N. 13 - Giugno 2006
FESTE PAGANE
ESTIVE DEL NORD RUSSO
Kupala o la
Festa di San Giovanni e i suoi riti
di
Aldo
Marturano
Come abbiamo sempre ripetuto lungo le righe del nostro
lavoro, il contadino russo è molto sensibile alle
vicissitudini del sole nel firmamento. Ogni strana
variazione come un’eclissi o la vista di macchie o una
cometa etc. è vista come una minaccia per la propria
esistenza e questi fenomeni eccezionali, talvolta
unici, sono guardati come una punizione a lui inflitta
per aver forse sbagliato o peccato e quindi questa è
la punizione meritata.
Al contrario il Solstizio d’Estate, che oggigiorno
cade fra nella notte fra il 24 e il 25 giugno,
rappresenta un fenomeno astronomico abbastanza
caratteristico, periodico e molto favorevole alle
attività umane perché il sole ha rallentato la sua
corsa attraverso il firmamento e proprio in questo
periodo addirittura “si ferma”. E’ vero, anche la
notte si accorcia e, come a Novgorod o a Pskov, il
sole rimane quasi senza interruzione nel cielo
lasciando che le messi imbiondiscano e la natura goda
della luce vivificatrice. Dunque il Solstizio è un
miracolo che si ripete. Potrebbe però mai accadere che
una cosa talmente straordinaria non si ripeta più?
La spiegazione contemporanea che conosciamo perché
l’abbiamo imparato a scuola, ci assicura di no. Il
Solstizio si ripete. Tale sicurezza scientifica
tuttavia non corrisponde assolutamente a quella che
circolava nel Medioevo e qui nei villaggi russi. Se ci
sono gli dèi del sole e del cielo, ecco che questa è
una loro decisione di concedere più luce e più a lungo
all’umanità oppure di non concederla affatto. E’ un
segno e una conferma in più della loro potenza sugli
uomini…
Anche nello Stoglav per il Solstizio d’Estate abbiamo
una menzione speciale, come Festa di Kupala.
Qui si dice che essa è in onore del fuoco che purifica
e che libera dai mali del corpo oltre a portare la
fecondità alle donne.
Con questa impostazione malgrado tutto la Festa del
Solstizio è comunissima in tutta l’Europa e i suoi
riti dall’Atlantico agli Urali hanno un fondo
mitologico comune forse risalente ai primi popoli che
invasero l’Europa o che nacquero proprio qui e che
oggi parlano ancora, fra le altre, una lingua
indoeuropea. Non è dunque una peculiarità esclusiva
dei riti pagani “russi”. Tuttavia non esiste folclore
conservatosi più ricco di quello delle genti “russe”
dove il sole domina qualsiasi espressione artistica,
dalla pittura all’intaglio, dal ricamo alle forme dei
cibi solidi. E questo dobbiamo ammetterlo, come
storici e testimoni di una cultura unica…
Fra tutte le leggende e le spiegazioni religioso-magiche
che circolano sul Solstizio, ne abbiamo preferita una
di provenienza bielorussa che narra come Dazhbog, il
dio dominante queste celebrazioni, avendo visto la
figlia del Re del Mare, una bellissima ragazza a nome
Lada, se ne fosse innamorato. Costei però aveva
rifiutato tutte le sue profferte per cui Dazhbog pensò
bene di ricorrere all’inganno.
Per riuscire a tenerla lontana dall’acqua del mare dove suo
padre l’avrebbe sempre potuto difendere, ricorse ai
metodi in voga nel Mar Baltico, il commercio muto. Si
procurò così delle scarpe dal tacco altissimo e le
pose ad una certa distanza dalla riva e si ritirò nel
cielo. Lada, attirata dalle lucenti calzature, venne a
riva per provarle e, mentre era impacciata a causa dei
tacchi, Dazhbog rapidamente scese dal suo carro di
fuoco, la ghermì e la portò via con sé nel suo
palazzo. Il carro del sole lasciato a sé, si fermò in
attesa che i due amanti consumassero i loro amplessi.
