[ISSN 1974-028X]

[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE] *

 

181 / GENNAIO 2023 (CCXII)


contemporanea

I FIGLI DEL NEMICO
La sfortunata generazione dei “bambini della vergogna”

di Antonello Scenna

 

Negli anni che videro l’Italia alle prese con il lungo e travagliato processo di liberazione, uno degli aspetti che più di tutti interessò le autorità e l’opinione pubblica fu senza alcun dubbio quello inerente ai cosiddetti “figli del nemico”.

 

La questione, che aveva avuto già dei precedenti nel primo dopoguerra, acquisisce ora un valore in più, soprattutto laddove non si parla solo ed esclusivamente di bambini nati da un rapporto di costrizione tra la vittima e il carnefice, ma perché tra costoro vengono spesso indicati anche tutti quei bambini figli di relazioni consenzienti. Si tratta, infatti, di vere e proprie storie d’amore o d’amicizia; storie che il più delle volte sono iniziate con dei semplici fidanzamenti, e che poi si sono evolute in relazioni molto più durature e che, in alcuni casi, sono sfociate anche in “matrimoni misti”.

 

Da un punto di vista meramente simbolico, queste donne si collocavano esattamente agli antipodi delle “resistenti”, di quelle partigiane che avevano combattuto per la propria patria, che erano scampate alla prigionia e alle torture, che avevano accudito i feriti e salvaguardato l’interesse comune. Esse erano il ritratto della donna perfetta, che aveva atteso con premura il ritorno del proprio fidanzato o marito, senza cedere alle lusinghe del nemico.

 

Questo sentimento ambivalente che contrapponeva l’amante del nemico alla forte e valorosa partigiana, si accentuerà in maniera sempre più pressante negli anni che seguiranno la liberazione, fornendo, dunque, le basi di una nuova società. Emblematico a tal riguardo è il romanzo di Renata Viganò, L’Agnese va a morire, opera in cui si ritraeva il profilo di una donna nuova, antifascista e su cui faceva leva la nascita di una nuova nazione, liberata dalla piaga del collaborazionismo. Questo nuovo stereotipo di donna e questa forte pubblicizzazione avevano, naturalmente, una duplice valenza: da una parte porre rimedio alla morale pubblica e dall’altro rimarcare ancora una volta le colpe di quelle donne “deboli” che avevano ceduto alla passione in un periodo storico così delicato.

 

Dunque, a ben vedere, l’odio e il rancore verso le donne non accennava a placarsi nemmeno nel periodo immediatamente successivo alla fine della guerra anzi, soprattutto per tutte quelle donne che avevano avuto un figlio da queste storie, la situazione era molto più drastica, non solo per la loro emarginazione e per l’etichetta sociale che avevano ormai acquisto ma, ancor di più perché a essere attaccati furono anche i loro stessi bambini, evidente frutto del peccato.

 

Per i “figli della vergogna”, la cui percentuale, stando ad alcune stime riportate dalle Nazioni Unite, si attestava intorno alle 700 unità, crescere nell’Italia repubblicana significava rivivere il dramma vissuto dalle proprie madri. Essi erano praticamente condannati ad addossarsi, seppur innocenti, il peso di uno stigma sociale che li avrebbe condannati all’infamia fino alla morte.

 

Per molte donne, naturalmente, il peso della colpa era troppo grande e per questo furono in molte coloro che, pur di sopravvivere alla collettività e all’insulto morale di essere state “traditrici della propria patria”, decisero di abortire. La questione degli aborti era piuttosto complessa, anche perché bisognava distinguere tra aborti verificatisi in ambito privato e aborti effettuati presso strutture ospedaliere. La maggiore difficoltà consisteva nel fatto che “i documenti che autorizzavano gli aborti erano segreti di Stato”, il che rendeva oggettivamente difficile ricostruire l’esatto numero di donne che avevano fatto ricorso a questa dolorosa pratica. In ogni caso è possibile, dal punto di vista geografico, affermare che, soprattutto nelle zone dell’Oltrepò Pavese, furono praticati moltissimi aborti.

