.

home

 

progetto

 

redazione

 

contatti

 

quaderni

 

gbeditoria


.

[ISSN 1974-028X]


RUBRICHE


attualità

.

ambiente

.

arte

.

filosofia & religione

.

storia & sport

.

turismo storico



 

PERIODI


contemporanea

.

moderna

.

medievale

.

antica



 

EXTEMPORANEA


cinema

.

documenti

.

multimedia



 

ARCHIVIO


 

 

 

 

 

 

 

.

filosofia & religione


N. 61 - Gennaio 2013 (XCII)

Ferenc Dàvid: Oltre il concetto di DenominazionE
SUl fondatore dell'Unitarianesimo

di Lawrence M.F. Sudbury

 

Di lui, così come di molti altri che, controcorrente, decisero di votarsi al libero pensiero teologico in un epoca di uniformità religiosa come quella controriformistica, sappiamo molto meno di quanto desidereremmo: addirittura, i Cristiano Unitariani transilvani, che vedono in lui il fondatore della loro fede, per poterne ritrarre le fattezze si sono dovuti rifare ad un modello scelto casualmente, al volto di Franz Liszt, il compositore più suonato nelle loro chiese.

Eppure migliaia di credenti in tutto il mondo vedono in questo per molti versi oscuro predicatore di una comunità periferica ai confini orientali della “Cristianità” del tempo, in Ferenc Dàvid, non solo un martire della libera coscienza religiosa, ma anche un gigante di apertura mentale, ecumenismo e ricerca di quella percentuale di verità sui piani divini che è data conoscere agli esseri umani.

Lo scenario, come accennato, è quello quella Transilvania che, per motivi storici e politici, era, a metà del ‘500, una sorta di cuscinetto tra due imperi contrapposti, quello cattolico asburgico e quello islamico turco. È qui che l’antitrinitarismo era già penetrato ad opera di due italiani: prima, dal 1553, di Francesco Stancaro (le cui idee, paradossalmente, vennero combattute, fino alla sua espulsione dal paese, proprio da un ancora trinitario Dàvid) e poi, qualche anno dopo, di Giorgio Biandrata ed è qui che regnava un giovane re, Giovanni Sigismondo, che, dopo essere stato educato nel cattolicesimo, dal’età di sedici anni si era convertito alla dottrina luterana, scacciando dai suoi territori preti e monaci troppo legati a Roma..

È in questo stesso paese, in cui da tempo erano permesse per decreto reale le tre Confessioni maggioritarie cattolica, luterana e calvinista, che, a Kolozsvar (Klausenburg), probabilmente intorno al 1510, nasce Ferenc. È il figlio di un calzolaio di origine quasi certamente sassone e ceto e gruppo etnico non gli sono certo favorevoli in una nazione dominata dalla nobiltà magiara ma il giovane dimostra bene presto una viva intelligenza e una straordinaria prontezza nell’apprendere le lingue (parlerà correntemente, fin da piccolo, tedesco, ungherese e latino), tanto da essere accettato ancora bambino presso la locale scuola dei frati francescani, in cui primeggerà a tal punto da venir inviato a proseguire gli studi presso la scuola della cattedrale di Gyulafehérvár, normalmente riservata solo ai rampolli delle famiglie nobiliari.

Alla scuola della cattedrale Ferenc non solo continuò a dimostrarsi uno studente brillante, non solo si rese pienamente conto della propria vocazione sacerdotale, ma, più mondanamente, riuscì a stringere amicizie influenti che gli permisero, una volta raggiunto il presbiterato, di avere i fondi per continuare la propria formazione.

Così, dopo essere stato al servizio della Chiesa cattolica transilvana per qualche tempo, egli venne inviato da un ricco amico all’Università di Wittenberg, dove studiavano ancora molti cattolici a dispetto del fatto che la città fosse stata il centro della Riforma di Lutero. Alcune fonti parlano anche di un soggiorno del presbitero transilvano presso l’Università di Padova, ma, in realtà, tale soggiorno resta dubbio e il nome di Ferenc Dàvid non risulta negli annali della facoltà. Certamente, comunque, gli studi all’estero fecero del giovane membro del clero uno degli uomini di chiesa più eruditi del suo paese e, probabilmente, piantarono nella sua mente il seme del dubbio sulle “verità dottrinali cattoliche”.

Tornato a casa nel 1551, dopo essere stato scelto come rettore di una scuola cattolica a Besztercze, nella quale rimase per due anni, e dopo essere stato, subito dopo e ancora per due anni, parroco di un grande villaggio nella stessa contea, Ferenc, evidentemente, sentì tale seme germogliare. Molti membri del clero cattolico della zona stavano, uno dopo l’altro, accettando le dottrine riformate e Dávid si unì a loro, lasciò il sacerdozio e si convertì al Luteranismo.

