N. 61 - Gennaio 2013
(XCII)
Ferenc Dàvid: Oltre il concetto di DenominazionE
SUl fondatore dell'Unitarianesimo
di Lawrence M.F. Sudbury
Di
lui,
così
come
di
molti
altri
che,
controcorrente,
decisero
di
votarsi
al
libero
pensiero
teologico
in
un
epoca
di
uniformità
religiosa
come
quella
controriformistica,
sappiamo
molto
meno
di
quanto
desidereremmo:
addirittura,
i
Cristiano
Unitariani
transilvani,
che
vedono
in
lui
il
fondatore
della
loro
fede,
per
poterne
ritrarre
le
fattezze
si
sono
dovuti
rifare
ad
un
modello
scelto
casualmente,
al
volto
di
Franz
Liszt,
il
compositore
più
suonato
nelle
loro
chiese.
Eppure
migliaia
di
credenti
in
tutto
il
mondo
vedono
in
questo
per
molti
versi
oscuro
predicatore
di
una
comunità
periferica
ai
confini
orientali
della
“Cristianità”
del
tempo,
in
Ferenc
Dàvid,
non
solo
un
martire
della
libera
coscienza
religiosa,
ma
anche
un
gigante
di
apertura
mentale,
ecumenismo
e
ricerca
di
quella
percentuale
di
verità
sui
piani
divini
che
è
data
conoscere
agli
esseri
umani.
Lo
scenario,
come
accennato,
è
quello
quella
Transilvania
che,
per
motivi
storici
e
politici,
era,
a
metà
del
‘500,
una
sorta
di
cuscinetto
tra
due
imperi
contrapposti,
quello
cattolico
asburgico
e
quello
islamico
turco.
È
qui
che
l’antitrinitarismo
era
già
penetrato
ad
opera
di
due
italiani:
prima,
dal
1553,
di
Francesco
Stancaro
(le
cui
idee,
paradossalmente,
vennero
combattute,
fino
alla
sua
espulsione
dal
paese,
proprio
da
un
ancora
trinitario
Dàvid)
e
poi,
qualche
anno
dopo,
di
Giorgio
Biandrata
ed è
qui
che
regnava
un
giovane
re,
Giovanni
Sigismondo,
che,
dopo
essere
stato
educato
nel
cattolicesimo,
dal’età
di
sedici
anni
si
era
convertito
alla
dottrina
luterana,
scacciando
dai
suoi
territori
preti
e
monaci
troppo
legati
a
Roma..
È in
questo
stesso
paese,
in
cui
da
tempo
erano
permesse
per
decreto
reale
le
tre
Confessioni
maggioritarie
cattolica,
luterana
e
calvinista,
che,
a
Kolozsvar
(Klausenburg),
probabilmente
intorno
al
1510,
nasce
Ferenc.
È il
figlio
di
un
calzolaio
di
origine
quasi
certamente
sassone
e
ceto
e
gruppo
etnico
non
gli
sono
certo
favorevoli
in
una
nazione
dominata
dalla
nobiltà
magiara
ma
il
giovane
dimostra
bene
presto
una
viva
intelligenza
e
una
straordinaria
prontezza
nell’apprendere
le
lingue
(parlerà
correntemente,
fin
da
piccolo,
tedesco,
ungherese
e
latino),
tanto
da
essere
accettato
ancora
bambino
presso
la
locale
scuola
dei
frati
francescani,
in
cui
primeggerà
a
tal
punto
da
venir
inviato
a
proseguire
gli
studi
presso
la
scuola
della
cattedrale
di
Gyulafehérvár,
normalmente
riservata
solo
ai
rampolli
delle
famiglie
nobiliari.
Alla
scuola
della
cattedrale
Ferenc
non
solo
continuò
a
dimostrarsi
uno
studente
brillante,
non
solo
si
rese
pienamente
conto
della
propria
vocazione
sacerdotale,
ma,
più
mondanamente,
riuscì
a
stringere
amicizie
influenti
che
gli
permisero,
una
volta
raggiunto
il
presbiterato,
di
avere
i
fondi
per
continuare
la
propria
formazione.
Così,
dopo
essere
stato
al
servizio
della
Chiesa
cattolica
transilvana
per
qualche
tempo,
egli
venne
inviato
da
un
ricco
amico
all’Università
di
Wittenberg,
dove
studiavano
ancora
molti
cattolici
a
dispetto
del
fatto
che
la
città
fosse
stata
il
centro
della
Riforma
di
Lutero.
Alcune
fonti
parlano
anche
di
un
soggiorno
del
presbitero
transilvano
presso
l’Università
di
Padova,
ma,
in
realtà,
tale
soggiorno
resta
dubbio
e il
nome
di
Ferenc
Dàvid
non
risulta
negli
annali
della
facoltà.
Certamente,
comunque,
gli
studi
all’estero
fecero
del
giovane
membro
del
clero
uno
degli
uomini
di
chiesa
più
eruditi
del
suo
paese
e,
probabilmente,
piantarono
nella
sua
mente
il
seme
del
dubbio
sulle
“verità
dottrinali
cattoliche”.
Tornato
a
casa
nel
1551,
dopo
essere
stato
scelto
come
rettore
di
una
scuola
cattolica
a
Besztercze,
nella
quale
rimase
per
due
anni,
e
dopo
essere
stato,
subito
dopo
e
ancora
per
due
anni,
parroco
di
un
grande
villaggio
nella
stessa
contea,
Ferenc,
evidentemente,
sentì
tale
seme
germogliare.
Molti
membri
del
clero
cattolico
della
zona
stavano,
uno
dopo
l’altro,
accettando
le
dottrine
riformate
e
Dávid
si
unì
a
loro,
lasciò
il
sacerdozio
e si
convertì
al
Luteranismo.
La
sua
fama
era
già
tale
che
tre
delle
più
importanti
chiese
protestanti
del
paese
lo
chiamarono
immediatamente
al
loro
servizio
ed
egli
decise
di
accogliere
l’invito
della
parrocchia
della
sua
città
natale,
Kolozsvar,
dove
trascorse
i
restanti
24
anni
della
sua
vita
in
una
posizione
di
grande
influenza
e
idolatrato
dal
popolo.
