N. 14 - Febbraio 2009
(XLV)
FIGLIE
Di UN DIO MINORE
LA GERARCHIA DEL
DOLORE
di Cristiano Zepponi
Che la crisi economica
costituisca solo un tassello dell’immane regresso civile
e morale dell’angolo di mondo chiamato Italia sembra
un’ovvietà consolidata ovunque, tranne nelle cosiddette
‘stanze dei bottoni’. Come stupirsi, d’altra parte,
quando intere carriere politiche si sono fondate
cavalcando la paura d’un miracolo economico al
contrario, d’un inglorioso scivolamento nelle secche
della crescita zero, se l’ultimo ventennio di storia
nostrana tradisce il continuo e frustrante tentativo di
non farsi sbattere la porta in faccia dall’elitario club
delle potenze mondiali, ormai interessate più ai mercati
orientali – ed a tante altre rilevanti questioni - che
alle eterne ambiguità del declinante capitalismo ‘made
in Italy’.
Il radicato terrore che il benessere post-bellico
potesse rivelarsi l’ennesimo fuoco fatuo d’un sentiero
senz’assoli ha consegnato il Paese ad una “razionale”
irrazionalità, isterica e reazionaria, che si spaccia
per moderna dissotterrando antiche perversioni, e
assimila diligentemente le “evidenze” confezionate per
lo scopo. Acritica e qualunquista, aggressiva ma
discreta, legittimata – quel ch’è peggio - dai
“Ministeri della paura” di orwelliana memoria.
La cosiddetta “società civile”, professionista del
cerchiobottismo imperfetto, ha recepito l’input ad
unirsi, violentemente recapitato negli ultimi tempi; non
è un caso che il periodo che riscuote più sinceri
entusiasmi nell’Italia di questi anni, nonostante i
coerenti richiami al Ventennio, sia quello del “Miracolo
economico”, in cui tutti “eravamo uniti”, si poteva
guardare al futuro con entusiasmo e soprattutto
seguitavamo il “corso della storia” dalla parte dei
vincitori.
Un’utopia retrospettiva notevole, a parer mio. Nulla da
invidiare - stando ai primi risultati – a quella su cui
si fonda la principale corrente dell’Islamismo moderno,
il sunnismo. Noi abbiamo il Miracolo (economico), loro
hanno il Profeta (e la società dei “Compagni”): momenti
di concordia, prima di tutto, proiettati nel passato.
Purtroppo, ciò comporta una conseguenza spiacevole
quanto necessaria: se quella è l’ “età dell’oro”, ed è
passata, la situazione d’ora in avanti non potrà che
peggiorare inesorabilmente. Che sfiga non esser nati
allora, insomma: adesso bisogna preoccuparsi.
Gli attentati, le epidemie (qualcuno ricorda le
terribili lettere all’antrace, capaci di scatenare
emigrazioni ed armaioli, scomparse dal palinsesto e
seppellite nel camposanto dei terrori dimenticati), le
alluvioni, la criminalità, gli zingari, i russi, i
talebani, l’integralismo – fondamentalismo islamico
(l’ironia sta nel fatto che si tratta di due termini
coniati per designare parentesi storiche del
cattolicesimo, il primo, e del protestantesimo, il
secondo), le invasioni di cavallette (negli USA, patria
della democrazia, si è arrivati a tanto), la
disoccupazione, la demolizione dello Stato sociale, le
tigri orientali, il pericolo giallo, la Cina rossa (?) e
l’oro nero.
Il popolo italiano ha reagito a quest’ondata di
problemi, angosce e insicurezze, culminate nello
scenografico attentato dell’undici settembre, ripiegando
su se stesso: e non è un caso che la Lega abbia raccolto
consensi anche istigando i rancori contro i “pervertiti
di Bruxelles”, l’ingarbugliato e paradossale
marchingegno dell’Unione Europea che nessuno capisce
abbastanza (per difenderlo) ma sovente si conosce quanto
basta (per sfruttarlo).
In un eccesso d’immedesimazione nel clima di guerra che
ci è calato attorno abbiamo riconfermato il pregiudizio
di popolo avvezzo più al pugnale che alla spada, più
alla rissa da bar che allo scontro brutale, lanciandoci
in un machiavelliano revival degli intrighi di corte
d’un tempo. Anche noi, in fondo, abbiamo trovato il
nostro nemico interno, la post-moderna “quinta colonna”,
prontamente confezionata dagli house organ di regime.