La sua fama era già tale che tre delle più importanti chiese protestanti del paese lo chiamarono immediatamente al loro servizio ed egli decise di accogliere l’invito della parrocchia della sua città natale, Kolozsvar, dove trascorse i restanti 24 anni della sua vita in una posizione di grande influenza e idolatrato dal popolo.
Da questo momento in poi l’ascesa di Dàvid si fece sempre più rapida: nel 1555 venne nominato rettore della Scuola luterana, l’anno seguente pastore della più grande chiesa della città e, nel 1557, dopo aver ottenuto una grande reputazione per i suoi brillanti dibattiti contro il già menzionato Stancaro e contro i Calvinisti ed essere stato unanimemente riconosciuto come il leader della Riforma in Transilvania, venne scelto come vescovo dei Luterani ungheresi.

Ciò che, però, più caratterizzava Ferenc Dàvid era l’apertura mentale e la capacità di avere l’umiltà di non esaurire mai la propria ricerca spirituale negli stretti dettami di una Denominazione religiosa. Così, dopo aver a lungo combattuto contro la visione calvinista della Cena del Signore, il vescovo luterano finì per essere conquistato dalle idee del suo principale oppositore, Melius, e, di conseguenza, nel 1559, si dimise dall’ufficio vescovile. Sebbene i Luterani lo espellessero dal loro sinodo nel 1560, egli mantenne il suo pastorato e cercò fino alla fine di evitare una spaccatura del fronte riformato, prendendo parte attiva nei dibattiti che si susseguivano su questioni dottrinali.

Ben presto accadde che egli venisse considerato la guida dei Calvinisti, così come era già avvenuto sul fronte luterano. La sua eloquenza persuasiva convinse sia il re che molti dei magnati locali della bontà della nuova visione protestante e, quando Luterani e Calvinisti si separarono definitivamente nel 1564, fu più che naturale che, con l’appoggio di Giovanni Sigismondo (e del suo medico personale Giorgio Biandrata, che Ferenc aveva avuto modo di conoscere durante alcuni dei numerosi dibattiti), l’ex vescovo luterano venisse nominato nuovamente vescovo, questa volta della neonata Chiesa Riformata di Transilvania.

Dàvid era ormai al culmine del suo potere: era il più eloquente e famoso predicatore (e, probabilmente, il più abile oratore pubblico) in Transilvania, era così esperto nelle Scritture da poter citare a memoria qualsiasi passo biblico e da poter, nel corso dei dibattiti, menzionare testi e confrontare passaggi con un prontezza che spesso mandava in confusione i suoi avversari.

Divenuto, com’era logico, predicatore di corte, Dàvid aveva, inoltre, potuto approfondire la sua conoscenza di Biandrata, fino a diventarne intimo. Proprio questa intimità suggerì al medico italiano di confidare al vescovo le sue speranze per una ulteriore riforma delle dottrine della Chiesa e di raccontargli delle sue passate esperienze in Italia, Svizzera e Polonia. Biandrata fu, però, come per sua natura, molto cauto e si mosse lentamente, arrivando a portare a poco a poco Dàvid sulle sue posizioni. Ben diverso era il carattere del predicatore calvinista, audace e senza paura e così, in quello stesso anno, alla presenza del re alla Dieta di Segesvar, egli osò esprimersi apertamente contro la dottrina della trinità. Le cronache coeve riportano che il re, invece di ricusare l’assunto, si limitò a sorridere e così la cosa non ebbe un grande seguito, se non in dibattiti minori interni alla Chiesa.

Nel 1566, però, si giunse al punto di svolta: Dàvid, avendo saputo che uno dei professori della scuola di Kolozsvar insegnava la vecchia dottrina della Trinità, osò correggerlo e l’insegnante, irritato, accusò pubblicamente Dàvid di eresia. Dàvid, a questo punto, gli tolse la cattedra e cominciò sistematicamente a predicare l’unità di Dio dal suo pulpito di Kolozsvar. L’ex docente, rifugiatosi in Ungheria, si rivolse a Melius che decise di farsi paladino di una nuova crociata per l’ortodossia e, dopo aver informato dell’accaduto Calvino e Beza, chiese il giudizio reale contro il vescovo transilvano. A questo punto intervenne Biandrata, che chiese che venisse convocato un sinodo per discutere la questione.

La polemica montò rapidamente e gli animi si surriscaldarono: non a caso nei cinque anni seguenti praticamente ogni mese si tennero dibattiti pubblici, diete o sinodi sulla dottrina della Trinità, spesso presieduti dal re stesso e con grande affluenza di rappresentanti del clero e della nobiltà. Molte di queste discussioni presero la forma di dispute formali in cui ogni parte nominava i suoi migliori teologi per presentare e difendere a turno tesi e antitesi, con rapporti stenografici presi da segretari e poi divulgati in ogni parte del paese.

