N. 23 - Aprile 2007
OPINIONI
DI UN ENTOMOLOGO
Gli studi di Filippo Silvestri
di
Matteo Liberti
Una
approfondita e ben riassuntiva visione delle questioni
relative agli uccelli insettivori venne fornita
dall’entomologo Filippo Silvestri, il quale, nato a
Bevagna nel 1876 e morto a Portici nel 1949, viene
tuttora considerato, assieme ad Antonio Berlese e
Guido Grandi, uno dei Maestri dell’Entomologia
italiana.
Egli
cominciò ad interessarsi alle scienze naturali già
dagli anni del ginnasio e del liceo, tanto da
frequentare contemporaneamente anche l’Istituto di
Botanica e Zoologia dell’Università di Perugia. Si
iscrisse all’Università di Roma nel 1892 e, su
consiglio del professor Decio Vinciguerra, intraprese
la raccolta e lo studio dei Miriapodi. Nel 1893 si
trasferì poi all’Università di Genova, appoggiandosi
al Museo Civico di Storia Naturale diretto da Giacomo
Doria e da Raffaele Gestro. Completò gli studi
universitari a Palermo discutendo, nel 1896, una tesi
sull’embriologia dei Miriapodi. In quello stesso anno
divenne assistente di G. B. Grassi presso l’Istituto
di Anatomia Comparata di Roma. Nel gennaio del 1902
entrò come praticante nel Laboratorio di Entomologia
agraria di Portici, a quel tempo diretto proprio dal
Berlese, e da allora restò in questa sede, portandola
nel tempo ai più alti livelli di notorietà mondiale.
Grazie al suo incessante impegno, le collezioni
entomologiche del Laboratorio si arricchirono
sensibilmente e non solo negli ordini oggetto dei suoi
studi, ma in tutti i gruppi di importanza agraria: le
sue raccolte di Miriapodi, Dipluri, Tisanuri, Termiti
e Strepsitteri, considerate tra le più importanti al
mondo, sono, ancora oggi, studiate da moltissimi
specialisti, che ne richiedono continuamente degli
esemplari per confronti. Il nucleo principale delle
collezioni custodite nel Dipartimento di Entomologia e
Zoologia è rappresentato dalla raccolta dei Tipi
(esemplari utilizzati per descrivere le nuove
specie), conservati a secco, in alcool o in preparati
microscopici (questa raccolta comprende il materiale
originale relativo alle circa duemila specie scoperte
dal Silvestri in oltre mezzo secolo di fervente
attività). Tutta l’opera scientifica di questo
eminente studioso è inoltre ben documentata da oltre
470 pubblicazioni e corroborata da moltissimi
riconoscimenti ufficiali avuti dalle maggiori
Università italiane e straniere.
Una
sua pubblicazione del 1933 (anno in cui in Italia si
festeggiava il decimo anniversario della prima legge
nazionale sulla caccia) portava il significativo
titolo di Agricoltura e uccelli, uccelli e
agricoltura. Questo studio, che per periodo e tema
a noi interessa più degli altri, veniva introdotto con
le seguenti parole: ”Il Valore degli uccelli in
Natura è discusso da molto tempo; su di esso si hanno
molte pubblicazioni individuali e resoconti di
Congressi, in cui sono sostenute tesi diverse, anche
divergenti e spesso diametralmente opposte, perché
gran parte delle persone, che hanno sostenuto una o
l’altra tesi, avevano una preparazione culturale
diversa per grado e per qualità di studi, avevano una
educazione differente ed esaminavano il problema
unilateralmente: chi dal lato estetico e sentimentale,
chi da quello economico e sportivo, chi da quello
agrario e chi da quello puramente scientifico.”
Era da questo stato di cose che derivava la divergenza
delle opinioni, le quali andavano invece ri-fondate
sul vaglio di tutti i fatti che erano inerenti le
attività degli uccelli e le loro relazioni coi
vegetali e cogli altri animali (uomo compreso). Solo
dopo un tale esame si sarebbe potuto esprimere un
parere che si avvicinasse almeno un po’ alla verità,
senza tuttavia la pretesa di afferrarla interamente,
“perché gli uccelli non sono numeri come quelli coi
quali opera il matematico, bensì esseri viventi di
psiche assai plastica come quella propria di una
organizzazione molto elevata.” La loro attività
poteva variare molto per la stessa specie nelle varie
stagioni dell’anno, nelle varie località e non poteva
essere fissata in maniera netta.
I
due argomenti trattati dal Silvestri riguardavano
rispettivamente l’influenza che aveva l’agricoltura
sulla popolazione degli uccelli ed il valore che
avevano questi ultimi per l’agricoltura stessa e per
la silvicoltura.
