L’Impero di Nicola II Romanov
La Russia pre-rivoluzionaria
di
Filippo Vedelago
L’Impero russo, spesso indicato come
Russia imperiale, fu l’organismo
statale che, a partire dal 1721 con
Pietro I il Grande (1682-1725),
governò la Russia, sotto la guida
della dinastia dei Romanov, fino
all’abdicazione di Nicola II
(1894-1917), a seguito della
rivoluzione del febbraio 1917. Venne
preceduto dal regno degli zar
moscoviti e seguito dall’Unione
Sovietica. Dal punto di vista
territoriale fu il terzo stato più
esteso della storia; nel 1790 si
estendeva su tre continenti (Europa,
Asia e Nord America), confinando
tanto con la Prussia quanto con il
Canada britannico, affacciandosi sia
sul Mar Baltico che sull’Oceano
Pacifico.
Nel presente elaborato procederemo
ad analizzare la situazione storica,
sociale e politica del periodo
1894-1914 dell’Impero degli zar, per
comprendere come il paese che, agli
inizi dell’Ottocento, aveva
contribuito alla sconfitta di
Napoleone, ultimo prodotto della
Rivoluzione Francese, venne
travolto, quasi cent’anni dopo, da
una rivoluzione interna che ne
provocò il completo collasso.
All’alba del Novecento la Russia
degli zar era una delle più vaste e
una delle più fragili entità
politiche del mondo. In totale
anacronismo politico con gli altri
stati imperialisti dell’epoca,
l’Impero russo conteneva elementi di
grande potenza come anche di totale
condanna alla disintegrazione.
Prendendo in considerazione la
situazione politica europea
all’inizio del XX secolo, si nota
immediatamente il suo caso
specifico: in un’Europa sempre più
evoluta in senso
liberal-democratico, con strutture
parlamentari ed elettive, lo Russia
rimaneva l’ultimo baluardo
dell’assolutismo, con un monarca il
cui potere non era limitato da
alcuna forma di rappresentanza
nazionale, né da alcuna legge.
Particolarmente interessante da
analizzare è il Codice delle Leggi
dell’Impero (in vigore a fine
Ottocento - primi del Novecento) che
imponeva piena obbedienza alla
figura dello zar, un imperatore di
diritto divino con un potere
descritto come “autocratico e
illimitato”.
Molto più che in occidente, dove il
potere delle monarchie d’antico
regime era sempre stato bilanciato
da innumerevoli tradizioni,
privilegi, assemblee e casi di
immunità, la storia aveva attribuito
allo zar di Russia un assolutismo
molto più puro. Le prerogative del
monarca erano infatti limitate in
due soli casi: l’obbligo di
rispettare le leggi di successione
dinastica al trono e la professione
del credo ortodosso. La figura dello
zar ai primi del XX secolo si
presentava come un perfetto esempio
di cesaropapismo, con un potere
religioso e politico di derivazione
divina e una giustificazione delle
proprie azioni dovuta soltanto a
Dio, Lo zar non era quindi soltanto
un “Cesare” civile (la parola “Czar”
o “Tzar” deriva dal latino “Cesar”,
ovvero “Imperatore”), ma anche un
“guardiano e difensore della fede”,
similmente alla figura degli antichi
imperatori bizantini (gli zar di
Russia si consideravano infatti
eredi dell’autorità dei sovrani di
Bisanzio, con Mosca quale “Terza
Roma”, venuta dopo la “Seconda Roma”
ovvero Costantinopoli, erede a sua
volta della “Roma dei Cesari”).
Date queste premesse, un possibile
sviluppo del paese in senso
costituzionale era pressoché
impossibile, poiché ogni rinuncia da
parte del monarca alla sovranità
assoluta equivaleva ad un atto
sacrilego. Ciò condannava
l’autocrazia russa al completo
immobilismo. La monarchia zarista
sapeva però proporsi diversamente; a
dispetto delle enormi diseguaglianze
esistenti nel paese, era un valido
esempio di “monarchia sociale” con
un regime ugualitario garantito
dallo zar “padre e protettore del
suo popolo” (a riguardo gli
slavofili non esitavano a
sottolineare, ancora ai primi del
Novecento, l’armonia e la coesione
della società russa garantita
dall’autocrazia del monarca, a
differenza dei particolarismi e
delle lotte di classe che
caratterizzavano il mondo
occidentale).
Nell’esercizio delle sue funzioni di
capo religioso e di stato, lo zar
ricorreva a una burocrazia
fortemente centralizzata e
gerarchizzata, così come era stata
impostata nel corso del Settecento:
consiglieri e ministri scelti dal
sovrano, organi costituzionali
composti dai più alti rappresentanti
della corte e della burocrazia.
