[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

N° 200 / AGOSTO 2024 (CCXXXI)


contemporanea

L’Impero di Nicola II Romanov
La Russia pre-rivoluzionaria
di
Filippo Vedelago

L’Impero russo, spesso indicato come Russia imperiale, fu l’organismo statale che, a partire dal 1721 con Pietro I il Grande (1682-1725), governò la Russia, sotto la guida della dinastia dei Romanov, fino all’abdicazione di Nicola II (1894-1917), a seguito della rivoluzione del febbraio 1917. Venne preceduto dal regno degli zar moscoviti e seguito dall’Unione Sovietica. Dal punto di vista territoriale fu il terzo stato più esteso della storia; nel 1790 si estendeva su tre continenti (Europa, Asia e Nord America), confinando tanto con la Prussia quanto con il Canada britannico, affacciandosi sia sul Mar Baltico che sull’Oceano Pacifico.


Nel presente elaborato procederemo ad analizzare la situazione storica, sociale e politica del periodo 1894-1914 dell’Impero degli zar, per comprendere come il paese che, agli inizi dell’Ottocento, aveva contribuito alla sconfitta di Napoleone, ultimo prodotto della Rivoluzione Francese, venne travolto, quasi cent’anni dopo, da una rivoluzione interna che ne provocò il completo collasso.


All’alba del Novecento la Russia degli zar era una delle più vaste e una delle più fragili entità politiche del mondo. In totale anacronismo politico con gli altri stati imperialisti dell’epoca, l’Impero russo conteneva elementi di grande potenza come anche di totale condanna alla disintegrazione. Prendendo in considerazione la situazione politica europea all’inizio del XX secolo, si nota immediatamente il suo caso specifico: in un’Europa sempre più evoluta in senso liberal-democratico, con strutture parlamentari ed elettive, lo Russia rimaneva l’ultimo baluardo dell’assolutismo, con un monarca il cui potere non era limitato da alcuna forma di rappresentanza nazionale, né da alcuna legge. Particolarmente interessante da analizzare è il Codice delle Leggi dell’Impero (in vigore a fine Ottocento - primi del Novecento) che imponeva piena obbedienza alla figura dello zar, un imperatore di diritto divino con un potere descritto come “autocratico e illimitato”.


Molto più che in occidente, dove il potere delle monarchie d’antico regime era sempre stato bilanciato da innumerevoli tradizioni, privilegi, assemblee e casi di immunità, la storia aveva attribuito allo zar di Russia un assolutismo molto più puro. Le prerogative del monarca erano infatti limitate in due soli casi: l’obbligo di rispettare le leggi di successione dinastica al trono e la professione del credo ortodosso. La figura dello zar ai primi del XX secolo si presentava come un perfetto esempio di cesaropapismo, con un potere religioso e politico di derivazione divina e una giustificazione delle proprie azioni dovuta soltanto a Dio, Lo zar non era quindi soltanto un “Cesare” civile (la parola “Czar” o “Tzar” deriva dal latino “Cesar”, ovvero “Imperatore”), ma anche un “guardiano e difensore della fede”, similmente alla figura degli antichi imperatori bizantini (gli zar di Russia si consideravano infatti eredi dell’autorità dei sovrani di Bisanzio, con Mosca quale “Terza Roma”, venuta dopo la “Seconda Roma” ovvero Costantinopoli, erede a sua volta della “Roma dei Cesari”).


Date queste premesse, un possibile sviluppo del paese in senso costituzionale era pressoché impossibile, poiché ogni rinuncia da parte del monarca alla sovranità assoluta equivaleva ad un atto sacrilego. Ciò condannava l’autocrazia russa al completo immobilismo. La monarchia zarista sapeva però proporsi diversamente; a dispetto delle enormi diseguaglianze esistenti nel paese, era un valido esempio di “monarchia sociale” con un regime ugualitario garantito dallo zar “padre e protettore del suo popolo” (a riguardo gli slavofili non esitavano a sottolineare, ancora ai primi del Novecento, l’armonia e la coesione della società russa garantita dall’autocrazia del monarca, a differenza dei particolarismi e delle lotte di classe che caratterizzavano il mondo occidentale).


