottrina pitagorica con l’astrologia,
praticò l’occultismo, e per questo subì
un processo e fu esiliato; ma anche
altri personaggi del panorama romano più
illustri ebbero interesse per il
simbolismo dei numeri e le speculazioni
teologiche, come il grammatico Varrone e
lo storico Sallustio.
Quindi vediamo l’epicureismo dominare la
vita politica nella tarda repubblica,
anziché lo stoicismo che invece diverrà
la filosofia dominante durante l’impero,
a partire dal momento in cui Augusto la
assumerà come filosofia ufficiale del
suo principato. Questo perché lo
stoicismo incarnava di più di qualunque
altra filosofia gli ideali morali del
mos maiorum, come viene detto da
Cicerone stesso. Il declino dello
stoicismo alla fine dell’età
repubblicana è in parte dovuto al
momento politico, in cui erano richieste
abilità oratorie particolari, che lo
stoicismo non era in grado di fornire,
in parte al fatto che proprie queste
abilità erano assicurate dall’Accademia
e dal Peripato.
Questi due luoghi si occupavano della
formazione dell’oratore, soppiantando
dunque lo stoicismo e non è un caso che
lo stesso Cicerone attribuisca alla
filosofia, intesa come disciplina
indispensabile all’educazione retorica,
un ruolo fondamentale anche alle sue
realizzazioni di uomo politico. L’evento
chiave che spiega il fascino della
dottrina epicurea, e che contribuisce
nello stesso tempo a determinarlo, è la
composizione del “De rerum natura”
di Lucrezio.
L’autore infatti ricava un resoconto
della dottrina epicurea del tutto
antitetico a quello di Cicerone. Lascia
intendere che in quel periodo
l’epicureismo avrebbe cessato di essere
un movimento popolare; sceglie di
scrivere in lingua latina, proseguendo
con ciò la tradizione propria degli
epicurei romani, ma formula alcune
riserve: la lingua latina non è in grado
di esprimere i concetti della filosofia
epicurea in tutta la sua pienezza.
Cicerone aveva invece rivendicato la
superiorità del latino sul greco “per la
ricchezza del lessico” e aveva criticato
gli epicurei per aver tentato di
tradurre in latino gli “atomi” di
Epicuro.
Lucrezio sarà il primo a scrivere in
latino perché vuole essere compreso da
tutti, ma è anche vero che ricrea la
filosofia epicurea nella sua lingua. Sa
che l’impresa è difficile perché si
propone di descrivere una realtà nuova,
cioè di fornire una nuova teoria del
mondo con nuove parole, sia creandole
ex novo che modificando dall’interno
i termini significativi del mos
maiorum. È proprio la società
oligarchica romana, con i suoi strumenti
politici, in cui Lucrezio colloca il suo
poema. Lucrezio rivolge preghiera a
Venere parlando dell’indifferenza degli
dèi, e poi attacca il concetto di
religio, perché ha spinto gli uomini
a compiere sacrifici umani agli dèi.
La separazione fra religio e
pietas, che erano strettamente
collegate nei valori del mos maiorum,
non poteva essere più netta e con essa
il rifiuto del modello di vita costruito
dagli aristocratici romani. Gli dèi
inventano la dottrina con delle pene
tremende a cui gli uomini vanno incontro
dopo la morte per avere controllo su di
essi attraverso la superstizione, ma la
dottrina di Epicuro, distruggendo la
credenza della sopravvivenza dell’anima,
libera gli uomini anche dalla paura
della morte.
La dottrina epicurea spiega la vera
natura dell’universo e mostra il
processo attraverso cui la religio
è potuta crescere e affermarsi.
Poiché la paura della morte è la causa
della distruzione di tutti i valori
morali e anche la radice dell’ambizione
politica, nel terzo libro Lucrezio cerca
di provare che la morte segna la fine di
ogni sensibilità e coscienza. Lucrezio
ha poi presente la vita politica
contemporanea; tuttavia non è a favore
della repubblica più di quanto Epicuro
lo fosse della monarchia. Infatti la
lotta per il potere e l’ambizione non
appartengono soltanto alle epoche
passate, ma contraddistinguono anche la
situazione presente.
L’autore vede nella situazione politica
attuale di Roma un periodo di
degenerazione. Le magistrature e il
governo costituzionale nascono perché
gli uomini sono stanchi della violenza e
perché non sono rispettati i comuni
patti di pace, ma non rappresentano lo
stato ideale della società umana. A
Lucrezio sta a cuore dimostrare che gli
stessi falsi valori che distruggono
l’atarassia (assoluta imperturbabilità
di fronte alle passioni, quindi esente
da ogni dolore) del filosofo epicureo
sono responsabili della corruzione e
dell’anarchia dello stato: solo i valori
propugnati dall’epicureismo sono in
grado di assicurare una pace stabile e
duratura; così la filosofia epicurea e
la politica vanno di pari passo e
diventano delle strette alleate.
Questa alleanza può spiegare l’adesione
all’epicureismo di alcuni rappresentanti
dell’aristocrazia romana, però tuttavia
non ne giustifica l’impegno politico;
dobbiamo dunque capire su quali basi
essi poterono conciliare le due cose.
Lucrezio stesso, spinge gli epicurei
verso l’aponia (assenza di dolore),
piuttosto che a una vita politica
attiva. |