Costoro, come in passato,
appartenevano alla stragrande
maggioranza dell’aristocrazia
ereditaria, che occupava anche la
maggior parte delle cariche
importanti nelle provincie
dell’Impero, nei vertici di comando
dell’esercito e di responsabilità
nell’esercizio delle imposte e dei
beni dello stato. Alcuni tentativi
di riforma di questo apparato erano
stati avviati dallo zar Alessandro
II (1856-1881), completamente
stroncati da suo figlio e successore
Alessandro III (1881-1894). Alla
morte immatura di quest’ultimo,
l’ascesa al trono di Nicola II
(1894-1917) suscitò molte speranze
in coloro che desideravano una nuova
stagione di riforme, riferendosi ai
valori delle società industriali
moderne, quali il riconoscimento
delle libertà fondamentali del
cittadino, la laicità dello stato e
un regime di rappresentanza
nazionale su base elettiva. Il
discorso pronunciato dal giovane zar
il 29 gennaio 1895 fugò ogni minimo
dubbio, opponendo un netto rifiuto a
qualsiasi “sogno insensato”,
dichiarandosi fermo nel mantenere il
principio dell’autocrazia zarista
“in modo tanto energico e immutabile
quanto il mio indimenticabile
padre”.
Nicola II Romanov era asceso al
trono di Russia nel 1894, all’età di
ventotto anni, totalmente
impreparato a gestire un paese così
contradditorio. Dal carattere
introverso, riservato e mite, Nicola
aveva impostato i primi anni del suo
regno seguendo le linee dettate da
Alessandro III, che avevano permesso
di mantenere una certa stabilità
governativa nel paese. Tra i suoi
principali collaboratori figurarono
quindi molti uomini di spicco della
Russia del padre, come il
procuratore del Santo Sinodo
Konstantin Petrovic Pobedonostsev
(1827-1907), i Ministri dell’Interno
Ivan Logginovic Goremykin
(1839-1917) e Vjaceslav
Konstantinovic Pleve (1846-1904), il
generale e capo della polizia di San
Pietroburgo Dimitrij Fedorovic
Trepov (1855-1906).
La forte inesperienza di governo di
Nicola II fu determinante per la
grande influenzabilità dimostrata
nei primi anni di regno e per
comprendere la precedenza spesso
rivolta a problematiche di carattere
familiare e privato rispetto agli
affari di Stato. Il giovane zar
aveva inoltre una concezione
distorta e idealizzata della
tradizione e della realtà russa,
suggestionato dallo studio delle
biografie dei santi ortodossi e
della storia, spesso mitizzata,
degli imperatori russi suoi
predecessori. Era inoltre molto
accondiscendente nei confronti della
moglie, la zarina Aleksandra
Fedorovna, nata Alice d’Assia e di
Renania (1875-1917), che preferiva
come residenza il tranquillo palazzo
di Carskoe Selo, fuori San
Pietroburgo, dove conduceva una
quotidianità improntata all’impegno
sociale e a scelte di vita pacate ed
austere, in pieno stile vittoriano.
Ciò rese la coppia aliena alle
simpatie della grande aristocrazia
della capitale, abituata alla
mondanità e agli sfarzi di corte.
Nicola e Alessandra ebbero quattro
figlie (Maria, Olga, Tatiana e
Anastasia) e un solo figlio ed erede
al trono, il principe Alessio
(1904-1917). Il piccolo zarevic (il
titolo ufficiale dell’erede dello
zar) soffriva di emofilia, malattia
altamente debilitante e considerata
fatale ai primi del Novecento, che
gli era stata trasmessa dal ramo
britannico della famiglia di
Aleksandra (la malattia si diffuse
nelle case regnanti d’Europa
attraverso le figlie della regina
Vittoria, portatrice sana e bisnonna
di Alessio). Data l’incurabilità
della patologia, sofferta solo dai
portatori maschi, la famiglia decise
di mantenere segreta, al popolo e
alla corte, la condizione del
principe. Inizialmente i genitori si
rivolsero ai migliori medici europei
per curare il figlio, senza alcun
esito positivo. Oppressi dalla
consapevolezza che ogni minima
caduta o taglio potevano risultare
fatali per il figlio, i genitori
iniziarono a trovare conforto nella
fede, riponendo piena fiducia in
Grigorij Efimovic Rasputin
(1869-1916), un monaco, mistico e
santone. La vicinanza della coppia a
tale individuo, capace di
influenzare alcune decisioni
politiche dello zar e dallo stile di
vita dissoluto e vizioso, allontanò
ancor di più i Romanov dalla nobiltà
russa, alimentando al tempo stesso
nella popolazione numerose
indiscrezioni e dicerie sulla
condotta dei sovrani.
Da un punto di vista economico, la
Russia di Nicola II presentava una
forte specificità agli inizi del
Novecento. Differentemente agli
altri paesi europei, che avevano
prodotto un proprio costante
sviluppo industriale, l’Impero russo
aveva conosciuto, sin dai tempi di
Pietro I, una crescita decisamente
diseguale, fortemente sottoposta
alla tutela dello stato, e uno
sviluppo industriale strettamente
connesso alle scelte politiche del
governo. Qualsiasi sforzo economico,
politico o militare dettato dalle
esigenze dell’autocrazia portava la
popolazione russa allo stremo.
