N. 82 - Ottobre 2014
(CXIII)
Filippo V di Macedonia
La fine di un re
di Andrea Contorni
La
morte
di
Alessandro
Magno
avvenuta
in
quel
di
Babilonia
nel
323
a.C.
aveva
comportato
la
repentina
fine
dell'impero
da
lui
conquistato
e
amministrato
con
tanta
fatica.
I
generali
del
Macedone
(diadochi)
se
ne
contesero
i
territori
a
suon
di
guerre,
ben
sei.
L'assetto
politico
che
ne
scaturì
vide
la
nascita
di
alcune
grandi
dinastie,
tra
cui
si
distinsero
i
Tolomei
in
Egitto
e i
Seleucidi
in
Oriente.
Queste
realtà,
a
cui
si
unì
il
regno
di
Macedonia
degli
Antigonidi,
rappresentarono
la
culla
dell'ellenismo,
diffondendo
la
cultura
e la
civiltà
greca
in
tutto
il
mondo
conosciuto.
Sia
chiaro
che
nessuno
di
questi
stati
possedeva
l'organizzazione
politico-militare
dell'impero
fondato
da
Alessandro.
Li
reputo
tutti
aventi
una
struttura
portante
simile
a
quella
di
un
castello
di
carte.
Il
vento
romano,
che
iniziò
a
tirare
sempre
più
violento
dal
III
secolo
a.C.
in
poi
li
spazzò
via
con
una
facilità
disarmante.
Il
regno
seleucida
cadde
sbriciolato
sotto
i
colpi
dei
parti
ad
oriente
e
dei
romani
a
occidente.
La
sua
ultima
cellula
resistette
in
Siria
fino
al
primo
secolo
a.C.
quando
Gneo
Pompeo
Magno
ne
scrisse
la
fine.
L'Egitto
tolemaico
fu
di
poco
più
fortunato
ma
sempre
nel
I
secolo,
iniziò
a
perdere
gradualmente
la
sua
indipendenza
prima
con
Cesare,
passando
per
Marco
Antonio
e
infine
con
Ottaviano
Augusto,
che
lo
ridusse
a
provincia
romana,
tenuta
in
grande
considerazione
per
via
della
copiosa
produzione
di
grano,
necessaria
a
sfamare
le
bocche
romane.
La
Macedonia
invece
ebbe
una
storia
ancor
più
romanzata.
Seppur
limitata
e
impoverita,
essa
rappresentava,
quantomeno
simbolicamente,
il
nucleo
di
quella
che
fu
la
potenza
forgiata
da
Filippo
II e
mossa
attraverso
il
mondo
da
Alessandro.
Una
potenza
che
ancora
brillava
nell'esercito
schierato
nella
rigorosa
falange.
Questa
formazione
era
in
grado
di
presentare
al
nemico
un
muro
invalicabile
di
lunghe
picche
(4,5
metri).
La
sua
avanzata
sui
campi
di
battaglia
era
inarrestabile
a
patto
di
mantenere
una
ferrea
coesione
tra
gli
uomini.
La
difficoltà
di
manovra
e
l'eccessiva
lentezza
nel
cambio
di
direzione,
potevano
comportare
una
pericolosa
disorganizzazione
dei
reparti,
rendendo
lo
schieramento
vulnerabile.
Gli
esperti
militari
dell'epoca
si
erano
più
volte
interrogati
circa
l'esito
di
uno
scontro
tra
la
leggendaria
falange
e il
manipolo
romano
(Scipione
l'Africano
introdusse
una
sorta
di
coorte
in
forma
embrionale,
quale
evoluzione
del
manipolo
stesso).
Filippo
V di
Macedonia
diede
modo
di
verificare
in
pratica
tale
confronto.
Ma
chi
era
costui?
Nato
nel
237
a.C.
Filippo
V
era
figlio
di
Demetrio
II
Etolico,
re
di
Macedonia.
Nel
229
a.C.
morto
il
padre,
il
regno
passò
ad
Antigono
Dosone,
nominato
reggente.
Passato
a
miglior
vita
pure
questo,
il
diciassettenne
Filippo
si
vide
recapitare
il
trono
su
un
vassoio
d'argento.
Il
ragazzo
amava
cavalcare
ed
era
piuttosto
abile
nel
combattimento
individuale.