Ecco perché c’è il Solstizio ed ecco perché ogni anno
Dazhbog, a ricordo di questo suo grande amore, rinnova
il fenomeno. Ammettiamo che questa leggenda in realtà
non ha grande attinenza con la nostra ricerca, ma
l’abbiamo riportata qui affinché il nostro lettore
capisca come nascono i miti e i personaggi che
diventano a volte degli dèi.
L’analisi etimologica della parola Kupala ci
riporta ad una radice indoeuropea *kup- che
originariamente significa ardo, bollo dal desiderio
ed è quindi collegata con il verbo latino cupio
di uguale significato (da cui l’italiano, concupiscenza
o il russo antico kipiti,
bollire) e col nome del dio Cupido. Dunque il
collegamento è chiarissimo col il sole che arde per
un’intera notte fino al mattino seguente e con il
desiderio “ardente” di celebrare il rito dell’amore
evitando il buio negativo della notte.
Per Kupala c’era tutta una serie di riti
speciali e periodici che andavano eseguiti con
attenzione e con devozione. Il più importante, in un
mondo dove accendere il fuoco era sempre un’operazione
faticosa e lunga, era quello di spegnere la pec’ka,
di svuotarla dalle ceneri raccoltesi per tutto l’anno
e di riaccenderla. Il fuoco come in qualsiasi altra
cultura pagana del passato rappresentava non solo la
distruzione degli oggetti, ma anche la loro
purificazione e quindi la loro rinascita. Gli Slavi
conoscevano certamente il rito di passaggio fra le
fiamme come metodo di purificazione corporale sebbene
poi quando Michele, principe di Cernìgov, fu costretto
a compierlo presso i Tatari di Sarai il 20 settembre
1246 costui lo sentì come un atto di ritorno al
paganesimo e per essersi rifiutato di compierlo fu
ucciso dai Tatari. Per questo suo stoico sacrificio fu
fatto santo martire della fede dalla Chiesa Ortodossa.
Il fuoco era caduto una prima volta dal cielo in tempi
remotissimi per azione del fulmine che si era
abbattuto su qualche albero della foresta e lo aveva
dato alle fiamme. Come fare allora a riprodurlo?
Sfregando fra loro due oggetti magici, sempre donati
agli uomini dagli dèi (rammentate il mito di
Prometeo?), lo si poteva riottenere come fiamma viva.
Evidentemente il fuoco causato dal fulmine era
considerato però più sacro di qualsiasi altro e se una
casa andava in fiamme per questo, nessuno avrebbe mai
osato spegnerlo, perché era contrario al volere del
padrone del fulmine: il dio Perun.
Accendere con acciarino e pietra focaia (due oggetti
di natura magica) era il più complicato dei metodi per
ottenere la fiamma perché non tutti possedevano questi
oggetti costosissimi nei tempi ai quali ci riferiamo e
poi un fuoco così generato non era accettato in una
celebrazione divina come Kupala e l’unico modo
“canonico” era invece lo strofinamento fra legni
secchi “benedetti”.
Nella Russia Occidentale si sceglieva dunque uno
spiazzo lungo il fiume e qui si innalzava una specie
di palo della cuccagna intorno al quale si
raccoglievano tutti quegli oggetti di legno ormai
inservibili per farne legna per il falò che sarebbe
poi stato accesso dal fuoco “sacro”. Più in là si
montava invece l’armamentario per la sacra accensione.
Questo consisteva in un grosso tronco ben secco,
tagliato e appuntito sui due estremi opposti. Una
punta doveva poggiare su un altro tronco posto
adagiato sul suolo. Questo tronco orizzontale aveva
una buca scavata apposta per accogliere il tronco
verticale che vi avrebbe dovuto ruotare ed in essa si
era avuta la cura di mettere paglia ben macinata e un
fungo particolare il Fomes fomentarius che
seccato aveva una particolare “infiammabilità”.