Da
questo
momento
in
poi
l’ascesa
di
Dàvid
si
fece
sempre
più
rapida:
nel
1555
venne
nominato
rettore
della
Scuola
luterana,
l’anno
seguente
pastore
della
più
grande
chiesa
della
città
e,
nel
1557,
dopo
aver
ottenuto
una
grande
reputazione
per
i
suoi
brillanti
dibattiti
contro
il
già
menzionato
Stancaro
e
contro
i
Calvinisti
ed
essere
stato
unanimemente
riconosciuto
come
il
leader
della
Riforma
in
Transilvania,
venne
scelto
come
vescovo
dei
Luterani
ungheresi.
Ciò
che,
però,
più
caratterizzava
Ferenc
Dàvid
era
l’apertura
mentale
e la
capacità
di
avere
l’umiltà
di
non
esaurire
mai
la
propria
ricerca
spirituale
negli
stretti
dettami
di
una
Denominazione
religiosa.
Così,
dopo
aver
a
lungo
combattuto
contro
la
visione
calvinista
della
Cena
del
Signore,
il
vescovo
luterano
finì
per
essere
conquistato
dalle
idee
del
suo
principale
oppositore,
Melius,
e,
di
conseguenza,
nel
1559,
si
dimise
dall’ufficio
vescovile.
Sebbene
i
Luterani
lo
espellessero
dal
loro
sinodo
nel
1560,
egli
mantenne
il
suo
pastorato
e
cercò
fino
alla
fine
di
evitare
una
spaccatura
del
fronte
riformato,
prendendo
parte
attiva
nei
dibattiti
che
si
susseguivano
su
questioni
dottrinali.
Ben
presto
accadde
che
egli
venisse
considerato
la
guida
dei
Calvinisti,
così
come
era
già
avvenuto
sul
fronte
luterano.
La
sua
eloquenza
persuasiva
convinse
sia
il
re
che
molti
dei
magnati
locali
della
bontà
della
nuova
visione
protestante
e,
quando
Luterani
e
Calvinisti
si
separarono
definitivamente
nel
1564,
fu
più
che
naturale
che,
con
l’appoggio
di
Giovanni
Sigismondo
(e
del
suo
medico
personale
Giorgio
Biandrata,
che
Ferenc
aveva
avuto
modo
di
conoscere
durante
alcuni
dei
numerosi
dibattiti),
l’ex
vescovo
luterano
venisse
nominato
nuovamente
vescovo,
questa
volta
della
neonata
Chiesa
Riformata
di
Transilvania.
Dàvid
era
ormai
al
culmine
del
suo
potere:
era
il
più
eloquente
e
famoso
predicatore
(e,
probabilmente,
il
più
abile
oratore
pubblico)
in
Transilvania,
era
così
esperto
nelle
Scritture
da
poter
citare
a
memoria
qualsiasi
passo
biblico
e da
poter,
nel
corso
dei
dibattiti,
menzionare
testi
e
confrontare
passaggi
con
un
prontezza
che
spesso
mandava
in
confusione
i
suoi
avversari.
Divenuto,
com’era
logico,
predicatore
di
corte,
Dàvid
aveva,
inoltre,
potuto
approfondire
la
sua
conoscenza
di
Biandrata,
fino
a
diventarne
intimo.
Proprio
questa
intimità
suggerì
al
medico
italiano
di
confidare
al
vescovo
le
sue
speranze
per
una
ulteriore
riforma
delle
dottrine
della
Chiesa
e di
raccontargli
delle
sue
passate
esperienze
in
Italia,
Svizzera
e
Polonia.
Biandrata
fu,
però,
come
per
sua
natura,
molto
cauto
e si
mosse
lentamente,
arrivando
a
portare
a
poco
a
poco
Dàvid
sulle
sue
posizioni.
Ben
diverso
era
il
carattere
del
predicatore
calvinista,
audace
e
senza
paura
e
così,
in
quello
stesso
anno,
alla
presenza
del
re
alla
Dieta
di
Segesvar,
egli
osò
esprimersi
apertamente
contro
la
dottrina
della
trinità.
Le
cronache
coeve
riportano
che
il
re,
invece
di
ricusare
l’assunto,
si
limitò
a
sorridere
e
così
la
cosa
non
ebbe
un
grande
seguito,
se
non
in
dibattiti
minori
interni
alla
Chiesa.
Nel
1566,
però,
si
giunse
al
punto
di
svolta:
Dàvid,
avendo
saputo
che
uno
dei
professori
della
scuola
di
Kolozsvar
insegnava
la
vecchia
dottrina
della
Trinità,
osò
correggerlo
e
l’insegnante,
irritato,
accusò
pubblicamente
Dàvid
di
eresia.
Dàvid,
a
questo
punto,
gli
tolse
la
cattedra
e
cominciò
sistematicamente
a
predicare
l’unità
di
Dio
dal
suo
pulpito
di
Kolozsvar.
L’ex
docente,
rifugiatosi
in
Ungheria,
si
rivolse
a
Melius
che
decise
di
farsi
paladino
di
una
nuova
crociata
per
l’ortodossia
e,
dopo
aver
informato
dell’accaduto
Calvino
e
Beza,
chiese
il
giudizio
reale
contro
il
vescovo
transilvano.
A
questo
punto
intervenne
Biandrata,
che
chiese
che
venisse
convocato
un
sinodo
per
discutere
la
questione.
La
polemica
montò
rapidamente
e
gli
animi
si
surriscaldarono:
non
a
caso
nei
cinque
anni
seguenti
praticamente
ogni
mese
si
tennero
dibattiti
pubblici,
diete
o
sinodi
sulla
dottrina
della
Trinità,
spesso
presieduti
dal
re
stesso
e
con
grande
affluenza
di
rappresentanti
del
clero
e
della
nobiltà.
Molte
di
queste
discussioni
presero
la
forma
di
dispute
formali
in
cui
ogni
parte
nominava
i
suoi
migliori
teologi
per
presentare
e
difendere
a
turno
tesi
e
antitesi,
con
rapporti
stenografici
presi
da
segretari
e
poi
divulgati
in
ogni
parte
del
paese.