In
sella
al
suo
stallone,
vestito
e
armato
di
tutto
punto
e
con
l'elmo
piumato
in
testa,
sembrava
davvero
una
sorta
di
clone
di
Alessandro
Magno,
in
grado
di
infervorare
le
folle
quasi
al
pari
del
suo
"antenato".
Persino
nel
carattere
i
più
ottimisti
vedevano
aspetti
in
comune
con
l'Alessandro
nazionale.
Ma
quale
Macedonia
si
trovò
a
governare
il
giovane
re?
Una
nazione
chiusa
tra
un
nord
popolato
da
tribù
bellicose,
amanti
di
saccheggi
e
devastazioni
e un
sud
caratterizzato
da
una
sfilza
di
infidi
alleati
pronti
a
calare
un
coltello
tra
le
scapole
macedoni
alla
prima
occasione.
Le
poleis
greche
infatti
bramavano
la
loro
indipendenza,
mal
sopportando
i
tentativi
di
egemonia
perpetrati
da
un
re
"barbaro"
che
si
illudeva
di
essere
un
greco
egli
stesso.
I
primi
a
farsi
sotto
furono
gli
Etoli,
una
forte
e
bizzosa
comunità
stanziata
in
Tessaglia
che
attaccò
gli
Achei,
alleati
storici
dei
Macedoni.
Filippo
che
era
alle
prese
con
la
riorganizzazione
interna
del
regno,
agì
con
la
lentezza
degna
di
una
lumaca.
Fu
una
leggerezza
temporanea.
Dopo
aver
respinto
un'invasione
di
tribù
traciche
ai
confini
settentrionali,
tornò
in
fretta
e in
furia
a
sud,
quando
il
periodo
delle
campagne
militari
era,
secondo
le
consuetudini,
terminato.
Affidandosi
a
unità
scelte
formate
da
pochi
ma
addestrati
reparti,
Filippo
piombò
come
un
falco
su
Corinto
e in
seguito
sulla
capitale
etolica
di
Termo
mettendole
a
ferro
e
fuoco.
Il
re
aveva
dimostrato
coraggio
e
fermezza
e il
suo
ascendente
crebbe
a
dismisura.
Non
fidandosi
degli
uomini
di
casa
sua,
egli
iniziò
a
dare
retta
ai
consigli
di
Demetrio
di
Faro,
un
ex
reuccio
illirico
che
era
stato
spazzato
via
dai
romani
nel
219
a.C.
e di
Arato
un
nobile
greco
filo-romano.
Fu
proprio
Demetrio,
per
spirito
di
vendetta
verso
Roma
e
intimorito
dall'ombra
capitolina
che
si
allungava
sempre
più
sulle
coste
illiriche,
a
convincere
Filippo
dell'ottima
opportunità
offerta
da
un'alleanza
militare
con
Annibale
il
Cartaginese.
C'era
la
concreta
possibilità
di
annientare
una
volta
per
tutte
la
crescente
potenza
romana,
ripetendo
le
imprese
di
Pirro.
Sbarcare
sulla
penisola
italica
e
conquistare
terre
nel
mentre
Annibale
terminava
di
massacrare
i
quiriti,
venne
giudicata
un'impresa
tutt'altro
che
impossibile.
Filippo
allestì
frettolosamente
una
flotta
di
oltre
cento
navi
leggere.
Prima
di
tutto
doveva
impadronirsi
dei
porti
romani
in
Illiria.
Salpò
in
direzione
di
Apollonia,
ma
appena
superata
Cefalonia,
in
lontananza
furono
avvistati
natanti
romani.
Il
re
macedone
ebbe
la
presunzione
di
credere
che
l'intera
flotta
romana
fosse
stata
mandata
ad
intercettarlo.
Considerò
che
le
sue
navi
leggere
non
avrebbero
mai
potuto
concorrere
con
le
quinqueremi
romane,
dunque
ordinò
una
precipitosa
ritirata.
In
realtà
la
suddetta
flotta
romana
consisteva
in
una
decina
di
imbarcazioni
con
compiti
di
ricognizione.
Nessuno
nei
porti
romani
aveva
infatti
dato
peso
alle
voci
che
narravano
di
una
grande
flotta
macedone
che
veleggiava
verso
l'Illiria.
Correva
l'anno
216
a.C..