Il tronco a terra era fissato fra quattro pali che
sostenevano, a loro volta, degli altri pali trasversi
dove si imperniava il tronco rotante, una volta posto
in posizione verticale. A questo punto il tronco in
piedi era ravvolto con un paio di giri di fune di
canapa. Si erano poi scelti dei baldi giovani in piena
forza i quali con in mano un capo della fune, in egual
numero dall’uno e dall’altro lato, tiravano
alternativamente facendo ruotare il tronco che un
arbitro raddrizzava appena era necessario, incitati
dagli astanti e dalle ragazze che facevano il tifo per
i loro idoli maschili. Finalmente un filo di fumo si
levava e subito si accorreva con un tubo fatto da un
osso cavo di uccello a soffiare per far la fiamma
viva…
La fiamma una volta ottenuta (e non era una cosa
facile e rapida, lo ripetiamo) si portava al palo e si
dava fuoco al mucchio di legno. Ognuno poi aveva
diritto di prendere un po’ di questo fuoco dal falò
per riaccendere la propria pec’ka.
Kupala
era però sicuramente la festa dell’amore. Sono
registrati moltissimi riti indirizzati a far
incontrare ragazzi e ragazze e persino a permettere
incontri omosessuali. Noi ne segnaleremo solo qualcuno
più caratteristico o curioso che sembra essere più
vicino a quelli dell’epoca che stiamo studiando (secc.
X-XIII d.C.).
Dalla Synopsis di Innocenzo Ghizel’,
archimandrita del Monastero delle Grotte di Kiev,
ca. 1870, tradotto da ACM.
“Alla vigilia della festa per la nascita di San
Giovanni Battista si raccolgono i giovani, maschi e
femmine, e si intrecciano ghirlande di rami e di fiori
e se le pongono sulla testa e intorno alla vita. Ed
ancora in questo rito demoniaco mettono su un falò e
attraverso il fuoco tenendosi per mano disonoratamente
saltano e cantano canzoni oscene su questo Kupala e
ripetono spesso questi salti.”
Si diceva ad esempio che la felce (in russo
paparotnik) fa il fiore proprio in questa Notte di
Mezza-estate e chi trovasse questo fiore e riuscisse a
portarselo a casa, avrebbe avuto la fortuna assicurata
per il resto della vita. Addirittura si diceva che
mentre la felce fiorisce spande una luce accecante
intorno per cui bisognerebbe cogliere il fiore senza
esserne abbagliati e, una volta strappatolo, correre
via immediatamente senza mai voltarsi anche se si
udisse una voce che chiama. In realtà tutti sappiamo
che la felce non fiorisce, ma sappiamo anche che c’è
un fungo (Mycena sp.) il cui micelio è
fosforescente (fenomeno della bioluminescenza) che si
usava addirittura per segnare i sentieri nella foresta
di notte e forse la leggenda è nata di qui.
Probabilmente (secondo un’interpretazione di I.
Pankeev che non ci soddisfa) Kupala è da far
risalire ad una festa analoga bulgara in cui la coppia
divina, chiamata Kupalo e Kupalniza,
sono personificazioni di Perun e della dea
dell’Alba, Zarjà. In questa mitologia si
racconta come Perun col suo carro del Sole si
fermi e perciò gli venga in aiuto la Dea Alba affinché
il ciclo della natura non si sconvolga.
Con l’introduzione del Cristianesimo, come già era
avvenuto in altre parti d’Europa, Kupala fu
assimilata alla festa della nascita di san Giovanni
Battista e il nome cambiò in quello di Festa di
Jan (Giovanni.) Kupala. Le ninfe
silvicole, le Rusalke, probabilmente erano
legate a questa festa poiché la mitologia popolare
racconta che quando arrivava Jan Kupala, dopo
il Solstizio, non trovando più spazio sulla terra
questo dio era costretto a ritornare nel suo regno
sotterraneo accompagnato proprio dalle Rusalke.
Qui è evidente il parallelismo col mito di
Proserpina-Persefone e con quello di Adone.
E non solo. La Mezza-Estate era la stagione e il
momento giusto per raccogliere tantissimi doni
“commestibili” della foresta (compreso il pesce.) che
variavano e abbellivano la tavola degli smjerdy.