Nell’esercizio delle sue funzioni di capo religioso e di stato, lo zar ricorreva a una burocrazia fortemente centralizzata e gerarchizzata, così come era stata impostata nel corso del Settecento: consiglieri e ministri scelti dal sovrano, organi costituzionali composti dai più alti rappresentanti della corte e della burocrazia. Costoro, come in passato, appartenevano alla stragrande maggioranza dell’aristocrazia ereditaria, che occupava anche la maggior parte delle cariche importanti nelle provincie dell’Impero, nei vertici di comando dell’esercito e di responsabilità nell’esercizio delle imposte e dei beni dello stato. Alcuni tentativi di riforma di questo apparato erano stati avviati dallo zar Alessandro II (1856-1881), completamente stroncati da suo figlio e successore Alessandro III (1881-1894). Alla morte immatura di quest’ultimo, l’ascesa al trono di Nicola II (1894-1917) suscitò molte speranze in coloro che desideravano una nuova stagione di riforme, riferendosi ai valori delle società industriali moderne, quali il riconoscimento delle libertà fondamentali del cittadino, la laicità dello stato e un regime di rappresentanza nazionale su base elettiva. Il discorso pronunciato dal giovane zar il 29 gennaio 1895 fugò ogni minimo dubbio, opponendo un netto rifiuto a qualsiasi “sogno insensato”, dichiarandosi fermo nel mantenere il principio dell’autocrazia zarista “in modo tanto energico e immutabile quanto il mio indimenticabile padre”.


Nicola II Romanov era asceso al trono di Russia nel 1894, all’età di ventotto anni, totalmente impreparato a gestire un paese così contradditorio. Dal carattere introverso, riservato e mite, Nicola aveva impostato i primi anni del suo regno seguendo le linee dettate da Alessandro III, che avevano permesso di mantenere una certa stabilità governativa nel paese. Tra i suoi principali collaboratori figurarono quindi molti uomini di spicco della Russia del padre, come il procuratore del Santo Sinodo Konstantin Petrovic Pobedonostsev (1827-1907), i Ministri dell’Interno Ivan Logginovic Goremykin (1839-1917) e Vjaceslav Konstantinovic Pleve (1846-1904), il generale e capo della polizia di San Pietroburgo Dimitrij Fedorovic Trepov (1855-1906).
La forte inesperienza di governo di Nicola II fu determinante per la grande influenzabilità dimostrata nei primi anni di regno e per comprendere la precedenza spesso rivolta a problematiche di carattere familiare e privato rispetto agli affari di Stato. Il giovane zar aveva inoltre una concezione distorta e idealizzata della tradizione e della realtà russa, suggestionato dallo studio delle biografie dei santi ortodossi e della storia, spesso mitizzata, degli imperatori russi suoi predecessori. Era inoltre molto accondiscendente nei confronti della moglie, la zarina Aleksandra Fedorovna, nata Alice d’Assia e di Renania (1875-1917), che preferiva come residenza il tranquillo palazzo di Carskoe Selo, fuori San Pietroburgo, dove conduceva una quotidianità improntata all’impegno sociale e a scelte di vita pacate ed austere, in pieno stile vittoriano. Ciò rese la coppia aliena alle simpatie della grande aristocrazia della capitale, abituata alla mondanità e agli sfarzi di corte.


Nicola e Alessandra ebbero quattro figlie (Maria, Olga, Tatiana e Anastasia) e un solo figlio ed erede al trono, il principe Alessio (1904-1917). Il piccolo zarevic (il titolo ufficiale dell’erede dello zar) soffriva di emofilia, malattia altamente debilitante e considerata fatale ai primi del Novecento, che gli era stata trasmessa dal ramo britannico della famiglia di Aleksandra (la malattia si diffuse nelle case regnanti d’Europa attraverso le figlie della regina Vittoria, portatrice sana e bisnonna di Alessio). Data l’incurabilità della patologia, sofferta solo dai portatori maschi, la famiglia decise di mantenere segreta, al popolo e alla corte, la condizione del principe. Inizialmente i genitori si rivolsero ai migliori medici europei per curare il figlio, senza alcun esito positivo. Oppressi dalla consapevolezza che ogni minima caduta o taglio potevano risultare fatali per il figlio, i genitori iniziarono a trovare conforto nella fede, riponendo piena fiducia in Grigorij Efimovic Rasputin (1869-1916), un monaco, mistico e santone. La vicinanza della coppia a tale individuo, capace di influenzare alcune decisioni politiche dello zar e dallo stile di vita dissoluto e vizioso, allontanò ancor di più i Romanov dalla nobiltà russa, alimentando al tempo stesso nella popolazione numerose indiscrezioni e dicerie sulla condotta dei sovrani.