La prima di tali discussioni si tenne, a inizio 1566, al sinodo nazionale di Gyulafehérvár, per essere quasi subito interrotta e rinviata ad un sinodo successivo a Torda: i ministri presenti, sotto la guida di Biandrata e Dàvid, dopo aver accettato il Credo degli Apostoli, produssero una dichiarazione di fede che sosteneva una interpretazione unitaria, respingendo la dottrina di Atanasio come insostenibile e ciò portò subito a disordini che consigliarono il rinvio della discussione in un consesso più sorvegliato dalle truppe regie.

Un paio di settimane più tardi, a Torda, gli antitrinitari espressero la loro convinzione in modo più completo e attento, senza che, comunque, il dibattito portasse ad alcuna risoluzione finale e, poco dopo, pubblicarono un catechismo il cui scopo doveva essere semplicemente ripristinare la dottrina del Nuovo Testamento e della Chiesa primitiva come base di unione per tutti i Cristiani. Melius, che era ormai diventato vescovo della Chiesa riformata in Ungheria, aveva finora contestato le posizioni dàvidiane in territorio ostile, in un’area in cui i liberali erano in maggioranza, ma, l’anno successivo, riuscì a convocare un sinodo a Debreczen, nel suo distretto, ottenendo che alcune proposte fortemente ortodosse, come l’adozione della “Confessione elevetica” per tutti i Riformati, venissero accettate.

In Transilvania, nel frattempo, Dàvid e Biandrata erano impegnati nella stesura della loro opera più importante, quel “De Falsa et vera unius Dei Patris, Filii et Spiritus Sancti cognitione libri duo”, in cui, oltre ad esporre i fondamenti teologici dell’Unitarianesimo, mettevano in ridicolo le assurdità della dottrina della trinità per mezzo di immagini piuttosto forti, irritando notevolmente gli ortodossi e riuscendo a creare un’impressione indelebile nella mente della gente comune. Nella sua dedica di questo libro a re Giovanni Sigismondo, Dàvid fa un appello per la tolleranza che è di gran lunga più avanzato rispetto al pensiero del suo periodo storico: “Non c’è più grande follia che cercare di esercitare potere sulla coscienza e l’anima della gente, che sono entrambe soggette solo al loro Creatore”.

Questo modo di pensare incontrò il favore del re, che, a breve, in una nuova dieta di Torda del gennaio 1568, dopo che Dàvid aveva espresso un eloquente appello a favore della tolleranza religiosa (pare pronunciando anche la sua famosissima frase “Non è necessario pensare allo stesso modo per amare allo stesso modo”), non solo rinnovò i decreti di libertà confessionale già emanati dai suoi predecessori nel 1557 e nel 1563, ma li rafforzò con quell’”Editto di Tolleranza” che segna l’inizio ufficiale della Denominazione Unitariana e che decreta “che i predicatori sono autorizzati a predicare il Vangelo in tutto il mondo, ciascuno secondo la propria comprensione di esso. Se la comunità desidera accettare tale predicazione, bene, in caso contrario, essi non sono costretti a farlo, ma sono autorizzati a mantenere i predicatori che preferiscono. Nessuno deve essere fatto soffrire a causa della sua religione, poiché la fede è dono di Dio”.

Tale dichiarazione, che per noi può oggi apparire scontata, era quasi incredibile in un periodo in cui nel resto d’Europa l’Inquisizione faceva di tutto per schiacciare il Protestantesimo, in cui la Spagna stava mettendo migliaia di Protestanti a morte nei Paesi Bassi, in cui in Francia avveniva il massacro di San Bartolomeo e in Inghilterra i negazionisti della Trinità venivano ancora bruciati vivi: un re di soli 28 anni aveva toccato il limite più alto della tolleranza continentale e aveva creato una nicchia protetta in cui l’Unitarianesimo poté svilupparsi nonostante le feroci persecuzioni in ogni altro paese.

