STORIA Di UNA MILIZIA
SULLA Felice societAS dei
balestrieri e dei pavesaTI
di
Filippo Vedelago
Dopo
la fuga del sommo pontefice Clemente
V, successore al soglio di Pietro di
Benedetto XI e ancor prima di papa
Bonifacio VIII, a Roma si stabilì un
potentato effettivo delle famiglie
baronali romane che si spartirono il
territorio di Roma non disdegnando
aggressioni banditesche. Nel 1347
salì al potere Cola di Rienzo,
personaggio carismatico e capace di
innalzare le folle, il quale prima
di tale atto riuscì a convincere non
solo il popolo di Roma ma anche gran
parte dell’entourage del pontefice
su quanto Roma “Rettori non avea.
Onne dìe se commatteva. Da onne
parte se derobava. Dove era luoco,
le vergine se vitoperavano. Non ce
era reparo. Le piccole zitelle se
furavano e menavanose a desonore. La
moglie era toita allo marito nello
proprio lietto. Li lavoratori,
quanno ivano fòra a lavorare, erano
derobati, dove? su nella porta de
Roma. Li pellegrini, li quali viengo
per merito delle loro anime alle
sante ciesie, non erano defesi, ma
erano scannati e derobati. Li prieti
staievano per male fare. [...]
Quello più avea rascione, lo quale
più poteva colla spada. Non ce era
aitra salvezza se non che ciascheuno
se defennieva con parenti e con
amici. Onne dìe se faceva adunanza
de armati”. La tragedia innescata e
messa in campo da Cola di Rienzo
fece accumulare un vasto potere al
condottiero di Roma che decise di
ammutinarsi sull’Aventino e farsi
proclamare tribunus plebis. Per far
fronte alla lotta contro i baroni,
lo stesso Cola si avvalse di una
milizia cittadina dove ogni rione
doveva dare del suo per il bene di
Roma.
Riuscì
a raggruppare “Per ciasche rione de
Roma ordinao pedoni e cavalieri
trenta, e deoli suollo. Ciasche
cavalieri avea destrieri e ronzino,
cavalli copertati, arme adornate
nove. Bene pargo baroni. Anco
ordinao li pedoni puro adorni, e
deoli li confalloni, e divise li
confalloni secunno li segnali delli
rioni, e deoli suollo. E commannao
che fussino priesti ad onne suono de
campana e feceselli iurare
fidelitate. Fuoro pedoni MCCC, li
cavalieri CCCLX, elietti iovini,
mastri de guerra, bene armati. Puoi
che lo tribuno se vidde armato de
così fatta milizia, allora se
apparecchia de movere guerra a più
potienti perzone...”. Il tentativo
di Cola riuscì almeno in apparenza:
infatti dopo la battaglia di Porta
San Lorenzo (20 settembre 1347) dove
sconfisse la maggior parte delle
famiglie baronali, Cola cambiò
indole abbandonandosi al lusso e nel
1353 fu prima fatto arrestare da
papa Clemente VI, processato e in
seguito liberato. Al ritorno provò a
riprendere il potere ma nel 1354,
dopo aver alzato le gabelle e dopo
essere stato tradito da un suo
capitano fu catturato dalla folla,
linciato e arso al rogo davanti il
Mausoleo di Augusto, territorio dei
Colonna. Terminata l’esperienza di
Cola, altamente destabilizzante per
i baroni seguì il periodo del
Senatore unico, favorito dal
pontefice Innocenzo VI per debellare
le lotte intestine di Roma. È da
questa radice che nacque e si
stabilì con poteri importanti la
Felice Societas dei Balestrieri e
Pavesati. Come dice il nome, la
Felice Società dei Balestrieri e
Pavesati è una milizia che si
suddivideva in due schiere di
soldati: la prima composta da 1500
uomini armati di balista ovvero di
balestra arma che poteva scoccare
dardi anche da distanze importanti e
la seconda dai pavesati, armati di
un grande scudo rettangolare portato
da un soldato chiamato pavesaro o
palvesaro, formati da 1500 soldati.
Le due
formazioni erano complementari in
quanto la prima schiera appariva
come una formazione offensiva e la
seconda difensiva. Non bisogna però
sintetizzare questa formazione
militare per il nome altisonante,
bisogna invece soffermarci sulla
Societas e analizzare questo nome.
