I FIGLI DEL NEMICO
La sfortunata generazione dei
“bambini della vergogna”
di Antonello Scenna
Negli anni che videro l’Italia alle
prese con il lungo e travagliato
processo di liberazione, uno degli
aspetti che più di tutti interessò
le autorità e l’opinione pubblica fu
senza alcun dubbio quello inerente
ai cosiddetti “figli del nemico”.
La questione, che aveva avuto già
dei precedenti nel primo dopoguerra,
acquisisce ora un valore in più,
soprattutto laddove non si parla
solo ed esclusivamente di bambini
nati da un rapporto di costrizione
tra la vittima e il carnefice, ma
perché tra costoro vengono spesso
indicati anche tutti quei bambini
figli di relazioni consenzienti. Si
tratta, infatti, di vere e proprie
storie d’amore o d’amicizia; storie
che il più delle volte sono iniziate
con dei semplici fidanzamenti, e che
poi si sono evolute in relazioni
molto più durature e che, in alcuni
casi, sono sfociate anche in
“matrimoni misti”.
Da un punto di vista meramente
simbolico, queste donne si
collocavano esattamente agli
antipodi delle “resistenti”, di
quelle partigiane che avevano
combattuto per la propria patria,
che erano scampate alla prigionia e
alle torture, che avevano accudito i
feriti e salvaguardato l’interesse
comune. Esse erano il ritratto della
donna perfetta, che aveva atteso con
premura il ritorno del proprio
fidanzato o marito, senza cedere
alle lusinghe del nemico.
Questo sentimento ambivalente che
contrapponeva l’amante del nemico
alla forte e valorosa partigiana, si
accentuerà in maniera sempre più
pressante negli anni che seguiranno
la liberazione, fornendo, dunque, le
basi di una nuova società.
Emblematico a tal riguardo è il
romanzo di Renata Viganò,
L’Agnese va a morire, opera in
cui si ritraeva il profilo di una
donna nuova, antifascista e su cui
faceva leva la nascita di una nuova
nazione, liberata dalla piaga del
collaborazionismo. Questo nuovo
stereotipo di donna e questa forte
pubblicizzazione avevano,
naturalmente, una duplice valenza:
da una parte porre rimedio alla
morale pubblica e dall’altro
rimarcare ancora una volta le colpe
di quelle donne “deboli” che avevano
ceduto alla passione in un periodo
storico così delicato.
Dunque, a ben vedere, l’odio e il
rancore verso le donne non accennava
a placarsi nemmeno nel periodo
immediatamente successivo alla fine
della guerra anzi, soprattutto per
tutte quelle donne che avevano avuto
un figlio da queste storie, la
situazione era molto più drastica,
non solo per la loro emarginazione e
per l’etichetta sociale che avevano
ormai acquisto ma, ancor di più
perché a essere attaccati furono
anche i loro stessi bambini,
evidente frutto del peccato.
Per i “figli della vergogna”, la cui
percentuale, stando ad alcune stime
riportate dalle Nazioni Unite, si
attestava intorno alle 700 unità,
crescere nell’Italia repubblicana
significava rivivere il dramma
vissuto dalle proprie madri. Essi
erano praticamente condannati ad
addossarsi, seppur innocenti, il
peso di uno stigma sociale che li
avrebbe condannati all’infamia fino
alla morte.
Per molte donne, naturalmente, il
peso della colpa era troppo grande e
per questo furono in molte coloro
che, pur di sopravvivere alla
collettività e all’insulto morale di
essere state “traditrici della
propria patria”, decisero di
abortire. La questione degli aborti
era piuttosto complessa, anche
perché bisognava distinguere tra
aborti verificatisi in ambito
privato e aborti effettuati presso
strutture ospedaliere. La maggiore
difficoltà consisteva nel fatto che
“i documenti che autorizzavano gli
aborti erano segreti di Stato”, il
che rendeva oggettivamente difficile
ricostruire l’esatto numero di donne
che avevano fatto ricorso a questa
dolorosa pratica. In ogni caso è
possibile, dal punto di vista
geografico, affermare che,
soprattutto nelle zone dell’Oltrepò
Pavese, furono praticati moltissimi
aborti.