Da un punto di vista economico, la Russia di Nicola II presentava una forte specificità agli inizi del Novecento. Differentemente agli altri paesi europei, che avevano prodotto un proprio costante sviluppo industriale, l’Impero russo aveva conosciuto, sin dai tempi di Pietro I, una crescita decisamente diseguale, fortemente sottoposta alla tutela dello stato, e uno sviluppo industriale strettamente connesso alle scelte politiche del governo. Qualsiasi sforzo economico, politico o militare dettato dalle esigenze dell’autocrazia portava la popolazione russa allo stremo. Soltanto in seguito alla sconfitta subita nella guerra di Crimea (1853-56), l’autocrazia aveva compreso l’urgenza di una crescita industriale, puntando ad un massiccio finanziamento dell’industria pesante e allo sviluppo di una rete ferroviaria efficiente. I fattori di debolezza economica erano però evidenti: la forte precarietà del mercato di acquirenti interni (condizionato dal debole potere d’acquisto delle grandi masse popolari) e la fragilità del sistema bancario e finanziario, che scoraggiavano gli investimenti. Per sopperire a questi deficit, il primo ministro Sergej Jul’evic Vitte (1849-1915) sostenne, a fine Ottocento, un accelerato sviluppo industriale del paese fondato su un preciso programma economico: una politica economica e fiscale rigorosa ai danni principalmente delle masse popolari delle città e delle campagne, con un’alta pressione fiscale basata su imposte indirette sui beni di largo consumo (sulla vodka in particolar modo), un protezionismo severo, una riforma monetaria per garantire stabilità al rublo, l’ampio ricorso a capitali stranieri. Quest’ultimo provvedimento ebbe un ruolo considerevole per il decollo del paese. Il periodo 1887-1900 fu infatti caratterizzato dai lavori di realizzazione della ferrovia Transiberiana, utile per i collegamenti e lo sviluppo della Siberia, ma anche per favorire il rapido spostamento di truppe nello scacchiere asiatico. Lo sviluppo ferroviario diede slancio anche all’industria metallurgica e all’estrazione petrolifera che, nel 1900, arrivò a coprire quasi la metà della produzione mondiale di greggio.


Questa corsa all’industrializzazione determinò la rapida trasformazione di intere aree dell’Impero, con la crescita di centri urbani e l’apertura di grandi fabbriche. In particolar modo la regione periferica di Mosca acquisì un’importanza sempre maggiore, come anche l’area attorno a San Pietroburgo che vide la nascita di aziende, a volte davvero gigantesche, di metallurgia e chimica (un esempio erano le fabbriche Putilov di San Pietroburgo che, a fine XIX secolo, contavano oltre 12.000 operai). Diversamente la regione degli Urali conobbe un inesorabile declino, per via dell’insufficiente collegamento ferroviario, a fronte invece dello sviluppo dell’Ucraina per l’estrazione di ferro, carbone e petrolio. Altra zona nevralgica era quella polacca, attorno alla città di Lodz, con aziende di piccole-medie dimensioni. I porti baltici di Riga, Tallin e della capitale accoglievano invece tutte quelle industrie di trasformazione che necessitavano di una manodopera esperta e specializzata per la realizzazione di apparecchiature elettriche e armamenti, mentre i porti del Mar Nero videro la crescita di industrie legate alla chimica e al comparto alimentare. Mosca combinava infine il settore tessile, dei pellami e del cuoio con la metallurgia specializzata. Uno sviluppo industriale e di moltiplicazione della ricchezza così rapido iniziò tuttavia, soprattutto a livello sociale, a scontrarsi con una situazione politica immobile, uscita indenne dagli scombussolamenti politici europei del periodo 1789 - 1848. A questa tensione tra forze produttive in piena espansione e istituzioni antiche, va aggiunto anche il dualismo di un capitalismo industriale di punta in limitate regione del paese contro l’arretratezza di vaste regioni agricole.


Osservando l’ambito agricolo, nel 1861 i contadini russi erano stati liberati dalla secolare condizione di servi della gleba. Questa liberazione giuridica tuttavia non era stata dettata da motivi economici immediati, ma piuttosto dal timore di un’esplosione generale di violenza nelle campagne. Le sommosse agrarie, che avevano caratterizzato la Russia nel periodo successivo alla guerra di Crimea (1853-1856), avevano indotto il governo a dare una soluzione di questo tipo alla questione. I contadini apparivano quindi liberi sotto il profilo giuridico, ma non lo erano ancora da un punto di vista economico. Dopo la liberazione l’autocrazia si sforzò con ogni mezzo per salvaguardare gli interessi e i privilegi dell’aristocrazia fondiaria e i contadini furono costretti a riscattare, ad un prezzo spesso eccessivo, la terra che coltivavano, ritrovandosi indebitati. Anche se la costrizione giuridica era scomparsa, la dipendenza economica degli agricoltori russi nei confronti della nobiltà terriera si era mantenuta, apparendo anzi nettamente accentuata. Ma il forte impoverimento della classe contadina era dato anche dalla pressione fiscale. Tale pressione, utile a finanziare in gran parte l’industrializzazione, era tanto più insopportabile in quanto la congiuntura economica determinava una diminuzione dei prezzi agricoli e un aumento del prezzo della terra e del tasso degli affitti. La necessità di procurarsi del denaro liquido per riuscire a pagare le tasse, costringeva l’agricoltore a vendere, nel momento in cui la produzione per abitante stagnava.
Prigionieri di tecniche di lavorazione della terra vetuste ed antiquate, dipendenti dai grandi proprietari ai quali continuavano a pagare affitti esosi e ad affittare i loro servizi, i contadini russi subivano anche la pignola tutela della comune del villaggio. La comune, attraverso il “Mir” (l’organo decisionale di origine medievale delle comunità rurali russe), fissava le regole e le modalità della ridistribuzione periodica dei lotti (in ragione delle bocche da sfamare di ciascuna famiglia della comunità), il calendario agricolo e la rotazione delle colture, nonché il permesso o meno di abbandonare la comunità per andare a lavorare altrove. La sopravvivenza di usi consuetudinari e comunitari di questo tipo rendeva impossibile l’emergere di una classe contadina pienamente autonoma e proprietaria, impedendo la nascita di uno spirito di classe comune fra gli agricoltori più poveri. Le consuetudini comunitarie aiutano inoltre a comprendere la concezione molto particolare della proprietà diffusa nelle campagne; i contadini russi avevano la piena convinzione che la terra non dovesse appartenere a nessuno, non essendo un bene come un altro, ma piuttosto un elemento fondamentale e naturale del loro ambiente, tanto quanto l’aria, il legname e l’acqua. Questa concezione (espressa senza troppe ambiguità nelle mozioni presentate dalle assemblee contadine durante la Rivoluzione del 1905) li spingeva ad impadronirsi dei boschi signorili, ad utilizzare i pascoli dei grandi proprietari senza alcun permesso e a commettere atti contrari alle più elementari leggi legate alla tutela della proprietà privata. Ma il passato feudale si faceva sentire anche nella mentalità economica degli stessi proprietari terrieri; l’esistenza di una manodopera abbondante e quasi gratuita, fornita da una popolazione rurale in soprannumero, la possibilità di utilizzare gli attrezzi rudimentali dei contadini che pagavano generalmente i loro debiti sotto forma di corvée, non incitavano molto i padroni ad introdurre tecniche produttive più moderne e tecnologicamente avanzate. La decadenza della nobiltà fondiaria, dovuta alle sue enormi spese improduttive, condusse ad un progressivo trasferimento della terra alla nascente classe borghese.