Nella
storia
romana,
le
guerre
macedoniche
hanno
sempre
contato
quanto
il
due
di
picche
quando
comanda
bastoni,
surclassate
a
più
riprese
da
ben
altri
conflitti.
Eppure
tale
diatriba
durò
dal
214
al
148
a.C.,
un'eternità.
La
prima
guerra
macedonica
scoppiò
nel
215
a.C.
un
anno
dopo
la
terribile
disfatta
di
Canne.
Annibale
gironzolava
allegramente
per
l'Italia
mentre
il
comando
delle
legioni
era
tornato
nelle
mani
del
vecchio
Quinto
Fabio
Massimo
detto
il
“Temporeggiatore”.
Roma
non
poteva
permettersi
di
perdere
altri
uomini,
figurarsi
di
aprire
un
nuovo
fronte
di
guerra.
Dal
canto
suo
Filippo,
dopo
la
vergognosa
ritirata
ordinata
alla
sua
flotta
un
anno
prima,
non
si
era
perso
d'animo.
In
gran
segreto
i
suoi
ambasciatori
erano
sbarcati
in
Italia
e
raggiunto
Annibale
nei
pressi
di
Canne,
avevano
firmato
un
patto
di
alleanza
militare.
Peccato
che
i
messi
furono
catturati
dai
romani
sulla
via
del
ritorno.
Il
Senato
accolse
con
sgomento
l'entrata
in
scena
di
Filippo
V.
Il
macedone
non
perse
tempo.
Diresse
la
flotta
verso
Apollonia,
in
Illiria.
Sbarcò
e
pose
d'assedio
la
città
dopo
essersi
preso
anche
Orico.
La
squadra
navale
romana
era
comandata
da
Marco
Valerio
Levino,
subentrato
da
poco
a
Valerio
Flacco.
Levino
era
un
uomo
tutto
d'un
pezzo,
sceso
in
campo
con
il
grado
di
propretore
in
seguito
alla
disfatta
di
Canne.
Egli
aveva
dimostrato
fermezza
e
coraggio
nell'impedire
agli
Irpini
di
ribellarsi
a
Roma
e
passare
nel
campo
cartaginese.
Ora
lo
attendeva
una
nuova
sfida,
ovvero
bloccare
l'invasione
macedone.
Come
un
fulmine
piombò
su
Orico
liberandola,
poi
concordando
un
piano
con
il
suo
secondo,
Quinto
Nevio
Crista,
ruppe
l'assedio
di
Apollonia,
sorprendendo
i
macedoni
nel
proprio
campo.
Fu
un
massacro,
dal
quale
si
salvò
per
miracolo
il
re
Filippo,
riparando
in
Macedonia.
Levino,
fu
di
sicuro
uno
dei
migliori
generali
e
governatori
romani
di
tutti
i
tempi,
insignito
del
consolato
nel
211
a.C.
pur
senza
aver
avanzato
la
propria
candidatura.
A
causa
di
alcuni
contrasti
con
il
Senato,
Levino
non
venne
mai
onorato
di
quel
Trionfo
che
avrebbe
invece
meritato.
Tornando
al
povero
Filippo
V.
Nel
213
a.C.
riprese
le
operazioni
di
invasione
dell'Illiria
ma
stavolta
via
terra.
Roma
dal
canto
suo,
ancora
impegnata
nel
"conflitto
punico",
spedì
al
fronte
macedone
il
solo
Sulpicio
Galba
con
una
flotta
di
media
entità.
Il
capolavoro
del
Senato
fu
quello
di
convincere
gli
Etoli,
a
capo
di
una
lega
di
città-stato
greche,
a
prendersi
in
carico
le
operazioni
terrestri
contro
Filippo.
Agli
Etoli
si
unirono
presto
Pergamo,
Elide,
Messenia
e
Sparta.
Fino
al
206
a.C.
in
una
marea
di
scaramucce
e
scontri
minori,
greci
e
macedoni
si
scannarono
per
il
divertimento
dei
capitolini
che
limitarono
il
loro
intervento
a
una
presenza
navale
appena
accennata.
Alla
fine
dei
giochi,
la
pace
di
Fenice
fu
firmata
per
disperazione
e
sfinimento
generale.