 

In molti altri casi, invece, le donne, condizionate anche dalle stesse famiglie, decisero di abbandonare i propri figli nelle varie istituzioni che sorsero al fine di fronteggiare una simile situazione. La famiglia era, infatti, il luogo in cui, in certi periodi storici più che in altri, a fungere da collante non era solo ed esclusivamente il legame di sangue, ma il senso di onore che spesso investiva in primo luogo l’immagine e la reputazione della donna.

 

Dal momento che la famiglia, al tempo, rappresentava il nucleo fondamentale della società, era chiaro che quell’onore andava a condizionare l’intero contesto socioculturale in cui la donna viveva. Ecco allora che la donna doveva far fronte al giudizio che le veniva imposto dall’esterno e di cui doveva tener conto ogni volta che si trovava a gestire i rapporti con il resto della società. Ma il motivo dell’abbandono non era solo ed esclusivamente di natura morale. Molte furono le donne che presero la drastica decisione di abbandonare i propri figli nei “brefotrofi” per motivi di natura economica, essendo queste stesse il più delle volte prive di qualsiasi mezzo per poterli sostentare.

 

In realtà le madri che abbandonarono i propri figli nei brefotrofi al fine di potergli garantire quanto meno viveri e medicine non immaginavano affatto che le loro scelte si sarebbero rivelate, per quegli stessi figli, catastrofiche.

 

Le istitutrici del brefotrofio erano perfettamente a conoscenza dello status di “figlia/o del nemico” il che, molto probabilmente, era causa scatenante di punizioni, vessazioni e privazioni di ogni genere. Il danno psicologico e il disagio vissuto nella prima infanzia erano ineguagliabili. Le vite dei figli del nemico furono costellate di passaggi da un istituto all’altro, di luoghi, volti, affetti che cambiavano costantemente e non potevano non provocare fortissimi squilibri nel carattere e nella persona.

 

L’essere stati abbandonati e sottoposti a una vita di solitudine e di umiliazioni, non fece altro che enfatizzare il concetto di “madre colpevole”, concetto che continuerà, dunque, ad avere grande risonanza nella memoria dei figli abbandonati. La Seconda guerra mondiale rappresentò, ancora una volta, una guerra dalle caratteristiche “totali” che non lasciava scampo nemmeno all’innocenza dei bambini, una guerra senza limiti, combattuta su ogni fronte sia durante che dopo il conflitto.

 

Per meglio capire la storia dei “figli del nemico” è dunque opportuno analizzare fino in fondo le sofferenze patite: il peso delle colpe e la consapevolezza di trascinarsi dietro lo stigma di una “doppia identità” sono elementi marcatamente incisi nelle menti di quei bambini per il resto della vita, destinati all’ostracismo di una comunità ancora fortemente paternalistica e al giudizio sommario di una collettività che ha posto sul patibolo i figli per amore delle madri e le madri per “amore del nemico”.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

Patrizia Cecconi, Quel velo di pudore che copre di oblio la violenza di genere, in Simona La Rocca (a cura di), Stupri di guerra e violenze di genere, Futura, Roma 2015.

Gabriella Gribaudi, Guerra Totale. Tra bombe alleate e violenze naziste. Napoli e il fronte meridionale 1940-44, Bollati Boringhieri Editore, Torino 2005.

Michela Ponzani, Figli del nemico. Le relazioni d’amore in tempo di guerra 1943-1948, Laterza, Roma-Bari 2015.

Valentina Muià, Gli stupri di guerra nell’Oltrepò Pavese e nelle Valli Liguri: le “mongolate”, in Simona La Rocca (a cura di), Stupri di guerra e violenze di genere, Futura, Roma 2015.

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[ iscrizione originaria (aggiornata 2007) al tribunale di Roma (editore eOs): n° 215/2005 del 31 maggio ]