Per
quanto riguardava il primo, veniva fatto notare,
preliminarmente, che in condizioni ambientali naturali
la distruzione delle piante e degli animali era
regolata dai fattori climatici, dalla qualità dei
terreni e dalla “lotta naturale dei vari esseri fra
di loro”, ma, allorché l’uomo era intervenuto in
uno di tali ambienti, aveva cercato di sottoporre
animali e piante a se stesso per trarne il maggior
vantaggio possibile, proponendosi di distruggere tutto
ciò che avesse ritenuto dannoso e sfruttando allo
stesso tempo ciò che poteva essergli utile. “Quando
un paese è divenuto molto popolato”, scriveva il
Silvestri, “l’uomo ha distrutto grandi estensioni
di boschi e altre ne ha sottoposte a tagli secondo i
suoi desideri, ha coltivato con poche specie di piante
grandi superfici di terreno liberando questo da piante
spontanee d’ogni sorta non ritenute utili a qualche
uso e ha riservato altre superfici a pascolo.”
Tale intervento antropico aveva stravolto le
condizioni naturali di molte regioni, con danno di
numerose specie animali e vegetali. Riguardo gli
uccelli, poi, si doveva tenere in considerazione che
la loro stessa azione risultava assai diversa in un
ambiente naturale vergine (o con culture più o meno
saltuarie) rispetto ad un ambiente intensamente
coltivato.
La
lamentata diminuzione di questi esseri doveva essere
attribuita soprattutto al progresso dell’agricoltura,
che era diretto al solo fine di aumentare la
superficie coltivabile e di mantenerla il più
possibile libera da piante spontanee (infestanti o
non), senza tener conto dell’importanza che esse
potevano invece avere, se “sapientemente limitate”,
anche in prossimità dei campi.
Da
sottolineare il fatto che il Silvestri, durante le sue
argomentazioni, faceva pure cenno a quei
trattamenti anticrittogamici e insetticidi
che avevano contribuito ad allontanare da molti alberi
da frutto e dalle viti “anche
quegli uccelli che avessero voluto adattarsi al nuovo
ambiente.”
Questo tipo di trattamenti iniziarono a diventare di
uso comune, per quanto riguardava il vecchio
continente, solamente dopo la prima guerra mondiale,
arrivando però ad avere una diffusione massiccia negli
anni successivi al secondo conflitto. Tra le molte
motivazioni date per la scarsità degli uccelli,
quindi, quelle relative all’uso di pesticidi non
potevano, durante il periodo che stiamo analizzando (e
che è compreso tra gli anni sessanta dell’ottocento e
gli anni venti del secolo successivo) ancora essere
pienamente avvertite o comprese.
Stesso discorso si può fare per le coltivazioni
intensive e le monocolture che, pur già presenti già
nel XIX secolo, andranno sempre più accentuando il
loro carattere distruttivo nel corso del 1900.
Un
ultima nota riguarda poi il fatto che, quando venne
pubblicato il lavoro del Silvestri, in Italia era già
presente (dal 1923) una legge unica sulla caccia,
l’esigenza della quale aveva invece condizionato il
lavoro di molti altri naturalisti prima di lui,
portandoli a dei giudizi comprendenti sia un lato
prettamente scientifico, sia uno che in qualche
aspetto, ed in buona fede, poteva risultare
sentimentale o propagandistico.
Il
secondo argomento preso in considerazione
dall’entomologo perugino era quello riguardante il
valore che gli uccelli potevano avere per
l’agricoltura. Le tesi principali, come sappiamo,
erano due e completamente opposte:
-
gli uccelli erano utili e indispensabili per
proteggere le piante coltivate dagli insetti dannosi;
-
gli uccelli, considerati dal punto di vista della
protezione delle piante, non avevano alcuna
importanza.
Tra
le schiere di sostenitori delle due tesi enunciate ve
ne era pure una terza che manteneva una posizione
intermedia, ma in realtà “se
si facesse una statistica esatta dei pareri già emessi
e pubblicati nei vari tempi e si indicesse un pubblico
referendum si vedrebbe che la prima tesi ha il
maggiore numero di proseliti, la seconda uno minore.”
Una
prima complicazione, nell’affrontare l’argomento,
veniva dalla difficoltà che si aveva di fare una netta
divisione fra uccelli vegetariani e uccelli carnivori:
“gli uccelli sono animali che
per la qualità del cibo si distinguono in vegetariani
e in carnivori, ma (salvo casi specialissimi, se pure
esistenti) non in modo assoluto, perché anche quelli
che in prevalenza si cibano di prodotti vegetali non
disdegnano, ed in alcune epoche dell’anno specialmente
preferiscono, per sé e per la prole prodotti di natura
animale, e viceversa quelli che in precedenza si
cibano di animali mangiano secondo le epoche e le
circostanze anche prodotti vegetali.”