Melius, molto scontento di come le cose stavano procedendo, cercò di arginare la marea unitariana invitando i ministri della Transilvania ad una discussione congiunta a Debreczen in Ungheria, ma la città era fuori dalla giurisdizione di re Giovanni Sigismondo e delle sue leggi e solo poche settimane prima un ministro antitrinitario era stato qui arrestato e imprigionato senza processo e, dunque, Biandrata, sospettando un complotto, decise di declinare l’invito. Invece, il re, desiderando approfondire le questioni in dibattimento e, soprattutto, calmare gli animi troppo infervorati dei suoi sudditi, scelse di convocare un sinodo generale dei ministri di Ungheria e Transilvania presso il suo palazzo a Gyulafehérvár, per ascoltare un dibattito formale sull’argomento: cinque teologi, guidati da Biandrata e Dàvid, rappresentarono il “partito” unitariano, mentre il fronte calvinista era composto da sei oratori guidati dal vescovo, Melius. Ne risultò, davanti al re, a tutta la corte, e a una grande folla di ministri e nobili che di tanto in tanto animavano il procedimento con domande o commenti, il più grande dibattito in tutta la storia dell’Unitarianesimo, i cui lavori ebbero inizio l’8 marzo 1568, alle cinque del mattino, con una solenne preghiera, vennero condotti in latino e durarono dieci giorni interi. Melius e i suoi fecero appello all’autorità della Bibbia, ai credi, ai Padri della Chiesa e a tutti i teologi ortodossi, mentre Dàvid rispose sempre e solo utilizzando passi delle Sacre Scritture: il nono giorno i Calvinisti chiesero di ritirarsi per “non dover ascoltare ulteriormente affermazioni eretiche” ma sia al re che a tutti i presenti apparve chiaro che questa era, in realtà, una dichiarazione di sconfitta, che Giovanni Sigismondo cercò di mitigare con un appello finale a trovare un accordo e a cercare un’armonia che evitasse abusi reciproci.

Nel corso della discussione Biandrata si era dimostrato un oratore povero e non entrò mai più in un dibattito pubblico, ma Dàvid, che aveva aperto e chiuso i lavori dimostrandosi sempre pronto e convincente nel rispondere ad ogni domanda e obiezione, si coprì di gloria a tal punto che al suo ritorno a Kolozsvar venne portato in trionfo dalla folla, che lo fece salire su un grande masso ad un angolo di strada (la pietra è ancora conservata dagli Unitariani di Kolozsvar come una reliquia sacra) per proclamare la sua dottrina vittoriosa: si racconta che, in tale occasione la sua eloquenza fu così convincente che l’intera popolazione della città accettò la nuova fede. In realtà, tale leggenda non è così veritiera: i Sassoni luterani di Kolozsvar, ad esempio, furono così disgustati dalle sue parole che lasciarono la città senza indugio, ma, di fatto, proprio dopo tale esodo, per molti anni Kolozsvar divenne praticamente una città unitariana, con tutte le chiese e le scuole e tutti i membri del Consiglio cittadino che si convertirono a quella Denominazione Unitariana di cui Dàvid venne proclamato (per la terza volta nella sua vita) vescovo.

Essendo stati sconfitti in Transilvania, i Calvinisti fecero ora appello al giudizio dei professori delle università tedesche, considerati la massima autorità dell’Europa protestante per quanto riguardava le questioni teologiche Naturalmente le risposte, venendo dalla ultraortodossa Germania, furono tutte a loro favore e molti dei professori arrivarono a scrivere libri contro Dàvid e Biandrata per cercare di suscitare sentimenti contro di loro. Intanto, gli “ortodossi” tentarono di riorganizzarsi anche nei domini di Giovanni Sigismondo: mentre in Ungheria, lungo tutto il corso del 1568, tutti i sinodi distrettuali condannavano, uno dopo l’altro, gli antitrinitari, anche in alcune aree di confine transilvane i Calvinisti, trascurando il decreto di tolleranza del re, perseguitavano e cacciavano i ministri di idee unitariane, imponevano loro di abiurare e li condannavano senza permettere alcuna difesa processuale.

Dàvid, per difendere costoro, decise che sarebbe stato opportuno portare la guerra in territorio nemico e, con il re, pensò di convocare un nuovo sinodo a Nagyvarad (Grosswardein), il 10 ottobre 1569. Il clero ortodosso, in un primo momento, gli negò il diritto di convocare un sinodo affermando di avere un loro proprio vescovo in Melius e che quindi egli non avesse alcuna autorità su di loro ma, alla lunga, fini per accettare il dibattito, le cui condizioni e regole furono a lungo discusse: Dàvid presentò una sua dichiarazione di fede e una serie di proposizioni che era pronto a difendere, mentre i suoi avversari portarono controdeduzioni e presentarono le loro proposte, firmate da 60 ministri. A presiedere il sinodo fu chiamato Gaspar Bekes, il magnate più potente del regno e il consigliere più intimo del re (che, da parte sua, era presente con molti generali e nobili) e la partecipazione di pubblico fu ancora più grande che a Torda. Sebbene vi fossero nove contendenti per ciascuna parte, il dibattito si svolse principalmente tra Dàvid e Melius e fu della massima intensità: da parte sua Melius in più occasioni attaccò Dàvid con tale violenza che lo stesso re finì per rimproverarlo e suggerirgli che se i ministri ortodossi non credevano nella libertà di coscienza avrebbero fatto meglio a spostarsi in qualche altro paese, mentre Dàvid parlò eloquentemente a favore della libertà religiosa, tanto che, dopo sei giorni, essendo chiaro che nessuna novità di rilevo veniva portata dal fronte calvinista, il re decise di chiudere il dibattito, non solo dando la vittoria agli Unitariani (decisione sulla quale anche Bekes e la maggior parte dei presenti concordarono), ma arrivando addirittura ad affermare pubblicamente la propria conversione alla fede antitrinitaria, mentre la minoranza ortodossa si dovette accontentare di firmare una propria confessione di fede e di condannare Dàvid e le sue opinioni.