La
prima
di
tali
discussioni
si
tenne,
a
inizio
1566,
al
sinodo
nazionale
di
Gyulafehérvár,
per
essere
quasi
subito
interrotta
e
rinviata
ad
un
sinodo
successivo
a
Torda:
i
ministri
presenti,
sotto
la
guida
di
Biandrata
e
Dàvid,
dopo
aver
accettato
il
Credo
degli
Apostoli,
produssero
una
dichiarazione
di
fede
che
sosteneva
una
interpretazione
unitaria,
respingendo
la
dottrina
di
Atanasio
come
insostenibile
e
ciò
portò
subito
a
disordini
che
consigliarono
il
rinvio
della
discussione
in
un
consesso
più
sorvegliato
dalle
truppe
regie.
Un
paio
di
settimane
più
tardi,
a
Torda,
gli
antitrinitari
espressero
la
loro
convinzione
in
modo
più
completo
e
attento,
senza
che,
comunque,
il
dibattito
portasse
ad
alcuna
risoluzione
finale
e,
poco
dopo,
pubblicarono
un
catechismo
il
cui
scopo
doveva
essere
semplicemente
ripristinare
la
dottrina
del
Nuovo
Testamento
e
della
Chiesa
primitiva
come
base
di
unione
per
tutti
i
Cristiani.
Melius,
che
era
ormai
diventato
vescovo
della
Chiesa
riformata
in
Ungheria,
aveva
finora
contestato
le
posizioni
dàvidiane
in
territorio
ostile,
in
un’area
in
cui
i
liberali
erano
in
maggioranza,
ma,
l’anno
successivo,
riuscì
a
convocare
un
sinodo
a
Debreczen,
nel
suo
distretto,
ottenendo
che
alcune
proposte
fortemente
ortodosse,
come
l’adozione
della
“Confessione
elevetica”
per
tutti
i
Riformati,
venissero
accettate.
In
Transilvania,
nel
frattempo,
Dàvid
e
Biandrata
erano
impegnati
nella
stesura
della
loro
opera
più
importante,
quel
“De
Falsa
et
vera
unius
Dei
Patris,
Filii
et
Spiritus
Sancti
cognitione
libri
duo”,
in
cui,
oltre
ad
esporre
i
fondamenti
teologici
dell’Unitarianesimo,
mettevano
in
ridicolo
le
assurdità
della
dottrina
della
trinità
per
mezzo
di
immagini
piuttosto
forti,
irritando
notevolmente
gli
ortodossi
e
riuscendo
a
creare
un’impressione
indelebile
nella
mente
della
gente
comune.
Nella
sua
dedica
di
questo
libro
a re
Giovanni
Sigismondo,
Dàvid
fa
un
appello
per
la
tolleranza
che
è di
gran
lunga
più
avanzato
rispetto
al
pensiero
del
suo
periodo
storico:
“Non
c’è
più
grande
follia
che
cercare
di
esercitare
potere
sulla
coscienza
e
l’anima
della
gente,
che
sono
entrambe
soggette
solo
al
loro
Creatore”.
Questo
modo
di
pensare
incontrò
il
favore
del
re,
che,
a
breve,
in
una
nuova
dieta
di
Torda
del
gennaio
1568,
dopo
che
Dàvid
aveva
espresso
un
eloquente
appello
a
favore
della
tolleranza
religiosa
(pare
pronunciando
anche
la
sua
famosissima
frase
“Non
è
necessario
pensare
allo
stesso
modo
per
amare
allo
stesso
modo”),
non
solo
rinnovò
i
decreti
di
libertà
confessionale
già
emanati
dai
suoi
predecessori
nel
1557
e
nel
1563,
ma
li
rafforzò
con
quell’”Editto
di
Tolleranza”
che
segna
l’inizio
ufficiale
della
Denominazione
Unitariana
e
che
decreta
“che
i
predicatori
sono
autorizzati
a
predicare
il
Vangelo
in
tutto
il
mondo,
ciascuno
secondo
la
propria
comprensione
di
esso.
Se
la
comunità
desidera
accettare
tale
predicazione,
bene,
in
caso
contrario,
essi
non
sono
costretti
a
farlo,
ma
sono
autorizzati
a
mantenere
i
predicatori
che
preferiscono.
Nessuno
deve
essere
fatto
soffrire
a
causa
della
sua
religione,
poiché
la
fede
è
dono
di
Dio”.
Tale
dichiarazione,
che
per
noi
può
oggi
apparire
scontata,
era
quasi
incredibile
in
un
periodo
in
cui
nel
resto
d’Europa
l’Inquisizione
faceva
di
tutto
per
schiacciare
il
Protestantesimo,
in
cui
la
Spagna
stava
mettendo
migliaia
di
Protestanti
a
morte
nei
Paesi
Bassi,
in
cui
in
Francia
avveniva
il
massacro
di
San
Bartolomeo
e in
Inghilterra
i
negazionisti
della
Trinità
venivano
ancora
bruciati
vivi:
un
re
di
soli
28
anni
aveva
toccato
il
limite
più
alto
della
tolleranza
continentale
e
aveva
creato
una
nicchia
protetta
in
cui
l’Unitarianesimo
poté
svilupparsi
nonostante
le
feroci
persecuzioni
in
ogni
altro
paese.
Melius,
molto
scontento
di
come
le
cose
stavano
procedendo,
cercò
di
arginare
la
marea
unitariana
invitando
i
ministri
della
Transilvania
ad
una
discussione
congiunta
a
Debreczen
in
Ungheria,
ma
la
città
era
fuori
dalla
giurisdizione
di
re
Giovanni
Sigismondo
e
delle
sue
leggi
e
solo
poche
settimane
prima
un
ministro
antitrinitario
era
stato
qui
arrestato
e
imprigionato
senza
processo
e,
dunque,
Biandrata,
sospettando
un
complotto,
decise
di
declinare
l’invito.
Invece,
il
re,
desiderando
approfondire
le
questioni
in
dibattimento
e,
soprattutto,
calmare
gli
animi
troppo
infervorati
dei
suoi
sudditi,
scelse
di
convocare
un
sinodo
generale
dei
ministri
di
Ungheria
e
Transilvania
presso
il
suo
palazzo
a
Gyulafehérvár,
per
ascoltare
un
dibattito
formale
sull’argomento:
cinque
teologi,
guidati
da
Biandrata
e
Dàvid,
rappresentarono
il
“partito”
unitariano,
mentre
il
fronte
calvinista
era
composto
da
sei
oratori
guidati
dal
vescovo,
Melius.