Ad ogni buon conto nella notte di Kupala si
vanno a cercare soprattutto erbe speciali ed
efficacissime come medicamenti proprio come il
Verbasco (Verbascum sp. o Tasso
Barabasso e in russo Orecchio d’orso)
ottimo per curare l’ulcera dello stomaco e del duodeno
(secondo la ricercatrice bulgara, prof. V. Petkova) o
l’Erba di Kupala (Kupalenka o
Trollius europaeus).
Addirittura nella regione di Novgorod la Grande si
coglievano tante piante di Erigeron acer, una
pianta magica, e le si appendevano sulla porta
di ogni famiglia e si diceva che il primo fiore che
fosse appassito anzitempo indicava che ci sarebbe
stata una morte in quella famiglia. Tutte queste
credenze in verità a volta curiose racchiudono il modo
di vedere della gente della campagna che nelle piante
vedeva un’espressione degli esseri divini che vi
abitavano da sempre. E’ logico anche che possiamo
tranquillamente immaginare che le vecchie, le
znaharke, non più interessate alle celebrazioni
orgiastiche, vagassero per la foresta alla raccolta di
queste erbe che gli esseri divini mettevano a
disposizione soltanto ora e che solo una znaharka
sapeva utilizzare nel modo corretto. Naturalmente
queste znaharke, mezzo donne e mezzo streghe
malvagie, non avrebbero mai svelato a chicchessia dove
e come queste piante si trovavano né alcuno dei loro
segreti poteri, se non a chi avrebbe poi preso il loro
posto. Di qui nacque forse la leggenda di un’erba
misteriosa che soltanto le streghe sapevano trovare e
che si faceva toccare soltanto da loro nel fitto della
foresta: la pianta della fortuna: l’arhilin.
Insomma questa festività potrebbe benissimo essere
chiamata la Festa degli Erboristi e i vari Erbari
russi editi intorno al XVI sec. (travniki)
raccomandavano ai raccoglitori di fare la raccolta
nella foresta proprio per Kupala poiché è in
questa magica notte-giorno che le parti utili delle
piante sono pronte per essere colte dalla mano
dell’uomo. E poi la foresta è anche più illuminata e
chi si accinge a questo lavoro notturno trova un
ambiente più favorevole ai propri vecchi occhi
attenti…
Alcuni curiosi consigli e usi degli Erbari Russi del
XVIII sec.
1. Artemisia (in russo cernobyl o
cernobylnik). Sotto la radice di questa pianta si
troverà un carbone (tartufo). Tirarlo via con
delicatezza e tenerlo per sé e si avrà fortuna per il
resto dell’esistenza.
2. Elleboro (in russo ceremiza). Buona
per qualsiasi problema.Bisogna coglierla al 24 giugno.
La radice è buona da portare con dopo averla ravvolta
nella cera. Quando ti presenti davanti a qualsiasi
giudice la pianta che avrai con te farà in modo che
il giudizio finale sia a tuo favore.
I prodotti più importanti erano naturalmente quelli
che si potevano conservare e mangiare durante il resto
dell’anno, come i funghi. V. Belov ci informa che
l’Agarico Delizioso o Ovolaccio (in russo Ryzhik)
era il fungo più raccolto e più popolare… per la
delizia della tavola. Con questo fungo si
preparava la gubniza, una specie di densa
polenta fatta con gli Ovolacci già passati in
salamoia. Se l’annata era poco favorevole agli
Ovolacci allora si raccoglievano i Lattari o altri
funghi che spuntavano al loro posto. Di solito si
prestavano meglio ad essere seccate le diverse specie
di porcini che avevano il vantaggio di essere
abbastanza grandi tanto da poterli tagliare a fette e
porli su una rete di vimini vicino al calore della
pec’ka.