Di fatto, da quel momento, le Chiese che accettarono il punto di vista di Dàvid si separarono definitivamente da quelle di fede ortodossa, anche se non risulta assolutamente chiaro né quando né come tale divisione sia stata realizzata né pare che i futuri Unitariani si siano per qualche tempo, considerati distinti dai Riformati, tanto che inizialmente i pastori si firmavano, nei documenti ufficiali, “ministri della Professione evangelica”, che nelle leggi del 1576 vengono ancora menzionati come “coloro che detengono la religione di Ferenc Dàvid” e che, persino nel 1577, la loro Denominazione viene semplicemente menzionata come “la Confessione di Kolozsvar”.

Avendo il re dato apertamente la propria adesione al nuovo culto, presto l’intera corte seguì il suo esempio e sette dei suoi consiglieri principali e numerosi generali, giudici e funzionari superiori si convertirono nel giro di pochi giorni, portando praticamente l’intera nobiltà transilvana su posizioni antitrinitarie. La forza della nuova denominazione risiedeva soprattutto nelle città più grandi e nei villaggi dello Szeklerland, mentre in tutto il paese venivano aperte tredici scuole superiori o università unitariane, tutte facenti capo al Collegio reale creato per decreto regio nei locali di un ex monastero domenicano.

Al di là delle importanti vittorie pubbliche riportate da Dàvid, grande merito della diffusione della nuova fede veniva dalla incessante attività pubblicistica del suo vescovo, che scrisse, solo nel 1568, non meno di otto opere pubblicate sia in latino per gli studiosi che in ungherese per la gente comune. Il risultato fu che prima della morte di Dàvid già si contavano oltre 300 chiese unitariane nella sola Transilvania, a cui si univano altre 60 in Ungheria e numerose altre in Polonia.

Ciò che, però, ancora preoccupava il vescovo unitariano era che la sua Chiesa non avesse raggiunto alcuna legittimazione giuridica e, dunque, Dàvid pensò di sottoporre la questione all’attenzione del re, il quale non tardò a rispondere positivamente: alla Dieta di Maros Vásárhely, tenuta all’inizio del 1571, dopo un’ampia discussione, il re concesse al popolo e alla chiesa di Kolozsvár tutti i privilegi che erano stati detenuti dai Sassoni luterani e, soprattutto, stabilì la perfetta uguaglianza delle quattro principali Religioni, cattolica, luterane, riformata e unitariana, definite “Religioni ricevute”, cioè legalmente riconosciute e protette e i cui membri avevano il diritto di assumere alte cariche pubbliche. Da quel momento in poi a tutti i re e principi della Transilvania venne richiesto, al momento dell’incoronazione, di prestare giuramento di preservare la parità di diritti garantiti dal decreto di Giovanni Sigismondo (sebbene ben pochi poi mettessero in pratica quanto giurato).

Purtroppo, meno di due mesi dopo aver emanato questo editto il re morì: il giorno dopo la dieta, mentre era in procinto di andare in uno dei suoi castelli per un periodo di riposo, rimase gravemente ferito in un incidente di viaggio e alcune complicazioni minarono la sua salute già fragile fino all’inaspettato decesso, avvenuto il 15 marzo 1571, quando il sovrano non aveva ancora 31 anni e non aveva eredi.

Giovanni Sigismondo lasciava un regno profondamente in lutto e fortemente diviso dal punto di vista religioso. Gli Unitariani speravano che il suo successore potesse essere Gaspar Bekes, uno di loro, che era stato il gran ciambellano e il più fidato consigliere reale, ma, purtroppo, egli era assente per una missione politica al momento della morte del re e i suoi nemici riuscirono a indire una dieta nobiliare a maggioranza ungherese che scelse per il trono, come era prevedibile, un magiaro che, però, era uno dei pochi magnati cattolici rimasti nel paese: Stephan Bathori. Dopo aver ricevuto la corona, il nuovo principe, accettò di prestare giuramento di proteggere le quattro “Religioni ricevute” e, sebbene ostile alla Riforma, promosse un certo numero di Calvinisti e Luterani a importanti cariche pubbliche ma, da subito, si dimostrò nemico dell’Unitarianesimo (probabilmente perché era la religione del suo principale rivale Bekes) e cercò in ogni modo di frenarne la diffusione: rimosse tutti gli Unitariani dalla corte e dai ministeri, nominò un altro predicatore di corte al posto di Dàvid e riesumò un’’antica legge che impediva a chiunque di stampare libri senza il suo permesso (un permesso che, naturalmente, non venne mai concesso ai testi unitariani).