Ne
risultò,
davanti
al
re,
a
tutta
la
corte,
e a
una
grande
folla
di
ministri
e
nobili
che
di
tanto
in
tanto
animavano
il
procedimento
con
domande
o
commenti,
il
più
grande
dibattito
in
tutta
la
storia
dell’Unitarianesimo,
i
cui
lavori
ebbero
inizio
l’8
marzo
1568,
alle
cinque
del
mattino,
con
una
solenne
preghiera,
vennero
condotti
in
latino
e
durarono
dieci
giorni
interi.
Melius
e i
suoi
fecero
appello
all’autorità
della
Bibbia,
ai
credi,
ai
Padri
della
Chiesa
e a
tutti
i
teologi
ortodossi,
mentre
Dàvid
rispose
sempre
e
solo
utilizzando
passi
delle
Sacre
Scritture:
il
nono
giorno
i
Calvinisti
chiesero
di
ritirarsi
per
“non
dover
ascoltare
ulteriormente
affermazioni
eretiche”
ma
sia
al
re
che
a
tutti
i
presenti
apparve
chiaro
che
questa
era,
in
realtà,
una
dichiarazione
di
sconfitta,
che
Giovanni
Sigismondo
cercò
di
mitigare
con
un
appello
finale
a
trovare
un
accordo
e a
cercare
un’armonia
che
evitasse
abusi
reciproci.
Nel
corso
della
discussione
Biandrata
si
era
dimostrato
un
oratore
povero
e
non
entrò
mai
più
in
un
dibattito
pubblico,
ma
Dàvid,
che
aveva
aperto
e
chiuso
i
lavori
dimostrandosi
sempre
pronto
e
convincente
nel
rispondere
ad
ogni
domanda
e
obiezione,
si
coprì
di
gloria
a
tal
punto
che
al
suo
ritorno
a
Kolozsvar
venne
portato
in
trionfo
dalla
folla,
che
lo
fece
salire
su
un
grande
masso
ad
un
angolo
di
strada
(la
pietra
è
ancora
conservata
dagli
Unitariani
di
Kolozsvar
come
una
reliquia
sacra)
per
proclamare
la
sua
dottrina
vittoriosa:
si
racconta
che,
in
tale
occasione
la
sua
eloquenza
fu
così
convincente
che
l’intera
popolazione
della
città
accettò
la
nuova
fede.
In
realtà,
tale
leggenda
non
è
così
veritiera:
i
Sassoni
luterani
di
Kolozsvar,
ad
esempio,
furono
così
disgustati
dalle
sue
parole
che
lasciarono
la
città
senza
indugio,
ma,
di
fatto,
proprio
dopo
tale
esodo,
per
molti
anni
Kolozsvar
divenne
praticamente
una
città
unitariana,
con
tutte
le
chiese
e le
scuole
e
tutti
i
membri
del
Consiglio
cittadino
che
si
convertirono
a
quella
Denominazione
Unitariana
di
cui
Dàvid
venne
proclamato
(per
la
terza
volta
nella
sua
vita)
vescovo.
Essendo
stati
sconfitti
in
Transilvania,
i
Calvinisti
fecero
ora
appello
al
giudizio
dei
professori
delle
università
tedesche,
considerati
la
massima
autorità
dell’Europa
protestante
per
quanto
riguardava
le
questioni
teologiche
Naturalmente
le
risposte,
venendo
dalla
ultraortodossa
Germania,
furono
tutte
a
loro
favore
e
molti
dei
professori
arrivarono
a
scrivere
libri
contro
Dàvid
e
Biandrata
per
cercare
di
suscitare
sentimenti
contro
di
loro.
Intanto,
gli
“ortodossi”
tentarono
di
riorganizzarsi
anche
nei
domini
di
Giovanni
Sigismondo:
mentre
in
Ungheria,
lungo
tutto
il
corso
del
1568,
tutti
i
sinodi
distrettuali
condannavano,
uno
dopo
l’altro,
gli
antitrinitari,
anche
in
alcune
aree
di
confine
transilvane
i
Calvinisti,
trascurando
il
decreto
di
tolleranza
del
re,
perseguitavano
e
cacciavano
i
ministri
di
idee
unitariane,
imponevano
loro
di
abiurare
e li
condannavano
senza
permettere
alcuna
difesa
processuale.
Dàvid,
per
difendere
costoro,
decise
che
sarebbe
stato
opportuno
portare
la
guerra
in
territorio
nemico
e,
con
il
re,
pensò
di
convocare
un
nuovo
sinodo
a
Nagyvarad
(Grosswardein),
il
10
ottobre
1569.
Il
clero
ortodosso,
in
un
primo
momento,
gli
negò
il
diritto
di
convocare
un
sinodo
affermando
di
avere
un
loro
proprio
vescovo
in
Melius
e
che
quindi
egli
non
avesse
alcuna
autorità
su
di
loro
ma,
alla
lunga,
fini
per
accettare
il
dibattito,
le
cui
condizioni
e
regole
furono
a
lungo
discusse:
Dàvid
presentò
una
sua
dichiarazione
di
fede
e
una
serie
di
proposizioni
che
era
pronto
a
difendere,
mentre
i
suoi
avversari
portarono
controdeduzioni
e
presentarono
le
loro
proposte,
firmate
da
60
ministri.
A
presiedere
il
sinodo
fu
chiamato
Gaspar
Bekes,
il
magnate
più
potente
del
regno
e il
consigliere
più
intimo
del
re
(che,
da
parte
sua,
era
presente
con
molti
generali
e
nobili)
e la
partecipazione
di
pubblico
fu
ancora
più
grande
che
a
Torda.