In molti altri casi, invece, le
donne, condizionate anche dalle
stesse famiglie, decisero di
abbandonare i propri figli nelle
varie istituzioni che sorsero al
fine di fronteggiare una simile
situazione. La famiglia era,
infatti, il luogo in cui, in certi
periodi storici più che in altri, a
fungere da collante non era solo ed
esclusivamente il legame di sangue,
ma il senso di onore che spesso
investiva in primo luogo l’immagine
e la reputazione della donna.
Dal momento che la famiglia, al
tempo, rappresentava il nucleo
fondamentale della società, era
chiaro che quell’onore andava a
condizionare l’intero contesto
socioculturale in cui la donna
viveva. Ecco allora che la donna
doveva far fronte al giudizio che le
veniva imposto dall’esterno e di cui
doveva tener conto ogni volta che si
trovava a gestire i rapporti con il
resto della società. Ma il motivo
dell’abbandono non era solo ed
esclusivamente di natura morale.
Molte furono le donne che presero la
drastica decisione di abbandonare i
propri figli nei “brefotrofi” per
motivi di natura economica, essendo
queste stesse il più delle volte
prive di qualsiasi mezzo per poterli
sostentare.
In realtà le madri che abbandonarono
i propri figli nei brefotrofi al
fine di potergli garantire quanto
meno viveri e medicine non
immaginavano affatto che le loro
scelte si sarebbero rivelate, per
quegli stessi figli, catastrofiche.
Le istitutrici del brefotrofio erano
perfettamente a conoscenza dello
status di “figlia/o del nemico” il
che, molto probabilmente, era causa
scatenante di punizioni, vessazioni
e privazioni di ogni genere. Il
danno psicologico e il disagio
vissuto nella prima infanzia erano
ineguagliabili. Le vite dei figli
del nemico furono costellate di
passaggi da un istituto all’altro,
di luoghi, volti, affetti che
cambiavano costantemente e non
potevano non provocare fortissimi
squilibri nel carattere e nella
persona.
L’essere stati abbandonati e
sottoposti a una vita di solitudine
e di umiliazioni, non fece altro che
enfatizzare il concetto di “madre
colpevole”, concetto che continuerà,
dunque, ad avere grande risonanza
nella memoria dei figli abbandonati.
La Seconda guerra mondiale
rappresentò, ancora una volta, una
guerra dalle caratteristiche
“totali” che non lasciava scampo
nemmeno all’innocenza dei bambini,
una guerra senza limiti, combattuta
su ogni fronte sia durante che dopo
il conflitto.
Per meglio capire la storia dei
“figli del nemico” è dunque
opportuno analizzare fino in fondo
le sofferenze patite: il peso delle
colpe e la consapevolezza di
trascinarsi dietro lo stigma di una
“doppia identità” sono elementi
marcatamente incisi nelle menti di
quei bambini per il resto della
vita, destinati all’ostracismo di
una comunità ancora fortemente
paternalistica e al giudizio
sommario di una collettività che ha
posto sul patibolo i figli per amore
delle madri e le madri per “amore
del nemico”.
Riferimenti bibliografici:
Patrizia Cecconi, Quel velo di
pudore che copre di oblio la
violenza di genere, in Simona La
Rocca (a cura di), Stupri di
guerra e violenze di genere,
Futura, Roma 2015.
Gabriella Gribaudi, Guerra
Totale. Tra bombe alleate e violenze
naziste. Napoli e il fronte
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Boringhieri Editore, Torino 2005.
Michela Ponzani, Figli del
nemico. Le relazioni d’amore in
tempo di guerra 1943-1948,
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Valentina Muià, Gli stupri di
guerra nell’Oltrepò Pavese e nelle
Valli Liguri: le “mongolate”, in
Simona La Rocca (a cura di),
Stupri di guerra e violenze di
genere, Futura, Roma 2015.