Soltanto in seguito alla sconfitta
subita nella guerra di Crimea
(1853-56), l’autocrazia aveva
compreso l’urgenza di una crescita
industriale, puntando ad un
massiccio finanziamento
dell’industria pesante e allo
sviluppo di una rete ferroviaria
efficiente. I fattori di debolezza
economica erano però evidenti: la
forte precarietà del mercato di
acquirenti interni (condizionato dal
debole potere d’acquisto delle
grandi masse popolari) e la
fragilità del sistema bancario e
finanziario, che scoraggiavano gli
investimenti. Per sopperire a questi
deficit, il primo ministro Sergej
Jul’evic Vitte (1849-1915) sostenne,
a fine Ottocento, un accelerato
sviluppo industriale del paese
fondato su un preciso programma
economico: una politica economica e
fiscale rigorosa ai danni
principalmente delle masse popolari
delle città e delle campagne, con
un’alta pressione fiscale basata su
imposte indirette sui beni di largo
consumo (sulla vodka in particolar
modo), un protezionismo severo, una
riforma monetaria per garantire
stabilità al rublo, l’ampio ricorso
a capitali stranieri. Quest’ultimo
provvedimento ebbe un ruolo
considerevole per il decollo del
paese. Il periodo 1887-1900 fu
infatti caratterizzato dai lavori di
realizzazione della ferrovia
Transiberiana, utile per i
collegamenti e lo sviluppo della
Siberia, ma anche per favorire il
rapido spostamento di truppe nello
scacchiere asiatico. Lo sviluppo
ferroviario diede slancio anche
all’industria metallurgica e
all’estrazione petrolifera che, nel
1900, arrivò a coprire quasi la metà
della produzione mondiale di
greggio.
Questa corsa all’industrializzazione
determinò la rapida trasformazione
di intere aree dell’Impero, con la
crescita di centri urbani e
l’apertura di grandi fabbriche. In
particolar modo la regione
periferica di Mosca acquisì
un’importanza sempre maggiore, come
anche l’area attorno a San
Pietroburgo che vide la nascita di
aziende, a volte davvero
gigantesche, di metallurgia e
chimica (un esempio erano le
fabbriche Putilov di San Pietroburgo
che, a fine XIX secolo, contavano
oltre 12.000 operai). Diversamente
la regione degli Urali conobbe un
inesorabile declino, per via
dell’insufficiente collegamento
ferroviario, a fronte invece dello
sviluppo dell’Ucraina per
l’estrazione di ferro, carbone e
petrolio. Altra zona nevralgica era
quella polacca, attorno alla città
di Lodz, con aziende di
piccole-medie dimensioni. I porti
baltici di Riga, Tallin e della
capitale accoglievano invece tutte
quelle industrie di trasformazione
che necessitavano di una manodopera
esperta e specializzata per la
realizzazione di apparecchiature
elettriche e armamenti, mentre i
porti del Mar Nero videro la
crescita di industrie legate alla
chimica e al comparto alimentare.
Mosca combinava infine il settore
tessile, dei pellami e del cuoio con
la metallurgia specializzata. Uno
sviluppo industriale e di
moltiplicazione della ricchezza così
rapido iniziò tuttavia, soprattutto
a livello sociale, a scontrarsi con
una situazione politica immobile,
uscita indenne dagli
scombussolamenti politici europei
del periodo 1789 - 1848. A questa
tensione tra forze produttive in
piena espansione e istituzioni
antiche, va aggiunto anche il
dualismo di un capitalismo
industriale di punta in limitate
regione del paese contro
l’arretratezza di vaste regioni
agricole.
Osservando l’ambito agricolo, nel
1861 i contadini russi erano stati
liberati dalla secolare condizione
di servi della gleba. Questa
liberazione giuridica tuttavia non
era stata dettata da motivi
economici immediati, ma piuttosto
dal timore di un’esplosione generale
di violenza nelle campagne. Le
sommosse agrarie, che avevano
caratterizzato la Russia nel periodo
successivo alla guerra di Crimea
(1853-1856), avevano indotto il
governo a dare una soluzione di
questo tipo alla questione. I
contadini apparivano quindi liberi
sotto il profilo giuridico, ma non
lo erano ancora da un punto di vista
economico. Dopo la liberazione
l’autocrazia si sforzò con ogni
mezzo per salvaguardare gli
interessi e i privilegi
dell’aristocrazia fondiaria e i
contadini furono costretti a
riscattare, ad un prezzo spesso
eccessivo, la terra che coltivavano,
ritrovandosi indebitati. Anche se la
costrizione giuridica era scomparsa,
la dipendenza economica degli
agricoltori russi nei confronti
della nobiltà terriera si era
mantenuta, apparendo anzi nettamente
accentuata. Ma il forte
impoverimento della classe contadina
era dato anche dalla pressione
fiscale. Tale pressione, utile a
finanziare in gran parte
l’industrializzazione, era tanto più
insopportabile in quanto la
congiuntura economica determinava
una diminuzione dei prezzi agricoli
e un aumento del prezzo della terra
e del tasso degli affitti. La
necessità di procurarsi del denaro
liquido per riuscire a pagare le
tasse, costringeva l’agricoltore a
vendere, nel momento in cui la
produzione per abitante stagnava.