Una delle più evidenti conseguenze dello sviluppo industriale di fine Ottocento - inizi Novecento, fu la formazione di un proletariato operaio (stimabile in circa nove milioni di operai). Quanto agli operai propriamente detti, non superavano i tre milioni, ed occupavano un posto relativamente scarso nell’enormità della massa dei cosiddetti “poveri preindustriali”, quali giornalieri, piccoli artigiani e domestici. Tanto quanto la classe contadina, anche il proletariato operaio non aveva una coscienza di classe, essendo molto giovane e con una marcata separazione tra piccoli nuclei di tradizione familiare operaia, ben qualificati, e una maggioranza di manovali, da poco giunti nelle fabbriche delle città dai villaggi contadini, ai quali periodicamente facevano ritorno. Ma la coscienza di appartenere alla medesima classe era lontana dall’essere uniforme anche in seno al mondo operaio delle grandi città (a titolo d’esempio, a Mosca i ferrovieri o gli operai metallurgici si consideravano più evoluti e decisamente più formati degli operai immigrati che, nel periodo invernale, si facevano assumere in industrie alimentari o di pellami). Il proletariato russo era inoltre sottoposto ad uno sfruttamento particolarmente duro ed opprimente; gli orari di lavoro erano lunghi (si calcolavano dalle dodici alle quattordici ore di lavoro), i salari poverissimi e amputati da numerose multe e trattenute fiscali, gli incidenti sul lavoro molto frequenti, la tutela del lavoratore quasi nulla e le condizioni di alloggio nei sobborghi cittadini inimmaginabili.


Nel mondo del lavoro operaio era imposto un sistema di tipo patriarcale da parte del datore, che spiegava l’insufficienza di leggi a tutela del lavoratore. A livello governativo vi era spesso una forte divergenza tra il ministero delle finanze che, dati i suoi legami con il mondo della finanza e della grande industria, tendeva a privilegiare la classe imprenditoriale, e il ministero degli interni, preoccupato essenzialmente per l’ordine pubblico e convinto di dover intervenire in ambito lavorativo per garantire una protezione paternalistica, ma pur sempre autoritaria, al mondo operaio. Ciò determinò a fine Ottocento il susseguirsi di leggi protettrici (a titolo d’esempio possiamo citare la legge del 1885-1886 che prevedeva la proibizione del lavoro notturno per le donne e i bambini) e di continue deroghe a tali leggi. Come risultato si ebbero una serie di scioperi operai di variegato impatto, che determinarono la nascita di forme primitive di sindacalismo (i cosiddetti “sindacati Zubatov”) pienamente in linea con lo spirito autocratico del regime zarista. Lo zar era infatti inteso come il padre protettore del suo popolo e, dato che scioperi e forme di coalizione erano vietate, spettava al governo autocratico occuparsi della difesa degli interessi dei lavoratori. Alla base di questa linea si nascondeva in realtà l’idea di riuscire a rafforzare il lealismo tradizionale del mondo operaio, onde evitare disordini rivoluzionari. Ma questa forma di sindacalismo statale si rivelò, agli inizi del XX secolo, un’arma a doppio taglio, in un periodo in cui iniziava ad apparire un nuovo lavoratore, ben diverso dal contadino-operaio di fine Ottocento, decisamente più cosciente, preparato, informato e pronto a rifiutare lo “zubatorismo” (come riportava un rapporto di polizia del 1901: “il bravo operaio bonario si è trasformato in un particolare tipo di intellettuale mezzo illetterato, che si crede obbligato a rifiutare la religione e la famiglia, ad ignorare a legge, a trasgredirla o ad irriderla”). Va però sottolineato che, in generale, le condizioni di vita disumane della classe operaia e la totale assenza di libertà politiche e sindacali continuavano a generare, ai primi del Novecento, proteste sorde, spontanee e circoscritte, mobilitavano masse per scioperi e pogrom (sommosse popolari rivolte contro le minoranze etniche/religiose, in particolar modo contro gli ebrei), ma senza riuscire a favorire un’attività politica, sindacale e di protesta di ampio raggio. In effetti i contatti del mondo contadino ed operaio con le frange militanti e rivoluzionarie restarono piuttosto limitati almeno fino al 1905.