Alla luce delle vicende successive, comunque, la sua linea di attacco anti-unitariana più di successo fu quella di impedire lo sviluppo dell’insegnamento di una Religione ancora scarsamente formalizzata attraverso un decreto del 1572, controfirmato dalla dieta l’anno successivo, con cui si impediva qualsiasi “innovazione religiosa”: chiunque introducesse ulteriori riforme o cambiamenti nella religione, avrebbe dovuto essere scomunicato e bandito, o persino imprigionato e messo a morte per blasfemia, a discrezione del principe.

Da questo momento in poi le cose, per gli Unitariani, andarono di male in peggio: nel 1574 la vita e le opere di Dàvid vennero passate al setaccio al sinodo di Nagy Enyed per cercare (inutilmente) di trovare qualche scandalo che potesse distruggere la sua influenza presso il popolo; nel 1575 Bekes venne completamente sconfitto, molti dei suoi seguaci vennero uccisi in battaglia o nei mesi successivi, praticamente tutti i magnati unitariani vennero sollevati dal loro rango con confisca dei beni e buona parte del suo partito, in maggioranza composto da Szekerli, sterminato; negli anni successivi si cercò in tutti i modi di riconvertire gli Unitariani con minacce e promesse che, per altro, ebbero scarso effetto e, sempre nel 1575 (sebbene il decreto diventasse effettivo dall’anno seguente) la carica di vescovo unitariano di Kolotzvar divenne “ufficio statale” sottoposto all’approvazione regia, limitando, di fatto, la libertà religiosa di tutti gli anti-trinitari.

In tutta questa rovina, solo Biandrata, grazie alla sua scaltrezza politica, era riuscito a mantenere la posizione di medico di corte e consigliere del re. Così, quando, nel 1574, il trono di Polonia rimase vacante, e Stephan risultò essere uno dei principali candidati ad occuparlo, fu proprio Biandrata ad essere inviato a Cracovia a difendere gli interessi del suo re e fu soprattutto grazie ai suoi sforzi che Stephan ricevette l’investitura a fine 1575. In realtà questo non fu affatto un dato positivo per gli Unitariani, dal momento che Stephan lasciò il governo della Transilvania, in qualità di reggente, al fratello Christopher, che immediatamente si dimostrò persino meno tollerante di lui e più deciso a restaurare la Chiesa cattolica: nel 1576 una dieta reale ordinò che al vescovo unitariano fosse fatto divieto di recarsi nelle sue chiese e di tenere sinodi fuori da Kolozsvar e Torda; gran parte delle chiese unitariane venne posta sotto la tutela del vescovo riformato (comunque anch’egli notevolmente limitato nel suo campo d’azione) e, nel 1579, il principe fece appello ai Gesuiti perché venissero a ripristinare l’influenza della Chiesa cattolica, come avevano fatto quindici anni prima in Polonia (i Gesuiti vennero poi espulsi nel 1588 con l’accusa di aver tentato di portare la Transilvania sotto l’influenza del cattolicissimo impero austriaco).

Nonostante tutto, comunque, gli Unitariani, pur limitati nella loro crescita, continuarono non solo ad esistere, ma anche a sviluppare un intenso dibattito teologico. Fu proprio tale sviluppo che portò alla nuova sciagura che li doveva colpire. Tutto nacque dalle discussioni su come approcciarsi alla figura di Cristo: sebbene nessun unitariano credesse che Cristo fosse uguale a Dio, tutti avevano ereditato dal loro passato l’abitudine di pregarlo. Alcuni dei maggiori pensatori della Denominazione, però, quali il rettore della scuola di Kolozvar Johann Sommers e il teologo italo-greco Giovanni Paleologo, erano convinti che tale pratica non fosse mai stata insegnata dalla Scritture né ordinata da Cristo stesso e che, quindi, ogni forma di adorantismo verso Cristo dovesse cessare. Si trattava di un punto di vista già presente nella comunità e discusso all’interno dei suoi circoli al tempo della morte di re Giovanni Sigismondo e che non aveva mai sollevato particolari obiezioni da parte di nessuno, diffondendosi, anzi, piuttosto ampiamente mentre solo i più ortodossi vedevano in questa posizione una sorta di rinuncia al Cristianesimo e di ritorno all’Ebraismo. Fu, dunque, solo con il ritorno dei Gesuiti nel paese, nel 1579, che l’idea divenne un problema: si trattava di una buona scusa per loro per accusare Dàvid, che sosteneva l’anti-adorantismo, di bestemmia ed eresia e ciò fu esattamente quello che fecero.