La societas, in diritto romano, era
un contratto consensuale, ovvero un
tipo di obbligazione consensu
contractae che veniva siglato
bilateralmente o plurilateralmente,
in cui i contraenti, sulla base
della buona fede, si obbligavano a
compiere una data attività o a
conferire dei beni in codominio al
fine di raggiungere un interesse
comune, dividendo in seguito
guadagni e perdite. I Balestrieri e
i Pavesati ricevettero il loro
armamento dalla Societas che
provvedeva a pagarli tramite un
indennizzo. L’appartenenza alla
milizia cittadina non era
obbligatoria ma si riferiva perlopiù
ad un atto volontario; combattere
per l’esercito del comune doveva
segnare l’attaccamento al proprio
contesto comunale più che ricoprire
un obbligo amministrativo. A
comandare la Societas vi erano due
Banderesi, due ufficiali superiori
che comandavano le due schiere dei
balestrieri e dei pavesati.
Nel
1370 il papato impose alla Societas
di affiancare ai due Banderesi
quattro Anteposti o Antepositi con
la sana intenzione di coadiuvare i
comandanti a due a due; l’intento,
non celato, di Urbano V, nell’ultimo
atto della sua esistenza terrena era
però di limitare il potere dei
comandanti evitando eccessi di
potenza. Risulta singolare come
tutto questo sia taciuto dallo
Statuto di Roma del 1363, pur
essendo una milizia di in dubita
importanza il silenzio dello statuto
fa un rumore assordante.
La
penuria delle fonti, causata
dall’incendio che distrusse
l’archivio capitolino sembra
chiudere in un silenzio assordante
la possibile esistenza di un
regolamento interno. Non è insensato
pensare però che la Felice Societas
non solo disponesse di un notaio
proprio ma che avesse un proprio
statuto interno con un giuramento di
fedeltà che legasse gli adepti tra
loro. Se così fosse, senza uno
statuto, senza informazioni, come
possiamo ricostruire l’asse fulcrale
della Felice Societas? Una notizia è
certa che la Societas così come
impostata mal era digerita dal
papato perché ne accresceva il
potere che andava a cozzare contro
un tentativo di ripristino del
potentato da parte della Santa Sede.
Questa volontà di attaccare la
Societas da parte del papato
dimostrava di come, questo potere
fosse forte e condiviso, rendendo
questa un’interlocutrice scomoda e
che poteva mettere bocca in tutte le
decisioni più importanti del comune.
Questo
dominio ha dei suoi presupposti; nel
1379 a causa dell’incremento del
banditismo nel distretto di Roma il
comune dovette chiedere alla
Societas l’intervento,
contravvenendo alle misure prese da
Cola di Rienzo su una milizia
prettamente comunale, di un esercito
di professione potente e ben armato.
Tutti questi interventi vennero
pagati dal comune, tanto che la
stessa Felice Societas cominciò ad
avere un proprio tesoro che venne
arricchito da una tassa, lo ius
balestariorum et pavesatorum, che
tutto il distretto doveva pagare
alla Societas per la propria
sicurezza, questa tassa trovò
riscontro solo in un caso, i 350
soldi di Velletri, ma le scarse
fonti non tolgono l’idea di una sua
esistenza.
Nei
distretti la battaglia anti-baronale
fu molto difficile: a Roma, come
detto, il potere baronale era
altamente limitato ma nei territori
distrettuali, dove vi era
l’influenza di un potere consolidato
e forte, la lotta divenne molto
ardua. Il Villani, invece, attribuì
la creazione della milizia proprio
per l’esigenza di contrapporsi
proprio a “li possenti e grandi
cittadini che male facessono, o
ffossono inobedienti a reggimento di
Roma o dessono alcuno ricetto ai
malifattori i lloro fortezze o
tenute”. Ma perché furono così
potenti a Roma? Come possiamo
dedurlo? Nella seconda parte
proveremo a rispondere a questa
domanda analizzando i documenti
arrivati a noi provando a tirar
fuori il massimo dal poco che ci è
pervenuto.
Riferimenti bibliografici:
Anonimo romano, Cronica a cura di
Giuseppe Porta, Adelphi, Milano
1979
Lovato A., Puliatti S. e Solidoro
Maruotti L., Diritto privato
romano, G. Giappichelli Editore,
Torino 2014
Maire Vigueur, J.C., La Felice
Societas dei balestrieri e dei
pavesati a Roma: una società
popolare e i suoi ufficiali in
Scritti per Isa. Raccolta di studi
offerti a Isa Lori Sanfilippo,
Istituto Storico Italiano per il
Medio Evo, Roma 2008
Mendoza R., La Roma nel Trecento.
Gli Statuti del Comune di Roma del
1363, con prefazione di Mario
Ascheri, Aracne, Genzano di Roma
2022
Villani M., Cronica. Con la
continuazione di Filippo Villani,
Edizione critica a cura di Giuseppe
Porta, Milano 1995