Prigionieri di tecniche di
lavorazione della terra vetuste ed
antiquate, dipendenti dai grandi
proprietari ai quali continuavano a
pagare affitti esosi e ad affittare
i loro servizi, i contadini russi
subivano anche la pignola tutela
della comune del villaggio. La
comune, attraverso il “Mir”
(l’organo decisionale di origine
medievale delle comunità rurali
russe), fissava le regole e le
modalità della ridistribuzione
periodica dei lotti (in ragione
delle bocche da sfamare di ciascuna
famiglia della comunità), il
calendario agricolo e la rotazione
delle colture, nonché il permesso o
meno di abbandonare la comunità per
andare a lavorare altrove. La
sopravvivenza di usi consuetudinari
e comunitari di questo tipo rendeva
impossibile l’emergere di una classe
contadina pienamente autonoma e
proprietaria, impedendo la nascita
di uno spirito di classe comune fra
gli agricoltori più poveri. Le
consuetudini comunitarie aiutano
inoltre a comprendere la concezione
molto particolare della proprietà
diffusa nelle campagne; i contadini
russi avevano la piena convinzione
che la terra non dovesse appartenere
a nessuno, non essendo un bene come
un altro, ma piuttosto un elemento
fondamentale e naturale del loro
ambiente, tanto quanto l’aria, il
legname e l’acqua. Questa concezione
(espressa senza troppe ambiguità
nelle mozioni presentate dalle
assemblee contadine durante la
Rivoluzione del 1905) li spingeva ad
impadronirsi dei boschi signorili,
ad utilizzare i pascoli dei grandi
proprietari senza alcun permesso e a
commettere atti contrari alle più
elementari leggi legate alla tutela
della proprietà privata. Ma il
passato feudale si faceva sentire
anche nella mentalità economica
degli stessi proprietari terrieri;
l’esistenza di una manodopera
abbondante e quasi gratuita, fornita
da una popolazione rurale in
soprannumero, la possibilità di
utilizzare gli attrezzi rudimentali
dei contadini che pagavano
generalmente i loro debiti sotto
forma di corvée, non incitavano
molto i padroni ad introdurre
tecniche produttive più moderne e
tecnologicamente avanzate. La
decadenza della nobiltà fondiaria,
dovuta alle sue enormi spese
improduttive, condusse ad un
progressivo trasferimento della
terra alla nascente classe borghese.
Una delle più evidenti conseguenze
dello sviluppo industriale di fine
Ottocento - inizi Novecento, fu la
formazione di un proletariato
operaio (stimabile in circa nove
milioni di operai). Quanto agli
operai propriamente detti, non
superavano i tre milioni, ed
occupavano un posto relativamente
scarso nell’enormità della massa dei
cosiddetti “poveri preindustriali”,
quali giornalieri, piccoli artigiani
e domestici. Tanto quanto la classe
contadina, anche il proletariato
operaio non aveva una coscienza di
classe, essendo molto giovane e con
una marcata separazione tra piccoli
nuclei di tradizione familiare
operaia, ben qualificati, e una
maggioranza di manovali, da poco
giunti nelle fabbriche delle città
dai villaggi contadini, ai quali
periodicamente facevano ritorno. Ma
la coscienza di appartenere alla
medesima classe era lontana
dall’essere uniforme anche in seno
al mondo operaio delle grandi città
(a titolo d’esempio, a Mosca i
ferrovieri o gli operai metallurgici
si consideravano più evoluti e
decisamente più formati degli operai
immigrati che, nel periodo
invernale, si facevano assumere in
industrie alimentari o di pellami).
Il proletariato russo era inoltre
sottoposto ad uno sfruttamento
particolarmente duro ed opprimente;
gli orari di lavoro erano lunghi (si
calcolavano dalle dodici alle
quattordici ore di lavoro), i salari
poverissimi e amputati da numerose
multe e trattenute fiscali, gli
incidenti sul lavoro molto
frequenti, la tutela del lavoratore
quasi nulla e le condizioni di
alloggio nei sobborghi cittadini
inimmaginabili.
Nel mondo del lavoro operaio era
imposto un sistema di tipo
patriarcale da parte del datore, che
spiegava l’insufficienza di leggi a
tutela del lavoratore. A livello
governativo vi era spesso una forte
divergenza tra il ministero delle
finanze che, dati i suoi legami con
il mondo della finanza e della
grande industria, tendeva a
privilegiare la classe
imprenditoriale, e il ministero
degli interni, preoccupato
essenzialmente per l’ordine pubblico
e convinto di dover intervenire in
ambito lavorativo per garantire una
protezione paternalistica, ma pur
sempre autoritaria, al mondo
operaio. Ciò determinò a fine
Ottocento il susseguirsi di leggi
protettrici (a titolo d’esempio
possiamo citare la legge del
1885-1886 che prevedeva la
proibizione del lavoro notturno per
le donne e i bambini) e di continue
deroghe a tali leggi. Come risultato
si ebbero una serie di scioperi
operai di variegato impatto, che
determinarono la nascita di forme
primitive di sindacalismo (i
cosiddetti “sindacati Zubatov”)
pienamente in linea con lo spirito
autocratico del regime zarista. Lo
zar era infatti inteso come il padre
protettore del suo popolo e, dato
che scioperi e forme di coalizione
erano vietate, spettava al governo
autocratico occuparsi della difesa
degli interessi dei lavoratori. Alla
base di questa linea si nascondeva
in realtà l’idea di riuscire a
rafforzare il lealismo tradizionale
del mondo operaio, onde evitare
disordini rivoluzionari. Ma questa
forma di sindacalismo statale si
rivelò, agli inizi del XX secolo,
un’arma a doppio taglio, in un
periodo in cui iniziava ad apparire
un nuovo lavoratore, ben diverso dal
contadino-operaio di fine Ottocento,
decisamente più cosciente,
preparato, informato e pronto a
rifiutare lo “zubatorismo” (come
riportava un rapporto di polizia del
1901: “il bravo operaio bonario si è
trasformato in un particolare tipo
di intellettuale mezzo illetterato,
che si crede obbligato a rifiutare
la religione e la famiglia, ad
ignorare a legge, a trasgredirla o
ad irriderla”). Va però sottolineato
che, in generale, le condizioni di
vita disumane della classe operaia e
la totale assenza di libertà
politiche e sindacali continuavano a
generare, ai primi del Novecento,
proteste sorde, spontanee e
circoscritte, mobilitavano masse per
scioperi e pogrom (sommosse popolari
rivolte contro le minoranze
etniche/religiose, in particolar
modo contro gli ebrei), ma senza
riuscire a favorire un’attività
politica, sindacale e di protesta di
ampio raggio. In effetti i contatti
del mondo contadino ed operaio con
le frange militanti e rivoluzionarie
restarono piuttosto limitati almeno
fino al 1905.