Sebbene
vi
fossero
nove
contendenti
per
ciascuna
parte,
il
dibattito
si
svolse
principalmente
tra
Dàvid
e
Melius
e fu
della
massima
intensità:
da
parte
sua
Melius
in
più
occasioni
attaccò
Dàvid
con
tale
violenza
che
lo
stesso
re
finì
per
rimproverarlo
e
suggerirgli
che
se i
ministri
ortodossi
non
credevano
nella
libertà
di
coscienza
avrebbero
fatto
meglio
a
spostarsi
in
qualche
altro
paese,
mentre
Dàvid
parlò
eloquentemente
a
favore
della
libertà
religiosa,
tanto
che,
dopo
sei
giorni,
essendo
chiaro
che
nessuna
novità
di
rilevo
veniva
portata
dal
fronte
calvinista,
il
re
decise
di
chiudere
il
dibattito,
non
solo
dando
la
vittoria
agli
Unitariani
(decisione
sulla
quale
anche
Bekes
e la
maggior
parte
dei
presenti
concordarono),
ma
arrivando
addirittura
ad
affermare
pubblicamente
la
propria
conversione
alla
fede
antitrinitaria,
mentre
la
minoranza
ortodossa
si
dovette
accontentare
di
firmare
una
propria
confessione
di
fede
e di
condannare
Dàvid
e le
sue
opinioni.
Di
fatto,
da
quel
momento,
le
Chiese
che
accettarono
il
punto
di
vista
di
Dàvid
si
separarono
definitivamente
da
quelle
di
fede
ortodossa,
anche
se
non
risulta
assolutamente
chiaro
né
quando
né
come
tale
divisione
sia
stata
realizzata
né
pare
che
i
futuri
Unitariani
si
siano
per
qualche
tempo,
considerati
distinti
dai
Riformati,
tanto
che
inizialmente
i
pastori
si
firmavano,
nei
documenti
ufficiali,
“ministri
della
Professione
evangelica”,
che
nelle
leggi
del
1576
vengono
ancora
menzionati
come
“coloro
che
detengono
la
religione
di
Ferenc
Dàvid”
e
che,
persino
nel
1577,
la
loro
Denominazione
viene
semplicemente
menzionata
come
“la
Confessione
di
Kolozsvar”.
Avendo
il
re
dato
apertamente
la
propria
adesione
al
nuovo
culto,
presto
l’intera
corte
seguì
il
suo
esempio
e
sette
dei
suoi
consiglieri
principali
e
numerosi
generali,
giudici
e
funzionari
superiori
si
convertirono
nel
giro
di
pochi
giorni,
portando
praticamente
l’intera
nobiltà
transilvana
su
posizioni
antitrinitarie.
La
forza
della
nuova
denominazione
risiedeva
soprattutto
nelle
città
più
grandi
e
nei
villaggi
dello
Szeklerland,
mentre
in
tutto
il
paese
venivano
aperte
tredici
scuole
superiori
o
università
unitariane,
tutte
facenti
capo
al
Collegio
reale
creato
per
decreto
regio
nei
locali
di
un
ex
monastero
domenicano.
Al
di
là
delle
importanti
vittorie
pubbliche
riportate
da
Dàvid,
grande
merito
della
diffusione
della
nuova
fede
veniva
dalla
incessante
attività
pubblicistica
del
suo
vescovo,
che
scrisse,
solo
nel
1568,
non
meno
di
otto
opere
pubblicate
sia
in
latino
per
gli
studiosi
che
in
ungherese
per
la
gente
comune.
Il
risultato
fu
che
prima
della
morte
di
Dàvid
già
si
contavano
oltre
300
chiese
unitariane
nella
sola
Transilvania,
a
cui
si
univano
altre
60
in
Ungheria
e
numerose
altre
in
Polonia.
Ciò
che,
però,
ancora
preoccupava
il
vescovo
unitariano
era
che
la
sua
Chiesa
non
avesse
raggiunto
alcuna
legittimazione
giuridica
e,
dunque,
Dàvid
pensò
di
sottoporre
la
questione
all’attenzione
del
re,
il
quale
non
tardò
a
rispondere
positivamente:
alla
Dieta
di
Maros
Vásárhely,
tenuta
all’inizio
del
1571,
dopo
un’ampia
discussione,
il
re
concesse
al
popolo
e
alla
chiesa
di
Kolozsvár
tutti
i
privilegi
che
erano
stati
detenuti
dai
Sassoni
luterani
e,
soprattutto,
stabilì
la
perfetta
uguaglianza
delle
quattro
principali
Religioni,
cattolica,
luterane,
riformata
e
unitariana,
definite
“Religioni
ricevute”,
cioè
legalmente
riconosciute
e
protette
e i
cui
membri
avevano
il
diritto
di
assumere
alte
cariche
pubbliche.
Da
quel
momento
in
poi
a
tutti
i re
e
principi
della
Transilvania
venne
richiesto,
al
momento
dell’incoronazione,
di
prestare
giuramento
di
preservare
la
parità
di
diritti
garantiti
dal
decreto
di
Giovanni
Sigismondo
(sebbene
ben
pochi
poi
mettessero
in
pratica
quanto
giurato).
Purtroppo,
meno
di
due
mesi
dopo
aver
emanato
questo
editto
il
re
morì:
il
giorno
dopo
la
dieta,
mentre
era
in
procinto
di
andare
in
uno
dei
suoi
castelli
per
un
periodo
di
riposo,
rimase
gravemente
ferito
in
un
incidente
di
viaggio
e
alcune
complicazioni
minarono
la
sua
salute
già
fragile
fino
all’inaspettato
decesso,
avvenuto
il
15
marzo
1571,
quando
il
sovrano
non
aveva
ancora
31
anni
e
non
aveva
eredi.
Giovanni
Sigismondo
lasciava
un
regno
profondamente
in
lutto
e
fortemente
diviso
dal
punto
di
vista
religioso.
Gli
Unitariani
speravano
che
il
suo
successore
potesse
essere
Gaspar
Bekes,
uno
di
loro,
che
era
stato
il
gran
ciambellano
e il
più
fidato
consigliere
reale,
ma,
purtroppo,
egli
era
assente
per
una
missione
politica
al
momento
della
morte
del
re e
i
suoi
nemici
riuscirono
a
indire
una
dieta
nobiliare
a
maggioranza
ungherese
che
scelse
per
il
trono,
come
era
prevedibile,
un
magiaro
che,
però,
era
uno
dei
pochi
magnati
cattolici
rimasti
nel
paese:
Stephan
Bathori.