Ricetta polacca medievale, usata anche in Bielorussia
per gli stuzzichini (zakuski) di funghi
destinati ai giovani in amore (da Sabina Witkowska,
Varsavia 1982)
Tergere in un canovaccio di lino pulito dopo averli
ben lavati e puliti un certo numero di Ovolacci. I più
grandi sono da tagliare in pezzi e da mettere in una
protiven’ in un angolo tiepido della pec’ka,
la mattina d’estate quando la pec’ka non è
ancora troppo calda, per 15 minuti. Attenzione. Non
devono cuocere. Si servono in un protiven’ con
accanto burro e sale che il commensale usa a suo gusto
e piacere. Questi zakuski sono destinati ai
ragazzi innamorati che sono tornati dal bosco con i
funghi appena colti.
E’ probabile che agli Ovolacci venisse mescolato un
po’ dell’Amanita muscaria dall’effetto
psicotropo per eccitare i loro sensi (nota di ACM)
L’Amanita muscaria oTignosa dorata
invece, tritata era usata come esca per attirare e
uccidere le mosche, ma non solo. Quest’ultimo fungo
veniva consumato in certe dosi durante le feste
proprio per mettere allegria e per spingere alle
azioni più strane come droga eccitante. E, secondo le
credenze sicuramente mutuate dai vicini Finni, i maghi
mangiandone riuscivano a prevedere il futuro o a
volare. A causa di ciò molti funghi psicotropi di
questo tipo furono definiti dai preti cristiani: le
piante Pagane ossia in russo Poganki e la
parola è rimasta in bielorusso attaccata a qualsiasi
fungo pericoloso per la salute.
Una ricetta contro le mosche
(sig.ra Anna Joudrik, 1996)
Si raccolgano tre o quattro Tignose. Si secchino per
bene nel sole e poi si macinino finemente. Preparare
miele con acqua a parte nel quale liquido si
stempererà il fungo in polvere. Si mescola per bene e
si addensa con farina, se necessario. Questo denso
sciroppo in gocce qua e là sparso sui davanzali
attirerà le mosche che ne succhieranno e ne moriranno.
Un altro fungo ben conosciuto e molto usato come
farmaco era l’Agarico del Larice (Polysporus
officinalis) poiché serviva da purgante o contro
il latte troppo abbondante della puerpera o persino
contro i disturbi della menopausa.
E’ chiaro che i funghi sono di proprietà degli spiriti
che in essi vi abitano e allora, se non si vogliono
trovare funghi velenosi o invasi dai vermi per farci
dispetto, è bene, prima di mettersi a far la raccolta
di propiziarsi il Borovik ossia il Padrone
dei Funghi…
Nella foresta però ci sono anche bacche e insalate che
si possono trovare e raccogliere in abbondanza a
partire dal principio dell’estate fino al tardo
autunno.
E come dimenticare il fiore-re della bella stagione:
il Mughetto? Questa pianta (Convallaria
sp., in russo Landysc’) dal delicato profumo
appariva verso aprile-maggio e confermava che ormai la
stagione del sole era in pieno rigoglio. Nell’animo
russo il Mughetto però rappresentava tantissime
cose che popolavano sia il mondo magico dei bimbi che
quello degli adulti. Ai bimbi veniva raccontato che
nel Mughetto abitavano gli gnomi della foresta:
Bastava dunque cercarli e questi avrebbero giocato con
loro. Agli adulti innamorati suscitava sospiri la più
bella bylina legata al Mughetto: La variante di
Sadkò Sytinic’, il mercante-suonatore di gusli
di Novgorod, in viaggio per il mondo.
La bylina di Sadkò Sytinic’
ridotta da ACM
(N.I. Grinkievic & A.A. Sorokina, 1988)
Si racconta dunque che i Mughetti erano nati proprio
le lacrime della bellissima Ljubava, la regina del
fiume Volhov, la quale innamorata di Sadkò Sytinic’,
il famoso gusljar (suonatore di gusli,
la chitarra orizzontale tipica russa) e mercante
novgorodese, si era rinchiusa nel suo dolore quando
aveva saputo che costui l’aveva lasciata per partire
per un lungo viaggio. Ljubava l’aveva cercato per
laghi e per fiumi, per monti e per foreste e non era
riuscito a trovarlo. E poi, improvvisamente una notte
di luna piena, lo aveva visto in piedi vicino ad una
lunga betulla, insieme con la rivale che Sadkò aveva
amato al posto di Ljubava. Lancia un grido la
bellissima regina del Volhov e disperata e delusa si
getta nelle onde del fiume per non riapparire mai più.