Man mano che gl’italiani smisero di sentirsi emigranti,
infatti, cominciarono a valutare l’entità del nuovo
pericolo, le genti barbare (altro termine curioso:
derivando da ‘βάρβαρος’ – translitterato, ‘barbaros’, i
“balbuzienti” - onomatopea con cui gli antichi greci
indicavano gli stranieri incapaci di parlare il greco,
non po’ non ricordare le scimmiottature nostrane dei
‘vucumprà’ spiaggeschi) d’oltremare, approdate per
carpirci gli ultimi scampoli di benessere residuo:
gl’immigrati, diabolica categoria votata al furto del
lavoro altrui, proprio quando più ne avremmo bisogno.
Contemporaneamente, per nostra sciagura, la famiglia
tradizionale è stata imposta ai nostri occhi come
l’unica “naturale”, e quindi ‘buona’ (altra ironia:
l’equazione natuale-buono tra gli altri, fu proposta e
sostenuta dall’Illuminismo), con il logico corollario
della condizione della donna, tornata sulla difensiva
dopo gli exploit novecenteschi. Una donna in pericolo,
bersaglio sensibile e ripiegato, che la comunità ha il
“dovere” di proteggere, riesce a coagulare attorno a sé
larghe fette della società, paternamente gelose delle
proprie “figlie”; e specie in occasioni particolarmente
violente o socialmente inaccettabili questo avviene in
modo viscerale e perverso: professando vicinanza alle
vittime e sottraendogli al contempo il monopolio della
rabbia, l’irragionevolezza dell’esasperazione, il
sacrosanto diritto alla disperazione ed al rancore,
senza che ne neanche se ne accorgano.
E’ accaduto – purtroppo – a Guidonia, modesto centro
alle porte di Roma, il fatto che – a parte le
conseguenze morali, che non ci riguardano – s’incarica
di fornire ai protagonisti in questione slogan
preconfezionati e accessibili. I rumeni incriminati
(“operai di giorno, criminali di notte”, a conferma di
quanto detto sopra) unificano la società civile,
assetata di vendetta contro il corpo estraneo.
I forcaioli a intermittenza pullulano, in questi giorni.
Il fatto che non sia l’episodio in sé a scatenare la
rabbia primordiale è, ad un occhio vigile, evidente. E’
questo un ‘événement’, come si dice in storia,
unanimemente considerato esecrabile come pochi altri,
d’accordo; ma soprattutto caricato di decenni
d’incomprensioni, silenzi e ostilità in modo
emblematico, e per certi versi rivelatore.
Il cuore del fatto, la granitica cementificazione dello
schieramento politico, trascende il contenitore ed in un
certo senso se ne sbarazza, e presto cavalcherà un nuovo
cavallo: di una cosa siamo certi, che non mancheranno
mai angosce da rinfocolare. E uguale, di questo passo,
sarà il trattamento riservato ai pochi che rifiuteranno
l’allineamento forzato alle posizioni della comunità
“attaccata”: ogni voce discorde, in questi giorni,
sarebbe stata subissata dai fischi, come se ricordare il
dettaglio sul garantismo ostracizzasse dal coro
monocorde, come se equivalesse ad una penuria di
patriottismo, ad un’espressione d’indecisione o
d’irresolutezza.
Il fatto scivola via, col tempo. Nonostante il fervore
accusatorio, scivolerà via allo stesso modo di un
analogo fatto di cronaca, precedente, ma rivelato in
questi giorni.
Lo scorso 13 maggio un quarantenne, Alessio Amadio,
compagno della proprietaria di un call center, avrebbe
(in molti usano il modo indicativo) stuprato con
l’ausilio di un taglierino un’addetta alle pulizie del
locale, Magdalena, di trentotto. Rumena.
In effetti, quella d’indicare l’etnia o la nazionalità
nelle notizie è un’abitudine particolarmente cara ai
giornalisti nostrani, visibilmente eccitati dai crimini
degl’immigrati, ovvero la fascia più debole della
popolazione; ma in questo caso devo farla mia, per
motivi opposti.
Amadio è un italiano, in effetti; anche se non mi pare
che i rumeni ci abbiano costretto a professare la nostra
estraneità al fatto, come abbiamo fatto noi con loro,
nel solito stucchevole gioco delle discolpe.
L’intera collettività rumena – colpevole di condividere
l’origine etnica dei criminali di Guidonia – per
difendersi ha dovuto sfoderare i volti più presentabili,
capitanati dall’indimenticabile Ramona Badescu,
"Consigliere per i Rapporti con la Comunità Rumena", che
si è affrettata a ribadire la volontà di collaborare con
le forze dell’ordine; come se fosse in dubbio, hanno
dovuto riaffermare la loro fedeltà alla causa, sotto il
peso delle occhiatacce crescenti, e per evitare
ulteriori conseguenze.
