N. 36 - Dicembre 2010
(LXVII)
Federico García Lorca
cante jondo e ribellione
di Monica Sanfilippo
Federico
García
Lorca,
tra
i
nomi
più
risonanti
della
poesia
europea
del
Novecento,
scontò
con
la
vita
il
prezzo
della
sua
“diversità”,
come
artista
e
come
uomo.
Dichiaratamente
repubblicano
durante
la
Guerra
civile
spagnola
e
omosessuale,
una
grave
colpa
per
la
Spagna
conformista
dell’epoca,
viene
prima
catturato
dalle
guardie
civili
del
comandante
Valdés
il
16
agosto
1936,
poi
fucilato
all’alba
tre
giorni
dopo
nei
pressi
di
Viznar,
vicino
Granada.
Una
voce
di
sdegno
si
leva
unanime
da
ogni
parte
del
mondo,
come
quella
dell’amico
Pablo
Neruda,
che
nulla
può,
ora,
contro
l’ottusità
della
dittatura.
Il
suo
corpo,
seppellito
in
una
fossa
comune,
non
è
ancora
stato
riesumato.
Federico
era
nato
a
Fuente
Vaqueros,
in
provincia
di
Granada
(5
giugno
1898),
dove
più
tardi
si
trasferirà
con
tutta
la
famiglia
e
condurrà
gli
studi
secondari.
Qui
incontra
il
maestro
di
pianoforte
Antonio
Segura
che
accende
nel
giovane
allievo
la
passione
per
la
musica,
rafforzata
successivamente
dall’amicizia
con
il
compositore
Maluel
de
Falla.
Con
de
Falla
inizia
un
percorso
comune
di
attenzione
per
l’elemento
tradizionale
spagnolo-andaluso,
partecipando
prima
alla
conferenza
sul
Cante
jondo,
poi
alla
Festa
del
Cante
jondo
tenute
a
Granada
nel
1922
sulla
scia
di
una
rivalutazione
delle
origini
gitane.
Lorca
stesso
scrive
la
musica
per
i
suoi
Cantares
populares
ispirandosi
alle
melodie
“più
profonde”
della
tradizione
andalusa.
Distingueva,
infatti,
il
cante
jondo,
più
antico
e
più
autentico,
dal
cante
flamenco,
degenerazione
del
primo
affermatosi
soltanto
nel
XVIII
secolo.
La
vena
primitiva
del
canto
andaluso
si
risolve,
per
Lorca,
nella
“pena”,
che
il
poeta-musicista
identifica
con
lo
stato
d’animo
della
malinconia,
sottile
sofferenza
legata
alla
figura
femminile:
«La
donna,
cuore
del
mondo,
e
padrona
immortale
della
“rosa,
la
lira
e la
scienza
armoniosa”
riempie
gli
spazi
senza
fine
delle
poesie.
La
donna
del
cante
jondo
si
chiama
Pena»
(F.
G.
Lorca,
El
cante
jondo
(primitivo
canto
andaluz),
Conferenza
di
Granada,
1922).
Nonostante
la
sua
poesia
in
questa
fase
di
attenzione
per
la
cultura
granadina
è
intrisa
profondamente
dell’elemento
spagnolo-andaluso
–
basti
citare
Canciones,
Poema
del
cante
jondo,
Romancero
gitano
–
non
per
questo
Lorca
accettava
di
buon
grado
che
la
sua
voce
fosse
confusa
col
folklore
tout
court;
l’etichetta
“poeta
dei
gitani”
lo
infastidiva,
e
questo
non
certo
per
disprezzo
verso
la
cultura
gitana
cui
era
naturalmente
legato,
piuttosto
perchè
fortemente
convinto
dell’autenticità
della
poesia
quale
espressione
dell’animo,
libera
da
ogni
costrizione
di
categoria
e
valida
per
ogni
tempo
ed
ogni
cultura.
«La
poesia
–
dice
– è
il
mistero
che
contiene
tutte
le
cose
[…]
e
per
questo
non
concepisco
la
poesia
come
astrazione,
ma
come
cosa
realmente
esistente
che
mi
passa
accanto»
(F.