Solo la Luna vide che le lacrime di dolore scivolate
fuori dagli azzurrissimi occhi di Ljubava erano cadute
sull’erba e si erano trasformate nei candidi e
profumati Mughetti, segni di un cuore spezzato per
sempre.
La buona stagione poi è il tempo delle visite e dei
viaggi da un villaggio all’altro o comunque di persone
che si muovono lungo le rive dei fiumi per visitare
amici e parenti o solo per curiosità e per offrire
braccia per aiutare nei campi. E in tutte queste
occasioni l’anima slava si mostrava in tutta la sua
munificenza che risaliva fino ai tempi dell’imperatore
Maurizio, come abbiamo visto. Ancora oggi l’ospite è
sacro e deve essere accolto come una persona sacra. Le
ragioni? Le abbiamo già dette e ridette: l’ospite, se
conosciuto o sconosciuto, può essere l’incarnazione di
un parente defunto o di una forza pura o impura e
quindi va “coccolato” e accolto con tutta la riverenza
possibile affinché non lanci il malocchio sui membri
della famiglia, sulla casa o sui campi e sulle derrate
dell’inverno. Questo però è il lato negativo
dell’ospite e per la difesa da questa cattiva
eventualità ci si affida al Domovòi per
l’ospite in giro per la casa e all’Ovinnik
quando costui si reca nell’ovin o nell’ambar.
L’accoglienza era perciò soggetta all’approvazione del
suddetto Domovòi il quale, se l’ospite non gli
era gradito, lo segnalava prima che costui occupasse
il posto d’onore nell’angolo bello (belyi - o
anche krasnyi - kut) della “sua” casa. Se,
secondo i segni dati dal Domovòi, l’ospite non
andava allora voleva dire che era uno spirito impuro o
ne era posseduto. Come fare a liberarsene, in questo
caso? Anche qui c’era una pianta che aiutava. Cresce
lungo le paludi con bellissimi fiori bianchi e si
chiama Ninfea o Kuvscinka (Nymphaea
sp.) che però fiorisce soltanto in autunno. Negli
scongiuri contro gli spiriti impuri la Ninfea
era chiamata la Vincente… Dunque si può
prepararla in infuso per l’ospite di natura sospetta.
Accade che, se questi è solo un “posseduto dallo
spirito impuro”, rifiuterà di berla e se ne andrà, se
invece è uno spirito impuro, bevendola ci si libererà
dell’incresciosa presenza perché immediatamente
morirà. Infatti tutti sanno che gli spiriti impuri
penetrano nel corpo umano e generano delle malattie o
i cattivi caratteri o le azioni maligne e perverse per
cui la Ninfea non manca mai nell’izbà
dello smjerd, seccata e pronta per farne
decotti e infusi.
In realtà poi in questa società dove impera lo scambio
verbale, il raccontare e l’ascoltare con attenzione e
deferenza tutto quello che dice chi viene da lontano,
la conversazione e il pettegolezzo diventava
l’occupazione più piacevole. L’ospite quindi era
tradizionalmente obbligato a dire ciò che aveva visto
e vissuto in tutti i particolari e, se possibile,
tutto il villaggio veniva invitato ad una riunione
fuori della casa (beseda), visto che c’è bel
tempo, per ascoltarlo e subissarlo di domande.