Roma
aveva
ottenuto
lo
scopo
di
tenere
lontano
Filippo
da
Annibale,
evitando
uno
sbarco
macedone
in
Italia.
Il
nuovo
Alessandro,
pur
riportando
diverse
vittorie,
uscì
dal
conflitto
ancora
più
provato
e
impoverito
di
uomini
e
mezzi.
Intorno
all'anno
204
a.C.
ascese
al
trono
d'Egitto
un
Tolomeo
di
anni
sei.
Come
due
avvoltoi,
Filippo
V e
il
compare
Antioco
III,
regnante
dell'impero
seleucida,
si
gettarono
a
capofitto
alla
conquista
dei
possedimenti
tolemaici.
Rodi
e
Pergamo,
preoccupati
dell'ingerenza
dei
due
nella
penisola
anatolica,
mandarono
ambasciatori
a
Roma.
Lamentando
lo
scarso
impegno
capitolino
nel
conflitto
di
qualche
anno
prima,
convinsero
i
senatori
a
intervenire
contro
i
due
riottosi
sovrani.
Nel
202
a.C.
le
legioni
di
Scipione
l'Africano
avevano
chiuso
la
pratica
cartaginese,
sbaragliando
Annibale
a
Zama.
Il
popolo
romano
era
a
pezzi
e la
prospettiva
di
una
nuova
guerra
fu
accolta
nel
peggior
modo
possibile.
Il
console
incaricato
per
l'anno
200
a.C.,
quel
Sulpicio
Galba
che
nulla
aveva
fatto
nel
primo
conflitto
macedonico,
si
dimostrò
un
oratore
molto
convincente
quando
parlò
dinanzi
ai
comizi
centuriati.
Tirando
fuori
in
un
ideale
minestrone,
una
sfilza
di
eventi
e
nomi,
dai
Mamertini
a
Pirro,
passando
per
Sagunto,
Annibale
e i
Sanniti,
riuscì
a
convincere
tutti
che
Filippo
era
talmente
potente
che
ben
presto
si
sarebbe
presentato
in
Italia,
conquistando
Roma
dopo
avere
esteso
la
sua
influenza
sul
Peloponneso!
Nulla
di
più
falso.
Persino
in
Grecia,
la
voglia
di
far
guerra
a
Filippo
non
sussisteva.
La
sola
Atene
che,
citando
Livio,
dell'antico
splendore
conservava
solo
l'arroganza,
aveva
desiderio
di
menare
le
mani.
A
Roma
bastò.
D'altro
canto
bisognava
ribadire
la
potenza
dell'Urbe
e
poi
levare
di
mezzo
quel
sovrano
impertinente
avrebbe
alla
lunga
comportato
dei
vantaggi.
Mentre
venivano
mandati
ambasciatori
a
Filippo
con
proposte
di
resa,
altri
convincevano
Antioco
a
farsi
gli
affari
suoi;
Roma
avrebbe
chiuso
un
occhio
sull'espansione
seleucida
nei
territori
tolemaici.
Sulpicio
Galba
condusse
una
guerra
senza
infamia
e
senza
lode.
Conquistò
alcune
città
e
sconfisse
le
truppe
macedoni
in
diverse
scaramucce
senza
mai
giungere
a
quello
scontro
campale
che
avrebbe
chiuso
la
pratica.
Ottenne
però
la
discesa
in
campo
a
suo
favore
dei
soliti
Etoli
e di
Attalo
di
Pergamo.
La
Macedonia
si
trasformò
in
una
barca
dalle
mille
falle.
Filippo
fino
al
198
a.C.
cercò
di
tappare
i
buchi,
correndo
a
destra
e a
manca.
Il
suo
regno
sembrava
davvero
prossimo
a
sfaldarsi.
La
svolta
nel
conflitto
avvenne
però
con
l'entrata
in
scena
di
Tito
Quinzio
Flaminino,
subentrato
all'imbelle
Publio
Vilio
che
a
sua
volta
aveva
assunto
il
comando
delle
legioni
al
posto
di
Galba
a
fine
mandato
consolare.
Appartenente
alla
gens
Quinctia,
Flaminino
fu
console
appena
trentenne,
dopo
aver
ricoperto
con
successo
tutto
il
cursus
honorum.
Egli
era
il
rappresentante
della
nuova
generazione
dei
condottieri
romani,
cresciuta
all'ombra
di
Scipione
l'Africano.