Da un punto di vista politico, le
trasformazioni economiche e sociali
del paese avevano contribuito alla
fioritura di un ampio movimento di
ideologie che contestavano, in modo
più o meno radicale, il regime
esistente. Tra queste la corrente
del liberalismo, che oscillava tra
due differenti visioni, una
moderata, l’altra radicale. La
tendenza moderata aveva i suoi
principali sostenitori tra i membri
della “Zemstva” (una forma di
governatorato locale). Benché il
sistema elettorale di tali assemblee
portasse ad una presenza massiccia
di privilegiati, si sviluppò
tuttavia un’opposizione, che
protestava contro l’onnipotenza
della burocrazia zarista e
l’immobilismo dell’autocrazia.
Riprendendo l’idea degli antichi
Stati Generali del passato, che
permettevano allo zar di accogliere
l’opinione dei suoi sudditi, questi
sostenitori di un ritorno alle
origini più pure dell’assolutismo si
accontentavano di una camera anche
solo consultiva, più destinata a far
sentire l’opinione del paese che a
limitare effettivamente il potere
autocratico. La tendenza più
radicale era composta invece da
numerose professioni di tipo
liberale, quali gli insegnanti, i
maestri, gli impiegati degli
“Zemstva” che, ben lontani dall’idea
marxista di lotta di classe,
ponevano invece l’accento sulla
necessità di profonde riforme
democratiche, capaci di garantire le
libertà fondamentali e un regime di
tipo liberale-parlamentare su
modello occidentale, con una
costituzione, un suffragio
universale diretto e leggi
rispettose di tutte le minoranze
nazionali.
Sul finire del secolo, i movimenti
rivoluzionari apparivano invece
nettamente divisi e davvero molto
fragili, non avendo tali correnti
delle radici profonde nel pensiero e
nella storia nazionale russa. Dopo
inizi particolarmente faticosi, il
marxismo aveva preso piede in Russia
nel corso degli anni Novanta del XIX
secolo. Ma per diversi anni, i
militanti si limitarono ad una lotta
puramente ideologica rivolta ai
populisti.
Questi
attivisti si sforzarono di
dimostrare che la Russia doveva
passare attraverso la tappa
obbligata del capitalismo e, solo
dopo averne compreso le tragiche
conseguenze, il proletariato operaio
sarebbe riuscito a concretizzare una
rivoluzione democratica e
filo-borghese, prima di prendere
attivamente il potere ed imporre il
socialismo. Inizialmente vennero
fondati alcuni circoli clandestini
in una mezza dozzina di città,
prontamente smantellati dall’“Ochrana”,
la polizia segreta russa. Dopo il
1890 gli eventi economici
(un’industrializzazione accelerata,
la nascita di un proletariato e i
primi scioperi) sembrarono
confermare le analisi dei marxisti e
ciò facilitò enormemente la loro
propaganda. Tra i fondatori di
questi piccoli circoli si era
distinto il giovane avvocato
Vladimir Il’ic Ul’janov (1870-1924),
soprannominato Lenin. Secondo il suo
pensiero, il compito prioritario era
la costituzione di un partito
marxista al quale gli operai russi
dovevano aderire unendo alla lotta
ideologica una lotta di
rivendicazione politica e sociale.
Nel 1895 fondò in Svizzera
un’organizzazione segreta nominata
Unione di lotta per la liberazione
della classe operaia, prima versione
di un partito socialdemocratico, ma
dovettero trascorrere quasi
vent’anni per l’effettiva nascita di
un partito socialdemocratico russo.