A
ciò si aggiungeva che gli uccelli non erano animali
monofagi, che si cibavano cioè di un'unica specie
animale o vegetale, bensì prevalentemente polifagi,
traendo nutrimento da molte specie. Un uccello che
fosse stato monofago rispetto ad una pianta o ad un
insetto, avrebbe potuto, con immediata sicurezza,
venir considerato come utile o dannoso (a seconda che
fosse stata utile o dannosa la specie attaccata), ma
calcolare l’utilità o il danno dei polifagi era
certamente una cosa più complicata.
“Difficilissimo è giudicare l’azione degli uccelli
polifagi rispetto ad artropodi in genere e
particolarmente a insetti, cioè dei polifagi
insettivori, perché gli insetti non sono rappresentati
da poche specie ma da un grandissimo numero (le
descritte finora per tutta la Terra sono oltre mezzo
milione, ma quelle non descritte saranno almeno alcuni
milioni e per l’Italia le descritte almeno50 mila,
delle quali una parte son litofaghe, ma una parte non
minore sono zoofaghe e particolarmente entomofaghe
cioè parassite di altri insetti.”
Inoltre tra gli insetti fitofagi, insieme a quelle
specie che attaccavano piante coltivate e che potevano
creare grandissimi danni, vi erano anche moltissime
specie che attaccavano piante spontanee infestanti le
culture. “Quindi non basta vedere che un uccello si
ciba di insetti per giudicarlo utile, ma bisogna
conoscere di quali specie almeno prevalentemente si
nutre.” Gli insetti dannosi erano, secondo il
Silvestri, circa il 10% del totale; ragion per cui gli
uccelli potevano risultare utili solamente in qualche
particolare caso di tempo e di luogo, risultando
altrimenti dannosi o ininfluenti. “Considerando
solo il risultato dell’azione dell’uccello col suo
intervento e ammesso che non comparissero altre cause
(contrariamente a quanto in realtà avviene), esso
dovrebbe essere molto differente a secondo la
percentuale maggiore o minore del parassita, cioè in
genere utile se il parassitismo è basso o dannoso se
tale percentuale è alta.” Pur nella convinzione
che l’intervento degli uccelli insettivori non fosse
necessario al fine del mantenimento dell’equilibrio
naturale, per il quale sarebbero stati sufficienti gli
insetti parassiti e gli altri fattori biologici, che
erano la vera causa delle fluttuazioni degli insetti
dannosi, l’entomologo riconosceva però che i volatili
compivano “per l’economia agraria immediata
un’opera utile.” Siccome gli agricoltori avevano
bisogno di limitare quanto più possibile (e quanto
prima possibile) ogni danno ai loro raccolti, si
poteva anche ammettere che gli uccelli insettivori,
pur compiendo qualche rovina, erano tuttavia in grado
di rendere dei preziosi servigi all’agricoltura.
Sarebbe stato quindi opportuno, almeno fino a prova
contraria, favorire la presenza di questi uccelli, e
ciò doveva valere soprattutto per le campagne
intensamente coltivate, dove l’uomo aveva talmente
modificato le condizioni ambientali da aver
fatto scomparire molte piante spontanee e con
esse gli insetti che le attaccavano
“e i loro parassiti, e d’aver favorito, colla cultura
intensiva di poche specie di piante, la
moltiplicazione di pochi insetti dannosi ad esse.”
In
ultimo, aggiungeva il Silvestri,
“nonostante i giudizi espressi sul
valore degli uccelli rispetto all’agricoltura, io
voglio ancora ripetere che la questione
dell’importanza degli uccelli deve essere
profondamente considerata anche dal lato estetico e da
quello economico e venatorio. Da parte mia per questi
lati sono un ornitofilo…”
Un
ulteriore aspetto della questione era relativo alla
caratteristica prima di moltissimi uccelli, e cioè
alla migrazione. Per troppo tempo questa non fu
studiata con attenzione e, soprattutto, non venne
considerata dai legislatori (anche se sarebbe più
corretto dire che venne considerata in maniera
errata) nel momento di decidere sulle sorti della
caccia.
Ci
fu pure chi, però, alla ricerca di una comprensione
totale del mondo dei volatili e delle loro abitudini,
sviluppò più a fondo tale aspetto, consideratolo di
fondamentale importanza per l’elaborazione di
regolamenti venatori a carattere internazionale.
E tra questi studiosi troviamo l’Ohlsen, che così ci introduce all’argomento:
“Une législation internationale ne doit pas viser
exclusivement, à mon avis, aux intéets de
l’agriculture, bien que ce soit son but principal;
elle doit aussi comprendre la tutelle des oiseaux
voyageurs ou de passage, tutelle qui a déjà été
reconnue nécessaire depuis bien longtemps."
Riferimenti bibliografici:
Carlo Ohlsen, La question de la
Protection des Oiseaux en Europe, Imprimerie J.
Nicot, Aix
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