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N. 75 - Marzo 2014 (CVI)

FEDRA
L’AMORE TOTALE DELLA TRAGEDIA EURIPIDEA E LE SUe RIVISITAZIONi

di Giulia Elena Vigoni

 

L’antica Grecia vanta tre grandi tragediografi: Sofocle, Eschilo ed Euripide. Quest’ultimo fu autore di molte opere tra cui una, molto attuale, rivisitata da numerosi autori nei secoli successivi sino ad oggi. Divenuta celebre con il titolo “Ippolito Coronato” per distinguerla da un’ antecedente tragedia di Euripide nota come “Ippolito velato”, oggi andata perduta, fu rappresentata per la prima volta ad Atene in occasione delle Grandi Dionisie del 428 a. C.

 

Tuttavia il personaggio principale è Fedra, la “luminosa” figlia di Pasifae e Minosse, regale sposa di Teseo re e fondatore di Atene, perdutamente innamorata di Ippolito, figlio che il marito ebbe in una delle sue avventure amorose con la regina delle Amazzoni Antiope.

 

Indipendentemente dal secolo in cui la tragedia fu riadattata, il tema centrale è l’amore; un amore incestuoso e non corrisposto, impossibile da realizzare che conduce inevitabilmente a un dolore atroce che consuma l’anima fino a culminare nella morte.

 

Critici moderni hanno speso numerose analisi psicologiche sulla malattia d’amore patita da Fedra che arriva addirittura a mostrarne una vera e propria sintomatologia. Da Euripide in poi celebre è il delirio della protagonista nel primo atto della tragedia. Non siamo più nelle selve, nei loci amoeni di Ippolito colto in un ambiente silvestre ed idilliaco sempre intento a compiere sacrifici in onore della dea Artemide; ci spostiamo in una delle stanze più recondite del palazzo di Teseo a Trezene, dove il sovrano e fondatore di Atene aveva spostato la corte nel tentativo di riconciliarsi con il figlio che come ammetterà Fedra poco più avanti, era stato esiliato in quella città su consiglio della stessa regina perché innamorata di lui e convinta che rendendosi odiosa al figliastro ed allontanandolo dalla sua vista avrebbe potuto mettere a tacere questa passione malata.

 

Se in Euripide e Seneca la bella e una volta luminosa regina è ritratta con il volto scarno, gli occhi incavati, pallida come la morte e deperita perché ha deciso, come riferisce alla nutrice di astenersi dal cibo così come dal sesso con l’obiettivo di raggiungere quella purezza che connota Ippolito, il quale ignora - come sottolinea Racine (Atto Primo, Scena 1) nella celebre e a suo dire miglior tragedia della propria produzione - tutto ciò che concerne l’eros e la corruzione morale (al punto che nel dialogo con il generale Teramene, tanto approva ed esalta le gesta eroiche compiute dal padre, tanto biasima le sue avventure erotiche e gli adulteri commessi in gioventù e da cui egli prende le distanze).

 

Nella tragedia raciniana Fedra è colta nel momento in cui debole e tremante entra nella sua stanza dopo che la nutrice Enone aveva informato Ippolito e Teramene che l’animo della sua regina era da tempo pervaso da un eterno disordine.

 

Nella tragedia antica di Euripide e Seneca la sposa di Teseo prega le ancelle di scioglierle le trecce, liberarla dai pesanti gioielli e di slegare i lacci delle vesti, simbolo del legame che la passione amorosa ha creato tra lei e Ippolito, un legame malsano, da estirpare.

 

Jean Racine ambienta la tragedia nel ‘600 e non può permettere che una regina si abbandoni mollemente sul proprio letto, perché anche nel dolore e nella morte ella deve mantenere il suo ruolo regale; ecco perché non chiede di essere liberata da vesti, lacci, gioielli e la sua acconciatura rimane perfetta.

 

Nel secondo atto della tragedia raciniana o “atto delle dichiarazioni” Ippolito rivela il proprio amore ad Aricia, la principessa ateniese figlia dei nemici mortali di Teseo e per questo condannata alla verginità.

 

Il giovane è imbarazzato perché teme l’amore esattamente come il padre alla sua età.

Perché si ha paura di amare? Padre e figlio sono entrambi caratterizzati dal timore di lasciarsi andare alle gioie dell’amore perché questo sentimento è un’arma a doppio taglio: da un lato riempie l’animo, dona felicità e appaga, dall’altro imprigiona. Amare significa rinunciare a parte della propria libertà e indipendenza, significa legarsi ed essere vincolati.