L’ospite esternava le esperienze incontrate durante il
suo peregrinare e la serata passava in allegria
bevendo e cantando. Sono cose che ancora oggi si
possono rivivere di persona se si viaggia nelle
campagne russe…
La cosiddetta Gost’ba (il ricevere ospiti) era
un’occupazione molto importante per una padrona di
casa e le sue figlie ed implicava per prima cosa
salutare l’ospite con ripetuti e profondi inchini ed
offrirgli di entrare. Lascia le sue scarpe fuori della
porta di casa, per non inquinare con presenze
indesiderate l’ambiente e, appena entra, dopo aver
riverito i ricordi dei defunti appesi alle pareti, si
accomoda nel belyi kut con le spalle all’angolo
stesso e gli si pone subito da bere un bevanda
rinfrescante nelle mani. Subito dopo, lo sappiamo
dalle Cronache quando Olga di Kiev accoglie gli
ambasciatori dei Drevljani a Kiev nel 945 d.C., lo si
preparerà per una visita di pulizia nella banja
e, solo dopo questo rito purificante, lo si accetterà
definitivamente in casa.
E che cosa offrire invece all’ospite gradito (ormai
accettato dal Domovòi)?
Naturalmente dopo il rito dell’accoglienza finalmente
fatto con pane e sale (hlebosolje) l’ospite
aveva a disposizione non solo questo cibo, ma
praticamente qualsiasi cosa da mangiare che fosse
presente in casa ed era pure obbligato… a rimpinzarsi.
Si racconta che fino al secolo scorso era ancora in
vigore l’usanza delle donne di inginocchiarsi e di
pregare l’ospite affinché mangiasse e bevesse sempre
di più, sebbene fosse già sazio. Su uno scanno
speciale fatto apposta per gli ospiti (ha solo due
piedi su un lato e perciò è poggiato sulla lavka
dall’altro) vengono poi messi in buon ordine gli
zakuski (stuzzichini di pesce o di carne),
lardo fritto, prodotti caseari freschi (come il
tvorog) e mjod o braga a volontà.
Cominciava a questo punto una specie di gioco in cui
la padrona di casa offriva e l’ospite respingeva
lusingato finché quest’ultimo non accettava, quasi vi
fosse stato costretto. Dai documenti risulta che nei
tempi passati fosse in auge persino l’offerta di
dormire con la moglie o con la figlia del padrone di
casa.
E altri cibi caldi? Di solito venivano serviti dopo il
tramonto e quindi l’ospite si doveva accontentare
degli zakuski freddi o della kut’jà di
orzo, pure fredda, ed attendere il grande incontro
conviviale col resto della famiglia ospitante alla
sera.
Ricetta per fare la kut’jà di orzo
(raccomandata dall’Associazione Vasilii Velikii
di Mosca)
Disporre di una certa quantità di orzo integrale.
Lavarlo bene e poi aggiungervi acqua sufficiente in
una pentola di coccio. Cuocere fino a quando l’orzo
non diventa dolcemente morbido. Tirar via dalla
pec’ka e passare da un colo per eliminare l’acqua
non assorbita. A parte sciogliere una parte di miele
con due d’acqua e mettere l’orzo in questo liquido.
Rimettere tutto nella pec’ka nell’angolo più
freddo e aspettare che la kut’jà abbia ben
assorbito il miele. Raffreddare e servire.
In estate c’era poi un’ampia scelta di frutti di bosco
da gustare appena colti oppure… cotti. Quello che oggi
è comunissimo fare coi frutti più velocemente
deperibili, la cosiddetta marmellata o varenie
ossia la cottura in acqua e zucchero, nei secoli da
noi in esame non si faceva a causa dell’assenza dello
zucchero e dell’alto valore del suo sostituto, il
miele. Dunque si servivano o freschi o, come nel caso
dei mirtilli (brusniki), “stufati”
leggermente con farina d’avena (toloknò).
Fresca e buonissima era la fragola o zemljanka,
piccola e dolcissima, il lampone o malina, il
rosso ribes o smorodina, la ciliegia selvatica
o cerjòmuha.
Una bacca, la sorba selvatica o rjabìna, oltre
ad essere mangiata, aveva anche un uso particolare:
Avvisava di un incendio prima che diventasse
devastante..