Da un punto di vista politico, le trasformazioni economiche e sociali del paese avevano contribuito alla fioritura di un ampio movimento di ideologie che contestavano, in modo più o meno radicale, il regime esistente. Tra queste la corrente del liberalismo, che oscillava tra due differenti visioni, una moderata, l’altra radicale. La tendenza moderata aveva i suoi principali sostenitori tra i membri della “Zemstva” (una forma di governatorato locale). Benché il sistema elettorale di tali assemblee portasse ad una presenza massiccia di privilegiati, si sviluppò tuttavia un’opposizione, che protestava contro l’onnipotenza della burocrazia zarista e l’immobilismo dell’autocrazia. Riprendendo l’idea degli antichi Stati Generali del passato, che permettevano allo zar di accogliere l’opinione dei suoi sudditi, questi sostenitori di un ritorno alle origini più pure dell’assolutismo si accontentavano di una camera anche solo consultiva, più destinata a far sentire l’opinione del paese che a limitare effettivamente il potere autocratico. La tendenza più radicale era composta invece da numerose professioni di tipo liberale, quali gli insegnanti, i maestri, gli impiegati degli “Zemstva” che, ben lontani dall’idea marxista di lotta di classe, ponevano invece l’accento sulla necessità di profonde riforme democratiche, capaci di garantire le libertà fondamentali e un regime di tipo liberale-parlamentare su modello occidentale, con una costituzione, un suffragio universale diretto e leggi rispettose di tutte le minoranze nazionali.
Sul finire del secolo, i movimenti rivoluzionari apparivano invece nettamente divisi e davvero molto fragili, non avendo tali correnti delle radici profonde nel pensiero e nella storia nazionale russa. Dopo inizi particolarmente faticosi, il marxismo aveva preso piede in Russia nel corso degli anni Novanta del XIX secolo. Ma per diversi anni, i militanti si limitarono ad una lotta puramente ideologica rivolta ai populisti.

 

Questi attivisti si sforzarono di dimostrare che la Russia doveva passare attraverso la tappa obbligata del capitalismo e, solo dopo averne compreso le tragiche conseguenze, il proletariato operaio sarebbe riuscito a concretizzare una rivoluzione democratica e filo-borghese, prima di prendere attivamente il potere ed imporre il socialismo. Inizialmente vennero fondati alcuni circoli clandestini in una mezza dozzina di città, prontamente smantellati dall’“Ochrana”, la polizia segreta russa. Dopo il 1890 gli eventi economici (un’industrializzazione accelerata, la nascita di un proletariato e i primi scioperi) sembrarono confermare le analisi dei marxisti e ciò facilitò enormemente la loro propaganda. Tra i fondatori di questi piccoli circoli si era distinto il giovane avvocato Vladimir Il’ic Ul’janov (1870-1924), soprannominato Lenin. Secondo il suo pensiero, il compito prioritario era la costituzione di un partito marxista al quale gli operai russi dovevano aderire unendo alla lotta ideologica una lotta di rivendicazione politica e sociale. Nel 1895 fondò in Svizzera un’organizzazione segreta nominata Unione di lotta per la liberazione della classe operaia, prima versione di un partito socialdemocratico, ma dovettero trascorrere quasi vent’anni per l’effettiva nascita di un partito socialdemocratico russo. Questa lentezza si può spiegare con l’azione della polizia zarista, efficiente, informata e ben infiltrata negli ambienti rivoluzionari, che, con i suoi blitz ed arresti, ostacolava l’organizzazione di comitati locali e di propaganda, ma anche con le forti divisioni interne alla stessa corrente rivoluzionaria. Nel 1905 Lenin venne condannato a tre anni di deportazione in Siberia (durante i quali scrisse una delle sue più note opere: Lo sviluppo del capitalismo in Russia). Nel corso della sua assenza comparve una nuova tendenza, definita “economicismo”; secondo i suoi teorici bisognava porre in prima piano nelle lotte le rivendicazioni economiche dei lavoratori, anche a costo di lasciare momentaneamente ai liberali la direzioni della lotta politica contro l’autocrazia. Una volta scontata la pena in Siberia, Ul’janov fondò, con altri esponenti, un nuovo giornale, Iskra (traducibile come La scintilla). In questo quotidiano Lenin, che assunse ben presto il ruolo di caporedattore, cominciò a formulare le sue concezioni in materia di organizzazione politica del partito. Nel 1902 pubblicò il testo Che fare?, nel quale definiva il suo pieno appoggio alla nascita di un partito centralizzato di militanti professionisti, il solo in grado di distogliere il proletariato russo dal suo sindacalismo spontaneo e di recargli una vera coscienza di classe, per la quale i leninisti si sentivano gli unici depositari. Questa concezione decisamente accentrata del partito provocherà la famosa spaccatura tra menscevichi (sostenitori di una rivoluzione spontanea e borghese) e bolscevichi (sostenitori della teoria del partito d’avanguardia di Lenin e di una rivoluzione permanente) durante il II congresso del partito operaio socialdemocratico russo tenuto a Bruxelles e successivamente a Londra nel 1903.