Dopo
aver
ricevuto
la
corona,
il
nuovo
principe,
accettò
di
prestare
giuramento
di
proteggere
le
quattro
“Religioni
ricevute”
e,
sebbene
ostile
alla
Riforma,
promosse
un
certo
numero
di
Calvinisti
e
Luterani
a
importanti
cariche
pubbliche
ma,
da
subito,
si
dimostrò
nemico
dell’Unitarianesimo
(probabilmente
perché
era
la
religione
del
suo
principale
rivale
Bekes)
e
cercò
in
ogni
modo
di
frenarne
la
diffusione:
rimosse
tutti
gli
Unitariani
dalla
corte
e
dai
ministeri,
nominò
un
altro
predicatore
di
corte
al
posto
di
Dàvid
e
riesumò
un’’antica
legge
che
impediva
a
chiunque
di
stampare
libri
senza
il
suo
permesso
(un
permesso
che,
naturalmente,
non
venne
mai
concesso
ai
testi
unitariani).
Alla
luce
delle
vicende
successive,
comunque,
la
sua
linea
di
attacco
anti-unitariana
più
di
successo
fu
quella
di
impedire
lo
sviluppo
dell’insegnamento
di
una
Religione
ancora
scarsamente
formalizzata
attraverso
un
decreto
del
1572,
controfirmato
dalla
dieta
l’anno
successivo,
con
cui
si
impediva
qualsiasi
“innovazione
religiosa”:
chiunque
introducesse
ulteriori
riforme
o
cambiamenti
nella
religione,
avrebbe
dovuto
essere
scomunicato
e
bandito,
o
persino
imprigionato
e
messo
a
morte
per
blasfemia,
a
discrezione
del
principe.
Da
questo
momento
in
poi
le
cose,
per
gli
Unitariani,
andarono
di
male
in
peggio:
nel
1574
la
vita
e le
opere
di
Dàvid
vennero
passate
al
setaccio
al
sinodo
di
Nagy
Enyed
per
cercare
(inutilmente)
di
trovare
qualche
scandalo
che
potesse
distruggere
la
sua
influenza
presso
il
popolo;
nel
1575
Bekes
venne
completamente
sconfitto,
molti
dei
suoi
seguaci
vennero
uccisi
in
battaglia
o
nei
mesi
successivi,
praticamente
tutti
i
magnati
unitariani
vennero
sollevati
dal
loro
rango
con
confisca
dei
beni
e
buona
parte
del
suo
partito,
in
maggioranza
composto
da
Szekerli,
sterminato;
negli
anni
successivi
si
cercò
in
tutti
i
modi
di
riconvertire
gli
Unitariani
con
minacce
e
promesse
che,
per
altro,
ebbero
scarso
effetto
e,
sempre
nel
1575
(sebbene
il
decreto
diventasse
effettivo
dall’anno
seguente)
la
carica
di
vescovo
unitariano
di
Kolotzvar
divenne
“ufficio
statale”
sottoposto
all’approvazione
regia,
limitando,
di
fatto,
la
libertà
religiosa
di
tutti
gli
anti-trinitari.
In
tutta
questa
rovina,
solo
Biandrata,
grazie
alla
sua
scaltrezza
politica,
era
riuscito
a
mantenere
la
posizione
di
medico
di
corte
e
consigliere
del
re.
Così,
quando,
nel
1574,
il
trono
di
Polonia
rimase
vacante,
e
Stephan
risultò
essere
uno
dei
principali
candidati
ad
occuparlo,
fu
proprio
Biandrata
ad
essere
inviato
a
Cracovia
a
difendere
gli
interessi
del
suo
re e
fu
soprattutto
grazie
ai
suoi
sforzi
che
Stephan
ricevette
l’investitura
a
fine
1575.
In
realtà
questo
non
fu
affatto
un
dato
positivo
per
gli
Unitariani,
dal
momento
che
Stephan
lasciò
il
governo
della
Transilvania,
in
qualità
di
reggente,
al
fratello
Christopher,
che
immediatamente
si
dimostrò
persino
meno
tollerante
di
lui
e
più
deciso
a
restaurare
la
Chiesa
cattolica:
nel
1576
una
dieta
reale
ordinò
che
al
vescovo
unitariano
fosse
fatto
divieto
di
recarsi
nelle
sue
chiese
e di
tenere
sinodi
fuori
da
Kolozsvar
e
Torda;
gran
parte
delle
chiese
unitariane
venne
posta
sotto
la
tutela
del
vescovo
riformato
(comunque
anch’egli
notevolmente
limitato
nel
suo
campo
d’azione)
e,
nel
1579,
il
principe
fece
appello
ai
Gesuiti
perché
venissero
a
ripristinare
l’influenza
della
Chiesa
cattolica,
come
avevano
fatto
quindici
anni
prima
in
Polonia
(i
Gesuiti
vennero
poi
espulsi
nel
1588
con
l’accusa
di
aver
tentato
di
portare
la
Transilvania
sotto
l’influenza
del
cattolicissimo
impero
austriaco).
Nonostante
tutto,
comunque,
gli
Unitariani,
pur
limitati
nella
loro
crescita,
continuarono
non
solo
ad
esistere,
ma
anche
a
sviluppare
un
intenso
dibattito
teologico.
Fu
proprio
tale
sviluppo
che
portò
alla
nuova
sciagura
che
li
doveva
colpire.
Tutto
nacque
dalle
discussioni
su
come
approcciarsi
alla
figura
di
Cristo:
sebbene
nessun
unitariano
credesse
che
Cristo
fosse
uguale
a
Dio,
tutti
avevano
ereditato
dal
loro
passato
l’abitudine
di
pregarlo.
Alcuni
dei
maggiori
pensatori
della
Denominazione,
però,
quali
il
rettore
della
scuola
di
Kolozvar
Johann
Sommers
e il
teologo
italo-greco
Giovanni
Paleologo,
erano
convinti
che
tale
pratica
non
fosse
mai
stata
insegnata
dalla
Scritture
né
ordinata
da
Cristo
stesso
e
che,
quindi,
ogni
forma
di
adorantismo
verso
Cristo
dovesse
cessare.