Non
nascondeva
uno
spiccato
filoellenismo
in
un'ammirazione
incondizionata
per
la
cultura
greca
che
considerava
necessaria
per
il
futuro
di
Roma
stessa.
Uomo
capace,
idealista
e
dalla
fluente
parlantina
decise
di
ergersi
a
liberatore
della
Grecia
dall'oppressore
macedone.
Le
sue
prime
mosse
in
campo,
ripresero
lo
stile
dei
suoi
predecessori:
scaramucce
e
nulla
di
fatto.
Prese
tempo
in
attesa
del
mandato
proconsolare,
facendosi
un
paio
di
chiacchierate
con
Filippo
V,
avanzando
proposte
di
pace
assurde
da
accettare.
Ottenuta
la
nuova
carica,
prese
a
racimolare
alleati.
La
sua
forza
complessiva
ammontò
ad
oltre
30.000
uomini
tra
legionari,
soldati
della
Lega
Etolica
e
mercenari.
Aveva
in
dotazione
persino
una
squadra
di
elefanti,
fatti
venire
dalla
Numidia.
Di
contro
il
re
macedone
si
presentò
ai
nastri
con
25.000
mercenari
di
cui
16.000
inquadrati
nella
leggendaria
falange.
Nel
197
a.C.
in
Tessaglia,
nei
pressi
di
Cinocefale,
una
zona
collinare,
i
due
enormi
eserciti
si
scontrarono.
Qui
avvenne
il
tanto
agognato
confronto
tra
il
manipolo
romano
e la
falange
macedone.
Dopo
i
consueti
battibecchi
tra
fanterie
leggere,
Filippo
mosse
i
suoi
uomini
d'elite,
inquadrati
in
due
distinte
falangi.
I
romani
arretrarono
andando
a
finire
su
un
terreno
fortemente
accidentato.
Qui
le
falangi
persero
coesione,
in
quanto
il
terreno
non
permetteva
il
perfetto
allineamento
dei
fanti
armati
di
sarissa.
Flaminino
mosse
all'attacco
della
falange
alla
sinistra
dello
schieramento
macedone
con
gli
elefanti
seguiti
dai
legionari,
mentre
gli
schermagliatori
continuavano
a
tenerne
impegnato
il
fianco.
I
falangiti
abbandonarono
le
sarisse
in
terra,
cercando
di
difendersi
con
la
spada.
Persa
la
compattezza,
la
falange
“mancina”
si
scompaginò
provocando
la
rotta
dei
soldati.
La
falange
a
destra
invece
stava
avanzando
con
successo
tra
le
fila
romane,
ma
si
ritrovò
a
contrastare
un
attacco
sul
proprio
fianco,
portato
da
quegli
stessi
legionari
che
avevano
appena
messo
in
fuga
l'ala
sinistra
di
Filippo
V. I
fanti
si
arresero
alzando
le
picche
al
cielo,
ma
nessun
romano
interpretò
quel
gesto
come
una
resa.
Fu
un
massacro.
Il
re
macedone
fuggì
ancora
una
volta.
La
Grecia
fu
dichiarata
"libera"
nel
194
a.C.;
il
controllo
di
Roma
si
estese
sull'Ellade.
Flaminino
fu
equiparato
a un
semidio
e
trovò
posto
nell'Olimpo
Ellenico.
Il
generale
concesse
a
Filippo
una
resa
con
tutti
gli
onori,
conservandogli
persino
il
regno
in
cambio
di
un'indennità
e
del
secondogenito
Demetrio.
Ormai
nell'orbita
romana,
Filippo
si
adattò
al
nuovo
ruolo
aiutando
i
capitolini
nel
consolidamento
del
loro
potere
in
Grecia,
fornendo
uomini
e
mezzi.
Purtroppo
egli
mai
accettò
la
perdita
della
Tessaglia
che
considerava
un
suo
territorio
di
diritto.
Inoltre
nel
carattere
era
profondamente
mutato
divenendo
un
uomo
sospettoso
e
incattivito.
L'odio
per
i
greci,
ad
esclusione
degli
storici
alleati
Achei,
era
cresciuto
a
dismisura.
Circondato
da
infidi
consiglieri,
egli
ricominciò
ad
esercitare
pressioni
sulle
città
tessale.