Questa lentezza si può spiegare con
l’azione della polizia zarista,
efficiente, informata e ben
infiltrata negli ambienti
rivoluzionari, che, con i suoi blitz
ed arresti, ostacolava
l’organizzazione di comitati locali
e di propaganda, ma anche con le
forti divisioni interne alla stessa
corrente rivoluzionaria. Nel 1905
Lenin venne condannato a tre anni di
deportazione in Siberia (durante i
quali scrisse una delle sue più note
opere: Lo sviluppo del capitalismo
in Russia). Nel corso della sua
assenza comparve una nuova tendenza,
definita “economicismo”; secondo i
suoi teorici bisognava porre in
prima piano nelle lotte le
rivendicazioni economiche dei
lavoratori, anche a costo di
lasciare momentaneamente ai liberali
la direzioni della lotta politica
contro l’autocrazia. Una volta
scontata la pena in Siberia, Ul’janov
fondò, con altri esponenti, un nuovo
giornale, Iskra (traducibile come La
scintilla). In questo quotidiano
Lenin, che assunse ben presto il
ruolo di caporedattore, cominciò a
formulare le sue concezioni in
materia di organizzazione politica
del partito. Nel 1902 pubblicò il
testo Che fare?, nel quale definiva
il suo pieno appoggio alla nascita
di un partito centralizzato di
militanti professionisti, il solo in
grado di distogliere il proletariato
russo dal suo sindacalismo spontaneo
e di recargli una vera coscienza di
classe, per la quale i leninisti si
sentivano gli unici depositari.
Questa concezione decisamente
accentrata del partito provocherà la
famosa spaccatura tra menscevichi
(sostenitori di una rivoluzione
spontanea e borghese) e bolscevichi
(sostenitori della teoria del
partito d’avanguardia di Lenin e di
una rivoluzione permanente) durante
il II congresso del partito operaio
socialdemocratico russo tenuto a
Bruxelles e successivamente a Londra
nel 1903.
Altra tendenza sovversiva in Russia
era la via dell’anarchia e del
terrorismo, rappresentata da
organizzazioni segrete di
combattimento, con agenti in
incognito che operavano assassinando
esponenti politici di rilievo. Gli
anni 1901-1904 videro una crescita
esponenziale degli attentati
terroristici, che ebbero come
obbiettivo molteplici ministri dello
zar. Questa campagna di assassini
ebbe certamente un forte effetto
catalizzatore in un contesto di
evidente crisi politica, sociale ed
economica.
La profonda diversità delle
opposizioni all’autocrazia russa
risultava essere lo specchio delle
numerose nazionalità che componevano
l’Impero. La politica di
russificazione, condotta dal
governo, non aveva fatto altro che
moltiplicare le ragioni di scontento
delle differenti etnie, senza però
riuscire a costituire contro
l’autorità zarista un fronte unito
delle opposizioni. L’evidente
confusione tra volontà nazionali e
interesse di classe, che Otto Bauer
(1881-1938, politico austriaco,
sostenitore del cosiddetto
austromarxismo) aveva già
evidenziato per l’Austria-Ungheria,
era altrettanto viva in Russia.
Dopo la grande espansione economica
di fine Ottocento, gli USA e
l’Europa vennero travolti da una
grave recessione economica e da una
forte contrazione del mercato dei
capitali. La crisi colpì
pesantemente l’Impero di Nicola II
poiché ricco di imprese ed aziende
che si erano costituite da poco e
che necessitavano di rilevanti
crediti bancari, in gran parte
esteri. La crisi fece apparire in
Russia tutta la debolezza di
strutture industriali fondate
essenzialmente sulle ordinazioni di
stato e sulla costruzione di linee
ferroviarie. A ciò si aggiunse, nel
1901, un cattivo raccolto che
giungeva dopo quello particolarmente
scadente del 1900. I salari già
deplorevoli degli agricoltori
subirono quindi un marcato ribasso e
l’indebitamento dei contadini più
poveri peggiorò. Anche i grandi
proprietari risentirono a loro modo
della recessione; la caduta dei
prezzi mondiali dei cereali diminuì
le loro entrate, senza che i consumi
interni potessero fornire una valida
sostituzione. A partire dal 1902,
per la prima volta dal 1861, una
vasta ondata di violente proteste
scosse le campagne e in particolar
modo l’Ucraina e l’area del Medio
Volga furono interessate da numerose
sommosse. Nelle città la ripresa
economica, iniziata nel 1903,
rilanciò l’agitazione operaia
(quell’anno si contarono oltre
200.000 manifestanti) con le
richieste di salari migliori e
condizioni di lavoro accettabili. Ma
queste rivendicazioni economiche
finirono per sfociare in precise
pretese politiche, ovvero: diritto
di sciopero, legalizzazione del
diritto sindacale, libertà
politiche. L’agitazione si estese
anche al gruppo sociale degli
studenti universitari. Già sul
finire del 1890, gli studenti
avevano iniziato le loro proteste,
non riuscendo più a tollerare
università senza forme di autonomia,
cosa che il governo non era
assolutamente disposto a concedere
(tra gli scontri più sanguinosi va
ricordato quello del febbraio 1899,
quando la polizia zarista caricò
violentemente gli studenti
all’interno dell’Università di San
Pietroburgo). Costantemente
minacciati, in caso di agitazioni,
di essere assegnati come soldati di
fanteria nell’esercito, gli studenti
di San Pietroburgo attuarono per
diversi anni scioperi continui dei
corsi. Malgrado le espulsioni e un
rigoroso filtraggio all’entrata, le
università russe si trasformarono, a
inizi Novecento, in focolai di
agitazione e propaganda
antigovernativa.