Altra tendenza sovversiva in Russia era la via dell’anarchia e del terrorismo, rappresentata da organizzazioni segrete di combattimento, con agenti in incognito che operavano assassinando esponenti politici di rilievo. Gli anni 1901-1904 videro una crescita esponenziale degli attentati terroristici, che ebbero come obbiettivo molteplici ministri dello zar. Questa campagna di assassini ebbe certamente un forte effetto catalizzatore in un contesto di evidente crisi politica, sociale ed economica.


La profonda diversità delle opposizioni all’autocrazia russa risultava essere lo specchio delle numerose nazionalità che componevano l’Impero. La politica di russificazione, condotta dal governo, non aveva fatto altro che moltiplicare le ragioni di scontento delle differenti etnie, senza però riuscire a costituire contro l’autorità zarista un fronte unito delle opposizioni. L’evidente confusione tra volontà nazionali e interesse di classe, che Otto Bauer (1881-1938, politico austriaco, sostenitore del cosiddetto austromarxismo) aveva già evidenziato per l’Austria-Ungheria, era altrettanto viva in Russia.


Dopo la grande espansione economica di fine Ottocento, gli USA e l’Europa vennero travolti da una grave recessione economica e da una forte contrazione del mercato dei capitali. La crisi colpì pesantemente l’Impero di Nicola II poiché ricco di imprese ed aziende che si erano costituite da poco e che necessitavano di rilevanti crediti bancari, in gran parte esteri. La crisi fece apparire in Russia tutta la debolezza di strutture industriali fondate essenzialmente sulle ordinazioni di stato e sulla costruzione di linee ferroviarie. A ciò si aggiunse, nel 1901, un cattivo raccolto che giungeva dopo quello particolarmente scadente del 1900. I salari già deplorevoli degli agricoltori subirono quindi un marcato ribasso e l’indebitamento dei contadini più poveri peggiorò. Anche i grandi proprietari risentirono a loro modo della recessione; la caduta dei prezzi mondiali dei cereali diminuì le loro entrate, senza che i consumi interni potessero fornire una valida sostituzione. A partire dal 1902, per la prima volta dal 1861, una vasta ondata di violente proteste scosse le campagne e in particolar modo l’Ucraina e l’area del Medio Volga furono interessate da numerose sommosse. Nelle città la ripresa economica, iniziata nel 1903, rilanciò l’agitazione operaia (quell’anno si contarono oltre 200.000 manifestanti) con le richieste di salari migliori e condizioni di lavoro accettabili. Ma queste rivendicazioni economiche finirono per sfociare in precise pretese politiche, ovvero: diritto di sciopero, legalizzazione del diritto sindacale, libertà politiche. L’agitazione si estese anche al gruppo sociale degli studenti universitari. Già sul finire del 1890, gli studenti avevano iniziato le loro proteste, non riuscendo più a tollerare università senza forme di autonomia, cosa che il governo non era assolutamente disposto a concedere (tra gli scontri più sanguinosi va ricordato quello del febbraio 1899, quando la polizia zarista caricò violentemente gli studenti all’interno dell’Università di San Pietroburgo). Costantemente minacciati, in caso di agitazioni, di essere assegnati come soldati di fanteria nell’esercito, gli studenti di San Pietroburgo attuarono per diversi anni scioperi continui dei corsi. Malgrado le espulsioni e un rigoroso filtraggio all’entrata, le università russe si trasformarono, a inizi Novecento, in focolai di agitazione e propaganda antigovernativa.