 

André Gide in “Thésée”, opera pubblicata nel 1946, esagera questa paura trasformandola in spregiudicatezza. Abituato a godere di tutti i piaceri che la vita ha in serbo, il giovane Teseo non vuole legarsi definitivamente a nessuna donna. Lo stesso Dedalo nel settimo capitolo dell’opera dice:

 

“Dopo il terribile combattimento dal quale uscirai vittorioso, non attardarti nel labirinto né tra le braccia di Arianna. Vai oltre. Considera la pigrizia come un tradimento. Una volta compiutosi il tuo destino sappi trovare il riposo solo nella morte. È così che, oltre la morte apparente, vivrai risorgendo all’infinito nella riconoscenza degli uomini. Và oltre, và sempre avanti prosegui nella tua strada, valente creatore di città”.

 

Teseo troverà una stabilità solo con Fedra affermando che tutte le avventure e gli adulteri successivi al loro matrimonio furono solo voci che lasciò correre senza smentire perché accrescevano la sua fama. Da spregiudicato quale è abbandona la “bella ma appiccicosa Arianna” sull’isola di Nasso dove qualche tempo dopo sposò Dioniso (ovvero, come sostiene il futuro re di Atene, si diede al  vino).

Arianna nell’opera di Gide è dipinta come la classica donna che ama in modo egoistico; nel sesto capitolo dell’opera gidiana afferma, rivolgendosi all’amato:

 

“Ciò di cui devi persuaderti è che la tua unica possibilità di riuscita sta nel fatto che non dovrai mai lasciarmi. Fra te e me, ormai, vi è, deve esserci un solo legame: per la vita e per la morte. È solo grazie a me che tu potrai ritrovarti. Prendere o lasciare. Se tu mi abbandoni, guai a te.”

 

La principessa cretese ha già pianificato tutta la loro vita insieme e questo spaventa l’eroe che anche nel nono capitolo, dopo il dialogo con Icaro che, come rivela Dedalo, non è il vero figlio poiché questo, spregiudicato come Teseo, non ha ascoltato i consigli del padre e ha volato troppo in alto per uscire dal labirinto andando troppo vicino al sole che gli ha bruciato le ali appositamente costruite per questa fuga facendolo cadere in mare dove morì annegato. Icaro è l’incarnazione dell’inquietudine e di quegli slanci e tensione verso l’irraggiungibile infinito tipica dei romantici; è la personificazione dell’ Inquietudine che parla.

 

Un altro emblematico passo in cui si sottolinea la paura di amare di Teseo si evidenzia nel momento in cui si accinge ad entrare nel labirinto per sconfiggere il Minotauro. Arianna insiste per tenere i gomitoli datigli da Dedalo ma il figlio di Egeo per paura che questa compia qualcosa per imprigionarlo e legarlo irreversibilmente a sé glielo impedisce. Si lascia, controvoglia, legare un capo del filo attorno al polso, entra nel labirinto, lascia i compagni nella prima sala dove vengono investiti dai profumi inebrianti del luogo che producono una paralisi della ragione e della volontà.

 

È questo il vero pericolo del labirinto, una prigione idilliaca costruita in modo tale che il Minotauro non volesse uscire benché potesse farlo; è quel paradiso dei sensi che imprigiona causando gli stessi effetti dell’amore annebbiando la vista di fronte alla realtà.

 

Solo la fermezza e la ferrea volontà di Teseo gli consentono di sconfiggere il Minotauro, la cui bellezza e armonia delle parti taurine e umane inizialmente blocca il mitologico fondatore di Atene, e di recuperare i compagni inebriati dai profumi del labirinto uscendo da quel luogo.

 

Compiuta la missione, con l’aiuto di Piritoo si finge pederasta e travestendo Fedra da Glauco, rapisce la giovane, abbandona Arianna sull’isola di Nasso e giunge ad Atene dove decide di fermarsi, assumere le sue responsabilità, unire i villaggi in lotta e fondare la città più democratica di tutta l’Attica garantendo pari diritti a chiunque, cittadino e forestiero.

 

Si allontana da Piritoo capendo che anche l’amicizia a lungo andare diventa, come l’amore, una trappola che ostacola “l’andare avanti”. L’amico gli consigliava di fermarsi e dedicarsi a Fedra e ad Atene mentre Teseo voleva continuare a fare conquiste e mettersi alla prova.