Il primo vero colpo assestato
all’autocrazia zarista venne dalla
guerra russo-giapponese del
1904-1905. Il 27 gennaio 1904 le
forze navali giapponesi sorpresero e
annientarono la flotta russa del
Pacifico a Port Arthur, in
Manciuria. Si trattava di un atto
ostile, senza alcuna formale
dichiarazione di guerra, che
giungeva dopo un periodo di rivalità
e crescente tensione tra i due
paesi. Nicola II si era infatti
impegnato, sin dal 1896, in
azzardate operazioni economiche e
politiche in Estremo Oriente,
ottenendo prima dal governo cinese
la possibilità di far transitare la
ferrovia Transiberiana attraverso la
Manciuria, poi di poterne sfruttare
le risorse naturali. Successivamente
la guerra dei boxer (1899-1901) fu
l’occasione per dichiarare la Russia
“protettrice” della regione. Lo
scontro tra i due imperialismi era
quindi inevitabile e preparato con
cura da parte giapponese, preso
invece alla leggera e con
superiorità da parte russa.
Diversamente dalle previsioni,
l’esercito zarista iniziò a
collezionare una serie di rovinose
sconfitte a oltre 8.000 km dalle sue
basi (particolarmente disastrosa fu
la battaglia di Tsushima del maggio
1905, durante la quale la Flotta
Russa del Baltico, inviata in
Oriente, venne annientata dalla
Marina Imperiale Giapponese nello
stretto di Corea). Lungi dal
provocare uno slancio di unità
nazionale attorno alla figura dello
zar, questa guerra fu avvertita come
un conflitto inutile e devastante da
un punto di vista economico.
Impegnandosi in prima persona nella
guerra, lo zar aveva commesso un
gravissimo errore politico: aveva
imposto un carico decisamente
supplementare ad un paese già minato
dalla crisi economica, provocando un
dissenso diffuso nei confronti di un
regime autocratico oramai
considerato incompetente.
Il secondo colpo dato all’autocrazia
venne dal mondo operaio. Il 3
gennaio 1905, oltre 12.000
lavoratori delle industrie Putilov
di San Pietroburgo cessarono il
lavoro per protestare contro il
licenziamento di quattro loro
compagni. La protesta si estese
immediatamente a tutte le imprese
della regione della capitale e venne
ampliata dalle notizie sulla pessima
condotta della guerra contro il
Giappone. L’8 gennaio gli
scioperanti salirono ad oltre
200.000. Georgij Gapon, a capo del
sindacato di San Pietroburgo, lanciò
l’idea di una petizione-supplica
firmata dal popolo della capitale e
rivolta al monarca. Redatta il 5
gennaio, la petizione raccolse in
pochi giorni oltre 150.000 firme. È
una sorprendente testimonianza della
mescolanza di rivendicazioni e di
fede incrollabile nella figura dello
zar. Ciò evidenzia davvero molto
bene la mentalità diffusa di un
mondo operaio ancora legato alle
proprie origini contadine, di un
passato di venerazione verso la
figura sacra del sovrano e di
evidente non diffusione delle teorie
socialiste nel mondo operaio. La
mattina del 9 febbraio un enorme
corteo di uomini, donne e bambini,
intonando canti di lode rivolti allo
zar e preceduti da icone e altri
simboli religiosi, si recarono in
processione al palazzo d’inverno (la
residenza ufficiale dello zar a San
Pietroburgo). Vennero accolti a
fucilate dai soldati della guardia
imperiale e in centinaia travolti
dalla folla presa dal panico. La
risonanza della “Domenica di sangue”
fu enorme e mandò letteralmente in
pezzi la concezione tradizionale
dello zar quale compassionevole
protettore del popolo russo.
Dal gennaio all’ottobre 1905 la
contestazione rivolta all’ordine
autocratico crebbe a dismisura,
ampliata dalla pessima condotta
della guerra contro il Giappone e
seguendo essenzialmente due vie:
quella liberale, che univa gli
strati medi della popolazione,
l’intellighenzia e una parte delle
élites, affascinate dal modello
politico europeo e che aspiravano ad
una rivoluzione pacifica e legale,
per far transitare la Russia verso
un modello di monarchia
costituzionale; quella plebea, con
richieste ed aspirazioni ancora
indefinite, nella quale si
incrociavano le richieste più
disparate, dalle sommosse agrarie
antifeudali, agli ammutinamenti,
fino alle pretese dei Soviet (le
assemblee contadine e operaie).
Nelle settimane che seguirono la
“Domenica del sangue” una prima
ondata rivoluzionaria dilagò nel
paese: nella maggioranza dei centri
urbani i ferrovieri, gli operai
metallurgici e quelli del settore
tessile si misero in sciopero.
Preoccupati dall’ampiezza del
fenomeno, i sindacati padronali, il
mondo degli affari, i gruppi di
pressione economica reclamarono a
gran voce l’instaurazione di uno
stato di diritto e l’abbandono della
politica di repressione.
Nell’agosto 1905 il primo ministro
Sergej Jul’evic Vitte introdusse
l’idea di una “Duma”, ovvero
un’assemblea legislativa,
assolutamente priva di poteri reali
e con funzioni puramente consultive.