G.
Lorca,
in
C.
Rendina
(a
cura
di),
García
Lorca.
Tutte
le
poesie
e
tutto
il
teatro).
Non
a
caso,
quando
nel
’29
è a
New
York,
dalla
cui
esperienza
nascerà
Poeta
en
Nueva
York,
García
Lorca
ascolta,
sopra
ogni
altra
cosa,
la
voce
degli
emarginati,
los
negros,
oppressi
dalle
ingiustizie
della
metropoli
e
del
capitalismo
che
si
sgretola
sotto
il
crollo
dei
mercati.
«Io
protestavo
tutti
i
giorni
–
annuncia
il
poeta
nella
conferenza
di
presentazione
dell’opera
a
Madrid
(1932).
Protestavo
vedendo
i
ragazzini
negri
[…]
pulire
le
sputacchiere
di
uomini
gelidi
che
parlavano
come
anatre.
Protestavo
di
tutta
questa
carne
rubata
al
paradiso
[…]
e
protestavo
della
cosa
più
triste,
del
fatto
che
i
negri
non
vogliono
essere
negri».
Il
poeta
en
Nueva
York
è un
“ribelle”,
parla
a
nome
di
tutti
gli
sfruttati,
dei
“diversi”,
dei
senza
diritto
e
può
farlo
perché,
come
grandino,
conosce
bene
il
sentimento
dell’estraneità:
«Credo
–
sostiene
–
che
il
fatto
che
io
sia
di
Granada
mi
permetta
di
comprendere
i
perseguitati,
essere
dalla
parte
del
gitano,
del
nero,
dell’ebreo»
(F.
G.
Lorca,
in
C.
Rendina
(a
cura
di),
Garcìa
Lorca.
Tutte
le
poesie
e
tutto
il
teatro).
In
un
arco
temporale
di
soli
vent’anni,
dal
1917
alla
sua
morte,
Lorca
ha
lasciato
all’umanità
un
patrimonio
poetico
e
teatrale
assolutamente
straordinario,
generalmente
articolato
in
tre
fasi:
un
primo
periodo,
quello
giovanile,
di
cui
fa
parte
il
Libro
de
poemas,
ispirato
all’infanzia
e
alla
natura,
la
campagna
di
Granada;
un
“secondo”
Lorca,
dal
’21
al
’27,
dell’elemento
folklorico
gitano-andaluso;
un
“terzo”,
compreso
tra
l’esperienza
newyorkese
e
Sonetos
de
l’amor
obsuro
che,
di
tema
omosessuale,
saranno
pubblicato
postumi
e
solo
dopo
il
1983.
La
sua
voce
lirica
è un
“fuoco”
che
scava
nelle
viscere
delle
cose,
scarnificandole,
per
poi
innalzarle
al
cielo,
immortalando
la
parola,
ora
colore,
ora
timbro,
in
una
cornice
stilistica
accurata
che
oscilla
tra
tradizione
e
avanguardia.
Non
si
può
non
lasciarsi
trascinare
dal
ritmo
inconfondibile
della
sua
passione
per
la
vita
e
per
l’arte;
egli
stesso
affermava:
«Ho
il
fuoco
nelle
mani
[…]
lo
sento
e
lavoro
con
lui
perfettamente,
ma
non
posso
parlare
di
lui
senza
letteratura».
Riferimenti
bibliografici
&
discografici:
Claudio
Rendina
(a
cura
di)
Garcìa
Lorca.
Tutte
le
poesie
e
tutto
il
teatroNewton
Compton,
I
Mammut
2009
Federico
García
Lorca,
El
cante
jondo
(primitivo
canto
andaluz),
Conferenza
di
Granada
1922
Federico
García
Lorca,
Un
poeta
en
Nueva
York,
Conferenza
di
Madrid
1932
El
corregidor
y la
molinera.
Antiche
canzoni
spagnole, Manuel
De
Falla,
Federico
Garcia
Lorca,
Musique
d’Abord, CD
2005