 

Il dodicesimo capitolo di “Thésée” è occupato dal dialogo con il vecchio Edipo, giunto in esilio a Colono. Nonostante Teseo lo reputi l’unico le cui imprese fossero al pari delle sue, non condivide il fatto che l’anziano e sventurato re di Tebe abbia preferito accecarsi per vergogna del suo incesto sostenendo di essersi reso eroe in quanto ha sfidato gli dei: solo chi sfida i limiti del sovrannaturale rinunciando anche a piaceri terreni è degno di eroicità.

 

Il figlio di Teseo non è d’accordo: conclude affermando che eroe è colui che alla fine dei suoi giorni può dire “io ho vissuto”, che non si è negato i piaceri terreni che la vita riserva, che ha sfidato i suoi limiti, riconoscendoli, mettendosi alla prova e non ha nulla da rimpiangere. Questo è l‘eroe. E lo si può essere essendo anche spregiudicati.

 

Radicalmente diverso l’approccio all’amore che Racine conferisce ai suoi personaggi.

Quando Aricia rivela all’ancella Ismene il suo innamoramento per Ippolito aprendo il secondo atto, teme di non essere corrisposta. Ma Ismene la tranquillizza rivelandole che sin dal loro primo sguardo si era già capito che entrambi erano innamorati l’uno dell’altra.

 

Lo sguardo è allora uno dei principali elementi del tema amoroso su cui è possibile fare un confronto tra Racine e Corneille, suo contemporaneo.

 

Per il drammaturgo seicentesco nativo di Rouen, l’eroe cerca lo sguardo dello spettatore e degli altri personaggi perché è simbolo di gloria. Vuole essere guardato e ciò conferisce allo sguardo pienezza e limpidezza; è lo sguardo tra due innamorati che si cercano e che deve ripetersi perché il legame d’amore non si spezzi

 

Per quanto concerne Racine l’analisi di questo tema è più complessa: lo sguardo è qui uno “sguardo tortura”. I protagonisti della tragedia cercano lo sguardo dell’altro ma allo stesso tempo se ne vergognano e cercano di fuggirvi. L’essere guardato è essere oggetto di desiderio e questo significa vergogna e paura, possesso da parte dell’altro che nel momento in cui vede le lacrime sgorgare dalla controparte capisce di essere in possesso di quest’ultima eppure allo stesso tempo si vergogna di sé e dell’immoralità del proprio atto

 

Nel 1872 Émile Zolà pubblica “La Curée”, secondo romanzo del ciclo “Rougon-Macquart”. Qui la coprotagonista femminile Renée vuole essere guardata e cerca di attirare l’attenzione e gli sguardi avidi degli uomini e invidiosi delle donne su di sé agghindandosi come una “fata eccentrica”, circondandosi di lusso sperperando tutto lo spendibile e sfociando in un eccessivo e cattivo gusto rococò enfatizzato dalle dettagliatissime e minuziose descrizioni di appartamenti, abiti, paesaggi, oggetti a cui si dedica l’autore. In questo modo la donna crede di riuscire a distrarsi e a colmare il vuoto interiore causatole in parte dallo stupro subito durante l’adolescenza e di cui si vergogna tremendamente a causa della fervente religiosità a cui il collegio in cui fu educata l’aveva indotta. D’altro canto però tutti i tabù che le avevano inculcato, quei “ non si fa, non si deve”, uniti al trauma subito le suscitarono una voglia di trasgressione e ricerca di attenzioni che riuscì a sfogare con Maxìme attraverso la passione incestuosa consumatasi nella serra della villa in cui la nobildonna viveva con il marito Aristide Saccard, padre del giovane.

 

Diversa la questione per Fedra: cosa induce la regina a provare questo amore incestuoso?

 

La figlia di Minosse è vittima di questa passione incestuosa nei confronti del figlio del marito in quanto Ippolito rappresenta ciò che ella fu ai tempi cretesi e che non può più essere. Quel candore, quella purezza, quell’ingenuità, quella libertà che connotano il giovane vergine le appartenevano prima che Teseo la rapisse e la imprigionasse nel suo palazzo ad Atene, luogo di corruzione se ci riconduciamo a Seneca che, data l’epoca di distruzione e declino irreversibile dei costumi in cui verteva Roma soprattutto sotto Nerone, contrappone Ippolito e i suoi luoghi bucolici all’amato e desiderato ritorno alla vita agreste e al Mos maiorum come era volontà di Augusto.