Le bacche e le erbe selvatiche
(di Ljuda Korotkova, 2006)
sc'c'avel'
– щавель. E’ un’erba verde con larghe foglie ed ha un
sapore acidulo. Cresce lungo i corsi d’acqua, ma anche
nell’orto di casa. E’ ricchissima di Vitamina C e per
questo la si coglie alla prima estate per farne zuppe
e dolci. I dolci sono molto gustosi.
kljukva –
клюква. E’ una piccola bacca color rosso che cresce
nei posti paludosi del bosco. Si raccoglie nella tarda
estate e nel primo autunno e di solito la si congela.
E’ un po’ acida e contiene molte vitamine. Se ne fanno
marmellate, la si aggiunge come spezia al cavalo in
salamoia, si fanno infusi e decotti oppure si mangia
semplicemente così con zucchero o miele per
mascherarne il sapore acidulo.
brusnik
– брусник. Anche questa cresce nel bosco e nelle
radure. Gustosa, con succo color rossastro che ha dato
il nome al colore detto rosso mirtillo. Si mangia così
semplicemente oppure se ne fanno marmellate e frutta
cotta.
zemljanika
- земляника. E’ una bacca estiva e si trova
praticamente dappertutto nel bosco di solito verso
giugno. Rossa e dolcissima. E’ la progenitrice della
fragola comune, ma più piccola di quella coltivata e
con un gusto tendente all’acidulo-dolce.
rjabina
- рябина. Questa è la bacca di un albero. D’autunno
diventa di color rosso. Si mangia così come si coglie.
Il ribes è un motivo decorativo comunissimo e lo si
inserisce in tutte le decorazioni, lo si nomina nelle
poesie e lo si dipinge volentieri. Specialmente
nell’artigianato contadino è riprodotto su tutti gli
utensili e oggetti casalinghi.
Nel bosco si trovavano poi tante insalate dall’erica (goludika),
all’acetosella (sc’ciavel’ e kisliza),
all’angelica (djaghil’) che venivano così
portate sulla tavola lavate e “pestate” con qualche
spezia.
Altre erbe infatti, coltivate nell’orto di casa, erano
usate come “spezie”. La regina fra queste era la
mortella (Myrtus communis in russo kljukva).
Di questa pianta si usavano sia le foglie (queste
triturate danno un odore aromatico penetrante e
venivano normalmente seccate) oppure le sue bacche (moròsc’ki)
che potevano serbare il loro aroma per anni. Peraltro
questo arbusto era stato probabilmente importato dalla
Grecia insieme al melo solo nell’XI sec. d.C....
Anche le foglie tenere di canapa (Cannabis
usitatissima) andavano in insalata con gli effetti
dolcemente soporiferi di cui tutti sappiamo…
Finalmente arrivava il giorno in cui l’ospite partiva.
Di solito costui era obbligato a salutare il
Domovòi, fermandosi prima di oltrepassare la
soglia di casa per uscire, e così seduto sul suo
bagaglio aspettava il segnale di “via libera” da
questo spiritello che poteva essere un rumore
improvviso, una luce inaspettata o un grosso insetto
entrato in casa…
Il saluto russo di commiato all’ospite suonava quasi
come una scusa: Prosc’ciai. ossia Perdonaci…
di non aver fatto abbastanza per te.
La Gost’ba comunque richiedeva un trattamento
analogo e reciproco nel caso che la padrona di casa o
un altro membro della famiglia in seguito fosse stato
a sua volta ospite della persona appena partita e, con
la sovrapposizione delle abitudini cristiane, quest’obbligo
si complicò moltissimo a causa dei digiuni prescritti
al mercoledì e al venerdì, delle prescrizioni in
questioni di cibo nelle varie feste cristiane o
fissate dalla liturgia etc.
N.B. Oggi questa festa risulta spostata di 13 giorni e
cioè ai primi giorni di luglio poiché la “stupidità”
burocratica dell’URSS nella riforma del Calendario del
‘18, associando la Festa di Kupala con San Giovanni e
quindi con una festa cristiana, spostò con la festa
anche il Solstizio d’Estate.
Adattato da un capitolo del libro VITA DI SMJERD, Cibo
e Magia nel Medioevo Russo, di prossima edizione, Aldo
C. Marturano © 2006 |