Il primo vero colpo assestato all’autocrazia zarista venne dalla guerra russo-giapponese del 1904-1905. Il 27 gennaio 1904 le forze navali giapponesi sorpresero e annientarono la flotta russa del Pacifico a Port Arthur, in Manciuria. Si trattava di un atto ostile, senza alcuna formale dichiarazione di guerra, che giungeva dopo un periodo di rivalità e crescente tensione tra i due paesi. Nicola II si era infatti impegnato, sin dal 1896, in azzardate operazioni economiche e politiche in Estremo Oriente, ottenendo prima dal governo cinese la possibilità di far transitare la ferrovia Transiberiana attraverso la Manciuria, poi di poterne sfruttare le risorse naturali. Successivamente la guerra dei boxer (1899-1901) fu l’occasione per dichiarare la Russia “protettrice” della regione. Lo scontro tra i due imperialismi era quindi inevitabile e preparato con cura da parte giapponese, preso invece alla leggera e con superiorità da parte russa. Diversamente dalle previsioni, l’esercito zarista iniziò a collezionare una serie di rovinose sconfitte a oltre 8.000 km dalle sue basi (particolarmente disastrosa fu la battaglia di Tsushima del maggio 1905, durante la quale la Flotta Russa del Baltico, inviata in Oriente, venne annientata dalla Marina Imperiale Giapponese nello stretto di Corea). Lungi dal provocare uno slancio di unità nazionale attorno alla figura dello zar, questa guerra fu avvertita come un conflitto inutile e devastante da un punto di vista economico. Impegnandosi in prima persona nella guerra, lo zar aveva commesso un gravissimo errore politico: aveva imposto un carico decisamente supplementare ad un paese già minato dalla crisi economica, provocando un dissenso diffuso nei confronti di un regime autocratico oramai considerato incompetente.


Il secondo colpo dato all’autocrazia venne dal mondo operaio. Il 3 gennaio 1905, oltre 12.000 lavoratori delle industrie Putilov di San Pietroburgo cessarono il lavoro per protestare contro il licenziamento di quattro loro compagni. La protesta si estese immediatamente a tutte le imprese della regione della capitale e venne ampliata dalle notizie sulla pessima condotta della guerra contro il Giappone. L’8 gennaio gli scioperanti salirono ad oltre 200.000. Georgij Gapon, a capo del sindacato di San Pietroburgo, lanciò l’idea di una petizione-supplica firmata dal popolo della capitale e rivolta al monarca. Redatta il 5 gennaio, la petizione raccolse in pochi giorni oltre 150.000 firme. È una sorprendente testimonianza della mescolanza di rivendicazioni e di fede incrollabile nella figura dello zar. Ciò evidenzia davvero molto bene la mentalità diffusa di un mondo operaio ancora legato alle proprie origini contadine, di un passato di venerazione verso la figura sacra del sovrano e di evidente non diffusione delle teorie socialiste nel mondo operaio. La mattina del 9 febbraio un enorme corteo di uomini, donne e bambini, intonando canti di lode rivolti allo zar e preceduti da icone e altri simboli religiosi, si recarono in processione al palazzo d’inverno (la residenza ufficiale dello zar a San Pietroburgo). Vennero accolti a fucilate dai soldati della guardia imperiale e in centinaia travolti dalla folla presa dal panico. La risonanza della “Domenica di sangue” fu enorme e mandò letteralmente in pezzi la concezione tradizionale dello zar quale compassionevole protettore del popolo russo.
Dal gennaio all’ottobre 1905 la contestazione rivolta all’ordine autocratico crebbe a dismisura, ampliata dalla pessima condotta della guerra contro il Giappone e seguendo essenzialmente due vie: quella liberale, che univa gli strati medi della popolazione, l’intellighenzia e una parte delle élites, affascinate dal modello politico europeo e che aspiravano ad una rivoluzione pacifica e legale, per far transitare la Russia verso un modello di monarchia costituzionale; quella plebea, con richieste ed aspirazioni ancora indefinite, nella quale si incrociavano le richieste più disparate, dalle sommosse agrarie antifeudali, agli ammutinamenti, fino alle pretese dei Soviet (le assemblee contadine e operaie). Nelle settimane che seguirono la “Domenica del sangue” una prima ondata rivoluzionaria dilagò nel paese: nella maggioranza dei centri urbani i ferrovieri, gli operai metallurgici e quelli del settore tessile si misero in sciopero. Preoccupati dall’ampiezza del fenomeno, i sindacati padronali, il mondo degli affari, i gruppi di pressione economica reclamarono a gran voce l’instaurazione di uno stato di diritto e l’abbandono della politica di repressione.