Si
trattava
di
un
punto
di
vista
già
presente
nella
comunità
e
discusso
all’interno
dei
suoi
circoli
al
tempo
della
morte
di
re
Giovanni
Sigismondo
e
che
non
aveva
mai
sollevato
particolari
obiezioni
da
parte
di
nessuno,
diffondendosi,
anzi,
piuttosto
ampiamente
mentre
solo
i
più
ortodossi
vedevano
in
questa
posizione
una
sorta
di
rinuncia
al
Cristianesimo
e di
ritorno
all’Ebraismo.
Fu,
dunque,
solo
con
il
ritorno
dei
Gesuiti
nel
paese,
nel
1579,
che
l’idea
divenne
un
problema:
si
trattava
di
una
buona
scusa
per
loro
per
accusare
Dàvid,
che
sosteneva
l’anti-adorantismo,
di
bestemmia
ed
eresia
e
ciò
fu
esattamente
quello
che
fecero.
Abbiamo
già
osservato
come
Dàvid
avesse
sempre
mantenuto
una
mente
aperta
a
qualsiasi
proposizione
religiosa,
non
fossilizzandosi
mai
su
dogmatismi
statici.
Così,
dopo
lunghe
discussioni
con
suo
cognato
Johann
Sommers,
egli
aveva
adottato,
senza
grandi
conseguenza,
il
non
adorantismo
già
dal
1572.
Circa
cinque
anni
dopo,
però,
proprio
quando
i
Cattolici
stavano
attuando
la
campagna
più
aggressiva
contro
di
lui
e,
soprattutto,
dopo
che,
nel
1577,
la
dieta
aveva
rinnovato
la
legge
contro
ulteriori
“innovazioni
religiose”,
egli
sentì
che
era
suo
dovere
reagire
contro
questi
attacchi
alla
libertà
di
pensiero
e
cominciò
a
predicare
con
coraggio
contro
l’idolatria
adorantista:
al
sinodo
unitariano
di
Torda
del
marzo
1578,
con
322
ministri
presenti,
si
scagliò
veementemente
contro
il
culto
di
Cristo
e il
battesimo
dei
bambini,
che
venne
abolito
come
non
scritturale
e,
da
quel
momento
in
poi,
non
perse
occasione
per
approfondire
la
riforma
della
dottrina
in
qualunque
discorso
pubblico
e
privato.
Già
nel
mese
successivo
la
dieta
emise
un
monito
contro
di
lui,
accusandolo
di
voler
introdurre
innovazioni
dottrinali,
ma
il
vescovo
unitariano
ignorò
completamente
l’avvertimento
e,
nel
sinodo
d’autunno
di
quello
stesso
anno
ribadì
le
proprie
posizioni.
Biandrata,
che
era
riuscito
a
rimanere
medico
di
corte,
si
rese
immediatamente
conto
che
ciò
era
proprio
quello
che
i
Gesuiti
stavano
aspettando
e
che
il
principe,
sotto
la
loro
pressione,
stava
diventando
sempre
più
impaziente,
con
il
rischio
che
tutti
gli
Unitariani
venissero
banditi
dal
paese.
Fu
per
questo
che,
l’italiano
esortò
immediatamente
Dàvid
a
tacere
e
quando
Dàvid
rispose
che
questo
sarebbe
stato
un
atto
d’ipocrisia,
Biandrata
gli
suggerì
che
sarebbe
stato
meglio
se
lui,
come
vescovo,
si
fosse
tenuto
fuori
dalla
mischia,
e
che,
anzi,
sarebbe
stato
necessario
che
due
o
tre
dei
ministri
che
erano
più
zelanti
nel
diffondere
il
nuovo
insegnamento
venissero
processati
per
eresia.
Forse
questa
sarebbe
stata
una
mossa
politicamente
accorta,
ma
Dàvid
non
era
un
politico
e
respinse
sdegnosamente
la
proposta
definendola
disonorevole.
A
questo
punto
Biandrata
provò
un’altra
strada:
avendo
sentito
parlare
di
Fausto
Socino
e
del
il
suo
famoso
dibattito
a
Basilea
su
Cristo
Salvatore,
lo
mandò
a
chiamare
e
gli
propose
di
trasferirsi
per
qualche
tempo
a
sue
spese
a
casa
di
Dàvid
per
convincere
quest’ultimo
con
argomenti
biblici.
Socino
acconsentì
a
risiedere
a
Kolotzvar
dalla
primavera
all’autunno
e,
in
questo
periodo,
organizzò
anche
una
discussione
pubblica
con
Dàvid
sul
tema
del
culto
di
Cristo:
al
dibattito
presero
parte
molti
ministri
e,
nonostante
Socino
avvertisse
Dàvid
del
rischio
di
una
deriva
giudaicizzante,
Dàvid
non
si
smosse
minimamente
dalla
sua
posizione.
Per
tentare
di
convincerlo,
allora,
Biandrata
cerco
di
tagliare
drasticamente
i
fondi
ecclesiastici
del
vescovo,
ma
questi,
pur
lamentandosi
della
cosa
e
arrivando
a
paragonare
l’atteggiamento
del
medico
italiano
nei
suoi
confronti
a
quello
di
Calvino
contro
Serveto,
mantenne
la
sua
predicazione
anti-adorantista.
Biandrata,
dopo
queste
accuse,
rispose
rabbiosamente
che
se
Dàvid
non
avesse
abbandonato
la
sua
dottrina
offensiva
si
sarebbe
visto
costretto
ad
accusarlo
del
reato
di
“innovazione”
davanti
alla
dieta
successiva.
Dàvid,
forse
presagendo
quanto
avrebbe
potuto
accadere,
sembrò
venire
a
più
miti
consigli
e
chiese
un
arbitrato
da
parte
di
un
comitato
di
ministri
che,
a
loro
volta,
avrebbe
risposto
al
sinodo
nazionale
e, a
latere,
si
accordò
con
Biandrata
perché
entrambi
presentassero
le
proprie
tesi
per
iscritto
e le
sottoponessero
al
giudizio
di
Socino
e
promise
che,
fino
a
quel
momento,
non
avrebbe
più
predicato
nulla
riguardo
all’adorazione
di
Cristo.