Abbiamo già osservato come Dàvid avesse sempre mantenuto una mente aperta a qualsiasi proposizione religiosa, non fossilizzandosi mai su dogmatismi statici. Così, dopo lunghe discussioni con suo cognato Johann Sommers, egli aveva adottato, senza grandi conseguenza, il non adorantismo già dal 1572. Circa cinque anni dopo, però, proprio quando i Cattolici stavano attuando la campagna più aggressiva contro di lui e, soprattutto, dopo che, nel 1577, la dieta aveva rinnovato la legge contro ulteriori “innovazioni religiose”, egli sentì che era suo dovere reagire contro questi attacchi alla libertà di pensiero e cominciò a predicare con coraggio contro l’idolatria adorantista: al sinodo unitariano di Torda del marzo 1578, con 322 ministri presenti, si scagliò veementemente contro il culto di Cristo e il battesimo dei bambini, che venne abolito come non scritturale e, da quel momento in poi, non perse occasione per approfondire la riforma della dottrina in qualunque discorso pubblico e privato. Già nel mese successivo la dieta emise un monito contro di lui, accusandolo di voler introdurre innovazioni dottrinali, ma il vescovo unitariano ignorò completamente l’avvertimento e, nel sinodo d’autunno di quello stesso anno ribadì le proprie posizioni.

Biandrata, che era riuscito a rimanere medico di corte, si rese immediatamente conto che ciò era proprio quello che i Gesuiti stavano aspettando e che il principe, sotto la loro pressione, stava diventando sempre più impaziente, con il rischio che tutti gli Unitariani venissero banditi dal paese. Fu per questo che, l’italiano esortò immediatamente Dàvid a tacere e quando Dàvid rispose che questo sarebbe stato un atto d’ipocrisia, Biandrata gli suggerì che sarebbe stato meglio se lui, come vescovo, si fosse tenuto fuori dalla mischia, e che, anzi, sarebbe stato necessario che due o tre dei ministri che erano più zelanti nel diffondere il nuovo insegnamento venissero processati per eresia. Forse questa sarebbe stata una mossa politicamente accorta, ma Dàvid non era un politico e respinse sdegnosamente la proposta definendola disonorevole.

A questo punto Biandrata provò un’altra strada: avendo sentito parlare di Fausto Socino e del il suo famoso dibattito a Basilea su Cristo Salvatore, lo mandò a chiamare e gli propose di trasferirsi per qualche tempo a sue spese a casa di Dàvid per convincere quest’ultimo con argomenti biblici. Socino acconsentì a risiedere a Kolotzvar dalla primavera all’autunno e, in questo periodo, organizzò anche una discussione pubblica con Dàvid sul tema del culto di Cristo: al dibattito presero parte molti ministri e, nonostante Socino avvertisse Dàvid del rischio di una deriva giudaicizzante, Dàvid non si smosse minimamente dalla sua posizione. Per tentare di convincerlo, allora, Biandrata cerco di tagliare drasticamente i fondi ecclesiastici del vescovo, ma questi, pur lamentandosi della cosa e arrivando a paragonare l’atteggiamento del medico italiano nei suoi confronti a quello di Calvino contro Serveto, mantenne la sua predicazione anti-adorantista.

Biandrata, dopo queste accuse, rispose rabbiosamente che se Dàvid non avesse abbandonato la sua dottrina offensiva si sarebbe visto costretto ad accusarlo del reato di “innovazione” davanti alla dieta successiva. Dàvid, forse presagendo quanto avrebbe potuto accadere, sembrò venire a più miti consigli e chiese un arbitrato da parte di un comitato di ministri che, a loro volta, avrebbe risposto al sinodo nazionale e, a latere, si accordò con Biandrata perché entrambi presentassero le proprie tesi per iscritto e le sottoponessero al giudizio di Socino e promise che, fino a quel momento, non avrebbe più predicato nulla riguardo all’adorazione di Cristo. Dopo aver preparato il documento per Socino, però, il vescovo unitariano, senza aspettare la risposta del teologo italiano, indisse un altro sinodo a Torda nonostante l’opposizione di Biandrata.

Fu probabilmente questa la goccia che fece traboccare il vaso: Biandrata, pensando che Dàvid fosse incorreggibile e che cercasse di provocarlo, radunò 50 ministri, li informò di quanto stava accadendo (dando, in verità, una lettura molto più netta e radicale delle tesi Dàvidiane di quanto esse realmente fossero) e dei rischi che la Denominazione stava correndo e suggerì loro di votare perché il vescovo venisse esautorato e bandito.

In una missiva a Socino, inoltre, lo informò che da quel momento in poi non avrebbe più difeso Dàvid davanti al principe e che, anzi, lo avrebbe accusato, cosa che puntualmente fece: il principe colse la palla al balzo e ordinò immediatamente al Consiglio Kolozsvar di rimuovere Dàvid dal suo pastorato e di farlo tenere sotto sorveglianza in casa sua, isolato e senza possibilità di ricevere visitatori. Dàvid rispose al provvedimento cacciando Socino dalla sua casa e, nonostante fosse da tempo malato (forse di polmonite), la domenica seguente predicò in due chiese a Kolozsvar, spiegando a tutti ciò che stava per accadere e lanciandosi in una eloquente difesa della dottrina unitariana non-adorantista. Fu il suo ultimo sermone.