 

Severo e inflessibile il giudizio morale espresso da Seneca il quale in “Phaedra” induce la protagonista al suicidio mediante la spada lasciata in scena da Ippolito che per paura, vergogna e disgusto era scappato via dopo la dichiarazione d’amore della matrigna. Ma questo suicidio da un lato è dovuto ad un senso di colpa logorante tanto quanto la passione incestuosa, dall’altro ad una lucida presa di coscienza dell’immoralità di tale azione; la stessa regina sa che l’unico modo per ripristinare l’equilibrio e spegnere questa “fiamma nera” che l’ha divorata e indotta a compiere tutto ciò è il suicidio. Fedra non è l’unica vittima del drastico giudizio senecano; anche Teseo, mosso da impietas ed ira invoca Poseidone per punire il figlio che Fedra, umiliata dal rifiuto e dalla reazione di Ippolito davanti alla sua dichiarazione d’amore, decide di calunniare davanti al marito appena tornato dalla sua missione negli Inferi, accusandolo falsamente di aver abusato di lei.

 

Teseo non usa la ragione e questo è un fatto gravissimo per il Seneca stoico. L’ira domina su di lui accecandolo e mostra come egli sia un uomo capace solo di atti violenti, senza autocontrollo, ed impulsivo. Per questo commette una carneficina facendo uccidere ingiustamente il figlio innocente e causando quindi la morte della moglie.

 

Euripide non esprime un giudizio morale su Fedra. Nell’ “Ippolito Coronato” la donna si suicida impiccandosi in quanto questa era la morte a cui erano condannati gli adulteri.

Il simbolismo di cui la tragedia euripidea è impregnata mostra come il corpo inerte della regina e le tavolette legate ai polsi sulle quali ha inciso la calunnia verso Ippolito, certa che Teseo avrebbe condannato a morte il figlio permettendole di unirsi al giovane almeno nell’Ade, allude all’oscillazione tra vita e morte, amore e dolore.

 

Ma la presenza o assenza di giudizio è da inserire in una contestualizzazione storica dell’epoca in cui gli autori vivono. Seneca vive in un’epoca corrotta in cui c’è bisogno di ripristinare la moralità; Euripide è più poetico, Zolà critica con ironia la corruzione e la depravazione dell’800 francese enfatizzando lo sperpero e dissolutezza del tempo. È proprio la mancanza di giudizio sull’incesto tra Renèe e Maxìme che la stessa donna non vede come una colpa paragonabile a quella di Fedra: Scandali come questo erano usuali ai suoi tempi e non meritavano certo l’espiazione della colpa con la morte.

 

Le tragedie di Euripide e Seneca differiscono anche sotto un altro aspetto ovvero la rispettivamente presenza e assenza di divinità in scena. Euripide pone Afrodite come narratrice nel prologo e come divinità causante la passione incestuosa in Fedra in quanto gelosa delle attenzioni che il casto Ippolito rivolge alla sola dea Artemide. Quest’ultima è tuttavia colei che nell’epilogo riporta l’equilibrio in scena rivelando a Teseo - quando il figlio ormai morente per le ferite riportate nella lotta contro il mostro marino evocato da Poseidone - la sua innocenza e facendo in modo che questo lo riconosca come giusto riabilitandolo come figlio e degno successore.

 

In Seneca gli dei sono invece solo citati nelle due invocazioni di Fedra e di Teseo rispettivamente a Venere e Nettuno.

 

Nella prefazione alla prima edizione di “Phédre et Hyppolite” pubblicata nel 1677, Racine critica Seneca perché troppo severo nel giudicare così empia la colpa di Fedra:“elle n’est pas tout coupable”. Anche Teseo ha le sue colpe; se ne rese conto lo stesso Ovidio quando nella raccolta epistolare “Heroides” composta tra il 25 a.C. e il 16 a.C. non condanna Fedra che qui si dichiara ingenuamente e candidamente a Ippolito sostenendo di essere nuova all’adulterio e di non sentirsi minimamente in colpa. Teseo è stato fedifrago, ha abbandonato la sorella e ucciso il fratello e inoltre l’autore non avrebbe mai potuto condannare moralmente una donna che non stava facendo né più né meno di quello che nella sua epoca era comunissimo tra le cortigiane esperte dell’ars amatoria.

 

Per questo motivo Racine scrive di voler rendere sgradito al pubblico Teseo.