In autunno lo zar emanò il
“Manifesto d’ottobre”, con il quale
venivano concessi alcuni diritti
politici e civili, tra i quali
l’elezione di una “Duma di Stato”,
destinata a diventare la camera
bassa dell’Impero Russo. Il
“Consiglio di Stato” avrebbe invece
assunto il ruolo di camera alta, su
modello della “Camera dei Lord” del
Regno Unito. La “Duma” era tuttavia
stata concepita sin da subito come
incredibilmente limitata: non
possedeva la piena iniziativa delle
leggi, non aveva il potere di
trasformarsi in un’assemblea
costituente, né di discutere
questioni considerate sfera politica
privata del sovrano come la
diplomazia, le relazioni economiche,
la guerra, gli affari della corte e
gli affari esteri. Già limitata
nelle sue attribuzioni legislative,
questo organo possedeva solo
prerogative finanziarie molto
ridotte, in quanto sfuggiva alle sue
competenze l’insieme delle spese
legate al debito pubblico. Lo zar
aveva inoltre il potere di
legiferare in piena autonomia tra le
sessioni della camera bassa, aveva
il potere di scioglierla e di
convocarla a sua indiscrezione,
poteva proclamare lo stato d’assedio
e sospendere, a suo completo
piacimento, l’applicazione delle
leggi e delle libertà pubbliche.
Conservava inoltre appieno il
proprio potere autocratico
illimitato, decidendo anche la
nomina dei ministri, che figuravano
responsabili solo davanti a lui.
Era, in questo modo, messa da parte
qualsiasi forma di regime
parlamentare.
Tra le esperienze di governo
successive alla nascita della
“Duma”, va ricordata quella del
ministro Petr Arkad’evic Stolypin
(1862-1911), dal luglio 1907 al
settembre 1911. Il nuovo ministro
cercò di attuare una politica
autoritaria e fortemente
conservatrice, ma decisamente
“illuminata”, fondata su una ferma
volontà di modernizzare il paese e
di costruire il suo potere su basi
diverse dalla mera repressione
poliziesca. Per questo si sforzò di
far scattare, non senza successo, la
molla di un nazionalismo crescente
tra la borghesia russa. La
modernizzazione del paese doveva,
secondo Stolypin, poggiare su tre
pilastri fondamentali: una classe
contadina pienamente proprietaria,
un’alfabetizzazione generale, una
forte crescita industriale sostenuta
dallo sviluppo di un mercato
interno. Malgrado una congiuntura
economica, politica e ideologica
molto favorevole, il ministro
commise una serie di errori che
condannarono pesantemente il suo
progetto. Il primo fu l’assenza di
una vera politica agraria. Come
aveva in effetti dimostrato
l’esempio prussiano in pieno
Ottocento, per riuscire, una vera
politica conservatrice illuminata
doveva combinare nello stesso tempo
una repressione dei partiti politici
rivoluzionari e un notevole sforzo
sociale rivolto alla classe
proletaria. Tuttavia, in Russia, in
anni di forte crescita economica,
non soltanto il livello di vita
degli operai non migliorò, ma la
legislazione sociale rimase molto
incerta. A livello locale i
sindacati rimasero strettamente
controllati dalla polizia e senza
alcuna fiducia da parte dei
lavoratori. Allo stesso tempo il
numero degli operai aumentò
considerevolmente e la nuova
generazione apparve molto più
permeabile alle idee socialiste.
Stolypin ignorò inoltre le
ripercussioni di una russificazione
forzata condotta ad oltranza che,
assieme ad una politica marcatamente
nazionalista, portò ad aizzare
contro il governo le numerose
minoranze dell’Impero. Il 14
settembre 1911 il primo ministro
venne assassinato a colpi di pistola
al teatro dell’opera di Kiev da un
agente socialrivoluzionario ebreo.
La sua scomparsa segnò
definitivamente il tramonto
dell’ultimo tentativo mediato di
rinnovare, secondo un modello
conservatore, il sistema politico
russo.
Due fattori avrebbero condannato
definitivamente l’Impero di Nicola
II: l’incapacità dell’autocrazia di
riformarsi e la guerra. La
modernizzazione del paese, con il
passaggio da un profondo ed arcaico
sottosviluppo al capitalismo
moderno, poneva come presupposto la
pace con le potenze europee. Nel
1914, entrando in guerra contro l’Austria-Ungheria
(28 luglio) e contro la Germania (30
luglio), il regime zarista “faceva
il suo più bel regalo alla
rivoluzione”, come scrisse Lenin
subito dopo gli eventi. La Grande
Guerra condusse il paese verso anni
di sconvolgimenti, che portarono la
Russia a uno dei più rapidi e
completi mutamenti politici mai
visti nella storia di un paese.
Riferimenti bibliografici:
Antonio Gibelli, La Rivoluzione
russa, Società Editrice
Internazionale, Torino 1973
Edvard Radzinskij, L’ultimo zar.
Vita e morte di Nicola II, Dalai
Editore, Milano 2001
Edvard Radzinskij, Rasputin. La
vera storia del contadino che segnò
la fine di un impero, Mondadori,
Milano 2000
Nicolas Werth, Storia della
Russia nel Novecento, Il Mulino,
Bologna 1993
W. H. Chamberlin, Storia della
Rivoluzione Russa, Giulio
Einaudi Editore, Torino 1966