Nel
frattempo
il
figlio
Demetrio,
sposato
in
toto
alla
causa
romana,
cercava
di
far
da
paciere
tra
gli
indispettiti
quiriti
e il
padre.
La
situazione
precipitò
allorquando
il
primogenito
di
Filippo,
Perseo,
se
ne
uscì
fuori
con
una
lettera
di
Flaminino
indirizzata
al
fratello,
nel
quale
il
generale
romano
prometteva
il
trono
di
Macedonia
a
Demetrio.
La
missiva
era
un
falso
anche
se
era
davvero
intenzione
del
Senato
assegnare
il
trono
al
secondogenito
del
re
rispetto
a
Perseo
al
quale
sarebbe
spettato
di
diritto.
Sta
di
fatto
che
Filippo
V
giustiziò
il
proprio
figlio
per
poi
diseredare
l'altro
quando
scoprì
l'imbroglio.
Siamo
nel
179
a.C.
e a
quasi
sessant'anni,
l'anziano
re
finì
all'altro
mondo
durante
una
campagna
militare
nel
nord.
Forse
di
malattia,
forse
di
crepacuore.
Perseo
si
prese
a
forza
il
trono.
Nelle
due
successive
battaglie
di
Pidna
(168
e
148
a.C.),
la
falange
sfidò
nuovamente
le
legioni.
Il
risultato
finale
fu
che
la
Macedonia
divenne
definitivamente
una
provincia
romana
e
Perseo
sfilò
in
catene
a
Roma.
Le
guerre
macedoniche
segnarono
la
fine
di
un'epoca
in
campo
tattico-strategico.
La
falange
era
definitivamente
superata
e
non
rappresentava
più
quell'invincibile
schieramento
che
aveva
permesso
ad
Alessandro
Magno
di
spadroneggiare
in
lungo
e in
largo.
Dinanzi
alla
maggiore
mobilità
e
flessibilità
del
manipolo
romano,
la
falange
dimostrava
limiti
strutturali
evidenti.
A
Cinocefale,
la
prima
falange
perse
la
coesione
per
via
del
terreno
accidentato.
Bastava
infatti
che
un
singolo
falangita
inciampasse
per
mettere
in
crisi
tutta
la
schiera.
Questi
uomini
(pezhetairoi,
ossia
"Compagni
a
piedi"),
costretti
ad
abbandonare
le
fedeli
picche,
risultarono
del
tutto
inappropriati
al
combattimento
corpo
a
corpo
contro
i
legionari.
Il
gladio,
corta
spada
a
doppio
taglio,
in
dotazione
ai
fanti
romani
fece
strage
di
arti
e
corpi.
Ricordo
a
tal
proposito
che
il
falangita
macedone
poteva
difendersi
solamente
con
uno
scudo
tondo,
legato
all'avambraccio
sinistro.
La
seconda
falange
di
Cinocefale,
si
ritrovò
invece
sotto
attacco
sul
fianco
e
alle
spalle.
In
questo
caso,
la
scarsa
capacità
di
manovra
dello
schieramento
non
permise
di
girarsi
su
se
stessa
per
fronteggiare
un
attacco
non
frontale.
Gli
uomini
alzarono
le
picche
per
arrendersi,
venendo
ugualmente
massacrati.
Un'ultima
nota
risiede
nel
fatto
che
Flaminino
conservò
il
trono
di
Filippo
V
solo
ed
unicamente
perché
a
Roma
faceva
comodo
avere
uno
stato
cliente
che
potesse
autogestirsi
per
far
da
cuscinetto
tra
le
violente
tribù
traciche
e i
sempre
bizzosi
greci.
Purtroppo
il
monarca
ellenico
non
poteva
starsene
con
le
mani
in
mano,
chiuso
tra
i
propri
confini.
Filippo
era
un
condottiero,
un
conquistatore,
un
uomo
abituato
alla
guerra.
Se
nella
prima
battaglia
di
Pidna,
avesse
lui
stesso
comandato
le
ultime
falangi
nell'impari
lotta
contro
le
legioni,
forse
la
Storia
sarebbe
stata
diversa
e
adesso
si
sarebbe
potuto
scrivere
del
trionfo
dell'ultimo
grande
erede
di
Alessandro
il
Macedone.