 

Anche Marguerite Yourcenar, scrittrice francese del XX secolo e autrice di “Feux” sosterrà, da un punto di vista femminista, che ognuno è vittima e carnefice di sé stesso: Fedra non ha che da accusare sé stessa per aver fabbricato tutto ciò che ama di Ippolito e la stessa odiata Aricia.

 

“È per causa di lui che lei è morta; è per causa di lei che lui non ha vissuto. Lui non le deve che la morte; lei gli deve i soprassalti di un’inestinguibile agonia”.

 

Una sofferenza che l’annienta a tal punto che alla fine lo ringrazierà, una volta rincontrato nel labirintico Ade paragonato anacronisticamente alla metropolitana francese gli dirà “sans doute merci”.

 

Lo stesso Labirinto centrale nel mito di Fedra e della sua stirpe minoica che in Racine avvolge mente e cuore di Fedra è trasportato all’esterno. Nella dichiarazione d’amore rivolta ad Ippolito, fa collimare la figura di Teseo a quella del figlio sino a domandare:

 

Pourquoi, trop jeune encor, ne pùtes-vous alors entrer dans le vaisseau qui le mit sur nos bords? Par vous aurait perì le monstre de la Crète, malgré tous les détours de sa vaste retraite.(…).

 Moi-même devant vous j’aurais voulu marcher, et Phèdre au Labyrinthe avec vous descendue se serait avc vous retrouvée ou perdue”.

 

Ne “La Curèe”di Zolà si può ravvisare una forte analogia tra Renée e Fedra: entrambe le donne hanno un comportamento bipolare.

 

Anche qui viene spontaneo riflettere su quale sia la ragione che induce Renée a trasgredire e ad assecondare la sua passione incestuosa per Maxìme.  

 

È il tentativo di colmare il vuoto lasciatole dallo stupro subito e dalla conseguente vergogna che la fa sentire sporca che la inducono a ricercare l’attenzione altrui credendo che l’essere considerata un oggetto in bella mostra, l’approfittare della sua bellezza, l’agghindarsi e circondarsi di lusso, il far parlare di sé - non importa come basta che se ne parli - un percorso sartoriale che va sempre dal vestito al nudo, il suo sentirsi superiore e il trarre coraggio e sicurezza semplicemente rimirandosi e pavoneggiandosi allo specchio conscia di quella bellezza che sa essere bramata dagli uomini e invidiata dalle donne, le conferiscono un’apparente ed effimera pienezza.

 

Ma questi sguardi sono solo superficiali, non si chiedono cosa provi realmente Renèe; nemmeno a alla giovane sembra importare o forse neppure lei ha accesso alla sua interiorità sentimentale.

 

Il romanzo sperimentale di Zolà mostra in modo più che evidente come peculiarità dell’aristocrazia francese di fine ‘800 fosse la superficialità.

 

Renèe già nel primo capitolo dell’opera, mentre è in carrozza con Maxìme lungo il Bois de Boulogne in una sera dell’ ottobre del 1842 diretta ad un ballo, dice di essere annoiata ma non sa da cosa. Desidera qualcos’altro e lo cerca in una relazione incestuosa e puramente sessuale con Maxìme il quale la vede solo come un divertimento mentre la matrigna pian piano finisce per innamorarsene.

 

Racine con la sua tragedia diventò un modello per gli autori successivi, tanto che anche il realista Zolà improntò “La Curée” sul modello della “Phédre” del suo predecessore tragediografo del XVII secolo. È possibile notare una corrispondenza simmetrica tra le due opere dal punto di vista contenutistico e formale. Il primo Atto della tragedia di Racine corrisponde al primo capitolo espositivo de “La Curèe” di Zolà mentre il secondo Atto di “Phédre” corrisponde al quarto capitolo dell’opera ottocentesca in quanto l’ argomento centrale è rappresentato dall’incesto.

 

L’Atto e il capitolo successivo delle due opere è basato sulla sospensione rappresentata dal ritorno di Teseo e dalle scoperte di Maxìme circa i traffici e i raggiri pecuniari del padre, l’annuncio delle sue nozze con Louise e la presa di coscienza del fatto che Renée avesse un amante.