Nell’agosto 1905 il primo ministro Sergej Jul’evic Vitte introdusse l’idea di una “Duma”, ovvero un’assemblea legislativa, assolutamente priva di poteri reali e con funzioni puramente consultive. In autunno lo zar emanò il “Manifesto d’ottobre”, con il quale venivano concessi alcuni diritti politici e civili, tra i quali l’elezione di una “Duma di Stato”, destinata a diventare la camera bassa dell’Impero Russo. Il “Consiglio di Stato” avrebbe invece assunto il ruolo di camera alta, su modello della “Camera dei Lord” del Regno Unito. La “Duma” era tuttavia stata concepita sin da subito come incredibilmente limitata: non possedeva la piena iniziativa delle leggi, non aveva il potere di trasformarsi in un’assemblea costituente, né di discutere questioni considerate sfera politica privata del sovrano come la diplomazia, le relazioni economiche, la guerra, gli affari della corte e gli affari esteri. Già limitata nelle sue attribuzioni legislative, questo organo possedeva solo prerogative finanziarie molto ridotte, in quanto sfuggiva alle sue competenze l’insieme delle spese legate al debito pubblico. Lo zar aveva inoltre il potere di legiferare in piena autonomia tra le sessioni della camera bassa, aveva il potere di scioglierla e di convocarla a sua indiscrezione, poteva proclamare lo stato d’assedio e sospendere, a suo completo piacimento, l’applicazione delle leggi e delle libertà pubbliche. Conservava inoltre appieno il proprio potere autocratico illimitato, decidendo anche la nomina dei ministri, che figuravano responsabili solo davanti a lui. Era, in questo modo, messa da parte qualsiasi forma di regime parlamentare.


Tra le esperienze di governo successive alla nascita della “Duma”, va ricordata quella del ministro Petr Arkad’evic Stolypin (1862-1911), dal luglio 1907 al settembre 1911. Il nuovo ministro cercò di attuare una politica autoritaria e fortemente conservatrice, ma decisamente “illuminata”, fondata su una ferma volontà di modernizzare il paese e di costruire il suo potere su basi diverse dalla mera repressione poliziesca. Per questo si sforzò di far scattare, non senza successo, la molla di un nazionalismo crescente tra la borghesia russa. La modernizzazione del paese doveva, secondo Stolypin, poggiare su tre pilastri fondamentali: una classe contadina pienamente proprietaria, un’alfabetizzazione generale, una forte crescita industriale sostenuta dallo sviluppo di un mercato interno. Malgrado una congiuntura economica, politica e ideologica molto favorevole, il ministro commise una serie di errori che condannarono pesantemente il suo progetto. Il primo fu l’assenza di una vera politica agraria. Come aveva in effetti dimostrato l’esempio prussiano in pieno Ottocento, per riuscire, una vera politica conservatrice illuminata doveva combinare nello stesso tempo una repressione dei partiti politici rivoluzionari e un notevole sforzo sociale rivolto alla classe proletaria. Tuttavia, in Russia, in anni di forte crescita economica, non soltanto il livello di vita degli operai non migliorò, ma la legislazione sociale rimase molto incerta. A livello locale i sindacati rimasero strettamente controllati dalla polizia e senza alcuna fiducia da parte dei lavoratori. Allo stesso tempo il numero degli operai aumentò considerevolmente e la nuova generazione apparve molto più permeabile alle idee socialiste. Stolypin ignorò inoltre le ripercussioni di una russificazione forzata condotta ad oltranza che, assieme ad una politica marcatamente nazionalista, portò ad aizzare contro il governo le numerose minoranze dell’Impero. Il 14 settembre 1911 il primo ministro venne assassinato a colpi di pistola al teatro dell’opera di Kiev da un agente socialrivoluzionario ebreo. La sua scomparsa segnò definitivamente il tramonto dell’ultimo tentativo mediato di rinnovare, secondo un modello conservatore, il sistema politico russo.


Due fattori avrebbero condannato definitivamente l’Impero di Nicola II: l’incapacità dell’autocrazia di riformarsi e la guerra. La modernizzazione del paese, con il passaggio da un profondo ed arcaico sottosviluppo al capitalismo moderno, poneva come presupposto la pace con le potenze europee. Nel 1914, entrando in guerra contro l’Austria-Ungheria (28 luglio) e contro la Germania (30 luglio), il regime zarista “faceva il suo più bel regalo alla rivoluzione”, come scrisse Lenin subito dopo gli eventi. La Grande Guerra condusse il paese verso anni di sconvolgimenti, che portarono la Russia a uno dei più rapidi e completi mutamenti politici mai visti nella storia di un paese.


Riferimenti bibliografici:

Antonio Gibelli, La Rivoluzione russa, Società Editrice Internazionale, Torino 1973
Edvard Radzinskij, L’ultimo zar. Vita e morte di Nicola II, Dalai Editore, Milano 2001
Edvard Radzinskij, Rasputin. La vera storia del contadino che segnò la fine di un impero, Mondadori, Milano 2000
Nicolas Werth, Storia della Russia nel Novecento, Il Mulino, Bologna 1993
W. H. Chamberlin, Storia della Rivoluzione Russa, Giulio Einaudi Editore, Torino 1966

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