Il principe, venuto a conoscenza dell’accaduto si infuriò terribilmente e, nonostante i membri del Consiglio di Kolozsvar e molti nobili facessero del loro meglio per placarlo, ordinò che Dàvid venisse arrestato. Mentre Socino tornava in Polonia, Biandrata, i cui sentimenti verso l’antico sodale erano ormai caratterizzati da profonda animosità personale, non fece più nulla per alleviare le sofferenze di Dàvid, rinchiuso in una cella di massima sicurezza, e solo raramente intercesse perché la famiglia del vescovo potesse andare a visitarlo. Pochi giorni dopo, sebbene gravemente indebolito, Dàvid venne condotto in un carro aperto (perché la sua umiliazione fosse pubblica) al tribunale di Gyulafehérvár, presieduto dal principe stesso, e qui venne accusato di “innovazione religiosa”.

Nonostante Dàvid portasse numerose prove che la corrente non-adorante esisteva da lungo tempo e che era stata anche, almeno in una occasione, approvata dallo stesso Biandrata, il giudizio era scontato: dopo una prima dichiarazione il vescovo venne messo a tacere e condotto in una cella, Biandrata e i ministri unitariani da lui prodotti come testimoni (a parte uno che ebbe il coraggio di affermare di aver ascoltato la predicazione anti-adorante di Dàvid a Nagyvárad senza che ciò creasse alcuno scandalo) giurarono di non aver mai condiviso il punto di vista del loro leader spirituale e, sebbene un certo numero di nobili si dichiarasse d’accordo con le idee Dàvidiane, tutti i Gesuiti che affiancavano il principe affermarono che le proposizioni non-adoranti erano non solo eretiche ma addirittura infernali.

 

Quando Dàvid venne ricondotto in aula, sebbene Biandrata stesso chiedesse pietà per lui, su istigazione di Gesuiti e Pastori riformati Chritopher Bathory lo dichiarò colpevole, e lo condannò al carcere duro a vita nel castello di Deva. Ulteriori ricorsi caddero tutti nel vuoto, soprattutto dopo che la chiese polacche, inaspettatamente, si pronunciarono unanimemente contro Dàvid, il quale, vinto dalla malattia e dalle privazioni impostegli a Deva, morì nella fortezza il 15 Novembre 1579.

Che giudizio possiamo dare di quest’uomo che, dopo essere stato un leader in ben quattro Denominazioni (e vescovo di tre di esse), finì i suoi giorni in una prigione per non aver voluto cedere a compromessi?

 

Spesso egli è stato accusato di essere troppo volubile, troppo prono a farsi influenzare da chi, in un determinato momento, gli stava vicino. Si tratta di una opinione superficiale: Dàvid era uno studioso instancabile della Scrittura e tutti i suoi sforzi erano volti a realizzare una riforma radicale del Cristianesimo.

 

In quest’ottica i suoi cambiamenti erano semplicemente fasi di un costante movimento verso una direzione coerente, verso un concetto di Cristianità originaria che superasse ogni barriera denominazionale. A questo concetto egli rimase sempre fedele, fino alla morte ed è certamente per questo che la sua figura, ancora oggi, dopo 350 anni, continua ad essere fonte di ispirazione per migliaia di persone nel mondo.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

E. Darling, Architects of religious liberty: Francis Dàvid and King John Sigismund, First Unitarian Society of Minneapolis 1968;

W.C Gannett, Francis Dàvid, founder and martyr of Unitarianism in Hungary, Lindsey Press 1914;

S. Hole Fritchman, Men Of Liberty - Ten Unitarian Pioneers, Hayne Press 2007;

E.M. Wilbur, A history of Unitarianism, Vol.1, Harvard U.P. 1923;

B. Varga, Francis Dàvid: What has endured of his life and work?, M. Unitarius Egyhaz 1981



 

 

COLLABORA


scrivi per InStoria



 

EDITORIA


GBe edita e pubblica:

.

- Archeologia e Storia

.

- Architettura

.

- Edizioni d’Arte

.

- Libri fotografici

.

- Poesia

.

- Ristampe Anastatiche

.

- Saggi inediti

.

catalogo

.

pubblica con noi



 

links


 

pubblicità


 

InStoria.it

 


by FreeFind

 

 

 

 

 

 

 

 


[REGISTRAZIONE AL TRIBUNALE CIVILE DI ROMA N° 577/2007 DEL 21 DICEMBRE]


 

.