Dopo
aver
preparato
il
documento
per
Socino,
però,
il
vescovo
unitariano,
senza
aspettare
la
risposta
del
teologo
italiano,
indisse
un
altro
sinodo
a
Torda
nonostante
l’opposizione
di
Biandrata.
Fu
probabilmente
questa
la
goccia
che
fece
traboccare
il
vaso:
Biandrata,
pensando
che
Dàvid
fosse
incorreggibile
e
che
cercasse
di
provocarlo,
radunò
50
ministri,
li
informò
di
quanto
stava
accadendo
(dando,
in
verità,
una
lettura
molto
più
netta
e
radicale
delle
tesi
Dàvidiane
di
quanto
esse
realmente
fossero)
e
dei
rischi
che
la
Denominazione
stava
correndo
e
suggerì
loro
di
votare
perché
il
vescovo
venisse
esautorato
e
bandito.
In
una
missiva
a
Socino,
inoltre,
lo
informò
che
da
quel
momento
in
poi
non
avrebbe
più
difeso
Dàvid
davanti
al
principe
e
che,
anzi,
lo
avrebbe
accusato,
cosa
che
puntualmente
fece:
il
principe
colse
la
palla
al
balzo
e
ordinò
immediatamente
al
Consiglio
Kolozsvar
di
rimuovere
Dàvid
dal
suo
pastorato
e di
farlo
tenere
sotto
sorveglianza
in
casa
sua,
isolato
e
senza
possibilità
di
ricevere
visitatori.
Dàvid
rispose
al
provvedimento
cacciando
Socino
dalla
sua
casa
e,
nonostante
fosse
da
tempo
malato
(forse
di
polmonite),
la
domenica
seguente
predicò
in
due
chiese
a
Kolozsvar,
spiegando
a
tutti
ciò
che
stava
per
accadere
e
lanciandosi
in
una
eloquente
difesa
della
dottrina
unitariana
non-adorantista.
Fu
il
suo
ultimo
sermone.
Il
principe,
venuto
a
conoscenza
dell’accaduto
si
infuriò
terribilmente
e,
nonostante
i
membri
del
Consiglio
di
Kolozsvar
e
molti
nobili
facessero
del
loro
meglio
per
placarlo,
ordinò
che
Dàvid
venisse
arrestato.
Mentre
Socino
tornava
in
Polonia,
Biandrata,
i
cui
sentimenti
verso
l’antico
sodale
erano
ormai
caratterizzati
da
profonda
animosità
personale,
non
fece
più
nulla
per
alleviare
le
sofferenze
di
Dàvid,
rinchiuso
in
una
cella
di
massima
sicurezza,
e
solo
raramente
intercesse
perché
la
famiglia
del
vescovo
potesse
andare
a
visitarlo.
Pochi
giorni
dopo,
sebbene
gravemente
indebolito,
Dàvid
venne
condotto
in
un
carro
aperto
(perché
la
sua
umiliazione
fosse
pubblica)
al
tribunale
di
Gyulafehérvár,
presieduto
dal
principe
stesso,
e
qui
venne
accusato
di
“innovazione
religiosa”.
Nonostante
Dàvid
portasse
numerose
prove
che
la
corrente
non-adorante
esisteva
da
lungo
tempo
e
che
era
stata
anche,
almeno
in
una
occasione,
approvata
dallo
stesso
Biandrata,
il
giudizio
era
scontato:
dopo
una
prima
dichiarazione
il
vescovo
venne
messo
a
tacere
e
condotto
in
una
cella,
Biandrata
e i
ministri
unitariani
da
lui
prodotti
come
testimoni
(a
parte
uno
che
ebbe
il
coraggio
di
affermare
di
aver
ascoltato
la
predicazione
anti-adorante
di
Dàvid
a
Nagyvárad
senza
che
ciò
creasse
alcuno
scandalo)
giurarono
di
non
aver
mai
condiviso
il
punto
di
vista
del
loro
leader
spirituale
e,
sebbene
un
certo
numero
di
nobili
si
dichiarasse
d’accordo
con
le
idee
Dàvidiane,
tutti
i
Gesuiti
che
affiancavano
il
principe
affermarono
che
le
proposizioni
non-adoranti
erano
non
solo
eretiche
ma
addirittura
infernali.
Quando
Dàvid
venne
ricondotto
in
aula,
sebbene
Biandrata
stesso
chiedesse
pietà
per
lui,
su
istigazione
di
Gesuiti
e
Pastori
riformati
Chritopher
Bathory
lo
dichiarò
colpevole,
e lo
condannò
al
carcere
duro
a
vita
nel
castello
di
Deva.
Ulteriori
ricorsi
caddero
tutti
nel
vuoto,
soprattutto
dopo
che
la
chiese
polacche,
inaspettatamente,
si
pronunciarono
unanimemente
contro
Dàvid,
il
quale,
vinto
dalla
malattia
e
dalle
privazioni
impostegli
a
Deva,
morì
nella
fortezza
il
15
Novembre
1579.
Che
giudizio
possiamo
dare
di
quest’uomo
che,
dopo
essere
stato
un
leader
in
ben
quattro
Denominazioni
(e
vescovo
di
tre
di
esse),
finì
i
suoi
giorni
in
una
prigione
per
non
aver
voluto
cedere
a
compromessi?
Spesso
egli
è
stato
accusato
di
essere
troppo
volubile,
troppo
prono
a
farsi
influenzare
da
chi,
in
un
determinato
momento,
gli
stava
vicino.
Si
tratta
di
una
opinione
superficiale:
Dàvid
era
uno
studioso
instancabile
della
Scrittura
e
tutti
i
suoi
sforzi
erano
volti
a
realizzare
una
riforma
radicale
del
Cristianesimo.
In
quest’ottica
i
suoi
cambiamenti
erano
semplicemente
fasi
di
un
costante
movimento
verso
una
direzione
coerente,
verso
un
concetto
di
Cristianità
originaria
che
superasse
ogni
barriera
denominazionale.
A
questo
concetto
egli
rimase
sempre
fedele,
fino
alla
morte
ed è
certamente
per
questo
che
la
sua
figura,
ancora
oggi,
dopo
350
anni,
continua
ad
essere
fonte
di
ispirazione
per
migliaia
di
persone
nel
mondo.
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