Eppure, la riprovazione morale che l’episodio avrebbe
dovuto scatenare non si è coagulata, nonostante Amadio
si lasciasse sfuggire con gli agenti della Squadra
Mobile sopraggiunti per arrestarlo che “un maschio
italiano non può essere fedele”. Il fatto, avvenuto ai
Parioli (nella “Roma bene”, dunque) avrebbe dovuto
monopolizzare l’attenzione, richiamare sulla questione
le stesse volenterose legioni d’opinionisti arruolate in
tutti gli altri casi. E invece, niente.
Lei, che ha avuto la forza di denunciare la violenza, è
stata licenziata. “Della promessa di Alemanno che il
Comune si sarebbe costituito parte civile, nessuna
traccia”, denuncia ora l’avvocato di Magdalena, Carlo
Testa Piccolomini. Ed in effetti, il Comune ha disatteso
anche le promesse mediatiche di aiuto dal punto di vista
lavorativo.
Davanti al Tribunale, il 21 gennaio in mattinata, c’era
solo l’ “Assemblea romana di femministe e lesbiche”, che
dal punto di vista mediatico (mi perdonino) non è che
contino moltissimo, come si evince dai servizi
televisivi dedicati alla vicenda: a occhio e croce,
zero.
All’epoca, il sindaco Alemanno aveva parlato con enfasi
di “fatto gravissimo”, ma poi l’indignazione dev’essersi
smorzata; Magdalena era consenziente, ha sostenuto al
contempo Amadei, agitando il vessillo del complotto (che
ne deriva logicamente) e contribuendo ad ingarbugliare
la situazione, agli occhi dei pochi che la seguono.
In questo modo, non potendo identificare un nemico
interno, faticando a percepire come egualmente “figlia
della comunità” un elemento esterno, i trombettieri
dell’adunata hanno deciso d’ignorare una vicenda
scarsamente funzionale al clima di questi giorni,
pompandone abbondantemente un’altra, quella di Guidonia,
affrontata con atteggiamento cristallizzante, clanico e
pregiudizievole, alla “armiamoci e partite” in versione
xenofoba.
Il nostro declino passa da qui, da una povertà culturale
che trasforma la tolleranza in debolezza,
dall’incapacità di fornire un’alternativa egualmente
eccitante, magari - chissà - partendo da momenti come
questi, e dall’indignazione - civile - che ne deriva.
Passa dalla necessità di sviluppare una nuova visione
(laica, preferibilmente) dell’età dell’oro, di
rigettarla nel futuro, scacciando l’immobilismo ed il
senso di declino insiti nel modello attuale, collocato
nel passato.
Concludo. A conferma di quanto detto, negli ultimi
giorni la deputata radicale Rita Bernardini, insieme al
segretario dell'Associazione "Nessuno Tocchi Caino", ha
visitato a Rebibbia i sei romeni accusati degli
avvenimenti di Guidonia: "uno zoppicava ed aveva segni
di percosse su un occhio, sulle gambe e sull'anca
destra, altri due avevano gli occhi pesti, ma
affermavano, uno di essere caduto e l'altro di essersi
picchiato da solo per la disperazione. Ma due hanno
ammesso di essere stati pestati a più riprese nelle
camere di sicurezza della caserma dei carabinieri di
Guidonia", ha raccontato la parlamentare. E ha
continuato: “il romeno che dice di essersi picchiato da
solo non riesce a mangiare, è disperato e piange in
continuazione. Un altro, che non parla una parola di
italiano, deglutisce in continuazione, si vede che sono
tutti terrorizzati. Quelli che parlano italiano ci hanno
spiegato che in caserma erano in sei celle diverse e
ogni tanto qualcuno entrava e li picchiava".
La deputata Bernardini ha voluto precisare che proprio
nei casi di reati di violenza sessuale “la forza e la
credibilità delle istituzioni risieda nel rispetto più
rigoroso della legalità e del rispetto dei diritti umani
delle persone accusate”; lei, donna, ha voluto
precisarlo, regalandoci gocce di buon senso flebili e
isolate, sì: ma bastevoli, forse, per irrigare un po’
l’arido panorama politico italiano.
Non aggiungo altro. ‘Intelligenti pauca’, dicevano i
latini.
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