 

Il quarto Atto di “Phédre” è incentrato sulla conclusione tragica in cui si scopre il suicidio di Enone, Ippolito viene ucciso e Fedra rivela la sua colpa; il sesto capitolo de “La Curée” vede Saccard cogliere moglie e figlio in atti inequivocabili ma lascia che il desiderio di denaro finalmente soddisfatto da quella cambiale firmata da Renée con cui gli conferiva la sua dote abbia la meglio sul suo onore infangato da tale scandalo. Il secondo e terzo capitolo del romanzo i Zolà sono incentrati sulle vite di Saccard e Renèe prima del loro matrimonio.

 

La scena finale della tragedia e il settimo capitolo del romanzo vedono invece la tragica morte, non descritta ma a cui solo si allude, delle due protagoniste femminili.

 

Come nella favola de “La Bella e la Bestia”, in cui la Bella fugge di casa per emanciparsi dalla famiglia e crescere, maturare, diventar donna e responsabilizzarsi incontrando una Bestia che con la forza dell’amore riuscirà a trasformare in un principe, ne “La Curée” tutto è stravolto: Renée si allontana dalla casa paterna dove sarebbe cresciuta con sani principi etici e valori morali per addentrarsi in un mondo insidioso e corrotto che promette solo immoralità e degrado dei costumi e a cui solo il vecchio padre di lei sembra essere stoicamente immune. Anziché apportare un miglioramento nella Bestia è la Bella che cambia in peggio, regredendo. Solo alla fine del romanzo la giovane capisce cosa è diventata e cosa ha sempre rappresentato per gli altri: un oggetto. Piange Renée nella sua vecchia cameretta all’Hôtel Béraud dove vive il padre. È in questa stanza tutta impolverata, piena di ragnatele, finestre da cui entra una luce fredda affacciate su un giardino non curato e popolato da alberi scheletrici; che guardandosi allo specchio non vede più la Belle Dame Saccard ma solo una donna invecchiata troppo presto, socialmente ed economicamente morta, con il cuore infranto non per amore ma dall’aver venduto se stessa e la propria dignità ad un mondo che coglieva solo l’apparenza e a cui lei stessa si era conformata.

 

Quella stessa “apparenza” a cui l’aristocrazia francese di fine ‘800 è legata è un ostacolo che la scrittrice Marguerite Yourcenar vuole eliminare almeno per quel che concerne la conoscenza e l’amore riproponendo questa sfida in tutte le sue opere.

“Feux” opera pubblicata nel 1936 e nata da una crisi passionale in cui tema dominante è proprio il sentimento totale d’amore che da un lato aliena ma che allo stesso tempo, quando non corrisposto, fa assumere coscienza di noi stessi, del fatto che esistiamo proprio perché soffriamo.

 

Non racconta la propria esperienza amorosa in prima persona perché l’obiettivo dell’autrice, influenzata dalla filosofia greca di Parmenide, è quella di cogliere l’amore nella sua universalità ed essenzialità perché come insegna il filosofo di Elea, ciò che noi conosciamo non è altro che la realtà fenomenica ovvero apparenza, “doxa”.

 

Siamo pigri e ci accontentiamo della conoscenza apparente di ciò che è inconoscibile perché diviene sempre, che una volta è e una volta non è; dobbiamo conoscere ciò che resta sempre identico a se stesso, l’essenza delle cose che è universale e ciò che realmente esiste. L’ontologia e la gnoseologia parmenidea vengono trasportate a livello sentimentale dalla Yourcenar che riprendendo anche Nietzsche e la teoria dell’ “eterno ritorno dell’uguale” afferma che tutto è identico a se stesso in quanto tutto ritorna sempre e per l’amore vale la stessa cosa. Ecco perché la sua vicenda traspare dai sessantaquattro criptici aforismi alternati alle nove prose liriche dell’opera ma non è protagonista; all’autrice non interessa il particolare ma l’universale. Ecco perché usa il mito e l’aforisma.

 

In questi miti però lo spazio e il tempo vengono sapientemente annullati, trascesi grazie all’anacronismo ripreso da Cocteau. Per esempio in “Antigone o della scelta” si parla delle mura di Tebe come se fossero trincee e dei campi di battaglia come se fossero campi di concentramento.

 

In “Achille o della menzogna” il tema è quello della maschera, del travestimento, della crisi di identità sessuale così come in “Saffo o del suicidio”.

 

 

Riferimenti bibliografici:

 

“Phèdre”, Jean Racine, Pocket Classiques
“La Curée”, Émile Zolà,, Pocket Classiques
“Fuochi”, Marguerite Yourcenar, Bompiani
“Teseo”, Andrè Gide, Crescenzi Allendorf Editori



 

 

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