N. 147 - Marzo 2020
(CLXXVIII)
I
codici
della
nostra
speranza
Le
religioni
al
tempo
del
virus
di
Ada
Prisco
Stiamo
camminando
lentamente
sull’orlo
della
nostra
fragilità
e
non
distinguiamo
che
cosa
c’è
oltre.
Non
conviene
neanche
guardare
più
di
tanto,
perché
le
vertigini
potrebbero
mettere
pericolosamente
alla
prova
il
nostro
equilibrio.
Pensavamo
che
l’esperienza
della
guerra
fosse
racchiusa
nei
filmati
delle
cineteche,
nelle
memorie
dei
sopravvissuti.
Invece
eccoci
qui,
siamo
in
guerra,
alcuni
negli
avamposti,
altri
nelle
retrovie,
ma
nessuno
sa,
di
qui
a
poco,
chi
e
che
cosa
resterà
uguale
a
prima.
Mentre
nei
laboratori
si
lavora
senza
sosta,
cercando
l’arma
più
combattiva
del
nemico,
a
noi,
gente
comune,
cosa
resta?
Una
vita
in
stand-by?
L’osservanza
dell’imperativo
don’t
touch,
in
un
mondo
tutto
orgogliosamente
touch?
L’attesa,
il
virtuale,
la
consolazione
a
misura
di
immagine
o
video
condivisa
via
chat,
dal
taglio
più
o
meno
esilarante
con
stile?
La
pubblicità
progresso
ci
trasmette
la
pedagogia
dei
nuovi
gesti,
ricorda
di
prendere
le
dovute
distanze
anche
da
se
stessi,
in
particolare
evitare
orecchie,
naso,
bocca
e
occhi.
Nei
discorsi
confidenziali
ci
si
chiede:
basterà?
Non
siamo
pratici
della
materia,
ma
intuiamo
che
non
ci
sono
risposte
inoppugnabili.
Il
nemico
è
invisibile,
quindi
può
essere
ovunque
e da
nessuna
parte.
Le
indicazioni
degli
esperti
sono
da
tenere
in
conto
e da
rispettare
non
soltanto
per
sé,
ma
per
senso
di
responsabilità.
Improvvisamente
non
ci
stringiamo
più,
ma
scopriamo
di
far
parte
di
una
collettività,
anch’essa
invisibile
nella
sua
unità.
A
volte
appare
come
minaccia
che
può
contagiare,
altre
come
famiglia
ilare,
in
cui
il
pericolo
è
velocemente
esorcizzato
grazie
a
una
risata
e
alla
condivisione
di
un
ambiente
finora
sconosciuto,
la
quarantena
(anche
se
“quarantena”
non
è)!
Perché
è
ovvio,
se
tu
ti
ammali,
io
finisco
in
isolamento
fiduciario,
volontario,
diciamo
pure
obbligatorio,
e
viceversa!
E
così…
saremo
insieme,
uniti
dallo
stesso
virus.
E
nella
politica
internazionale,
come
in
quella
minuta,
il
principio
diplomatico
conserva
tutta
la
sua
validità:
il
nemico
del
mio
nemico
è
mio
amico.
E
siamo
tutti
amici,
ma
ognuno
chiuso
in
casa
propria.
E
allora
cosa
resta?
Mentre
gli
analisti
da
laboratorio
possono
validamente
applicarsi
a
nuove,
salutari,
chimiche
vie
della
scienza
medica,
a
noi,
gente
comune,
forse
restano
da
esplorare
i
geni
di
altri
codici,
quelli
della
nostra
speranza.
La
si
potrebbe
attingere
da
tanti
pozzi.
Quando
si
partecipa
a un
concorso
o a
una
gara
si
spera,
ma
anche
quando
si
fa
un
incontro
importante,
persino
quando
si
gioca
una
schedina.
Nelle
occasioni
spicciole
si
confonde
facilmente
con
il
caso
e
con
la
fortuna.
Nel
frangente
attuale
ciò
non
potrebbe
essere
di
grande
aiuto,
tutt’al
più
si
potrebbe
concretizzare
in
un
augurio
generico
fatto
di
fatalismo.
Ci
sono
dei
codici
antichi,
specializzati
nell’affrontare
il
male,
dedicati
ad
aprire
palestre
sui
tetti
del
mondo
e
sugli
orli
del
baratro,
e
sono
le
religioni.
Il
XXI
secolo
sta
destinando
davvero
uno
spazio
inedito
al
sacro,
ne
parla,
lo
analizza,
lo
mette
in
questione
e in
relazione.
Gli
aspetti
formali
della
religiosità
sono
abbastanza
popolari.
Persino
in
questi
giorni,
non
sono
mancati
comunicati,
videomessaggi,
vignette
un
po’
da
tutte
le
parti
e a
tutte
le
latitudini,
veicoli
di
altrettante
indicazioni
e
rassicurazioni.
Nelle
chiese
evangeliche
che
non
hanno
sospeso
i
culti
si
ribadisce
la
distanza
di
sicurezza
e di
contattare
il
pastore
per
telefono
in
caso
di
bisogno,
agli
ebrei
si
ricorda
di
ricorrere
ai
social
per
non
far
sentire
solo
chi
non
può
uscire,
molti
musulmani
hanno
procrastinato
il
pellegrinaggio
alla
Mecca,
quanto
ai
cattolici,
dove
le
chiese
sono
chiuse
e le
messe
sospese,
non
ne
facciano
un
dramma,
e,
se
invece
i
riti
resistono,
dimentichino
il
segno
di
pace
e la
comunione
sotto
le
due
specie.
E in
tutti
gli
anni
in
cui
abbiamo
praticato,
ricevuto,
trasmesso,
che
cosa
abbiamo
costruito
che
ora
ci
può
tornare
utile,
se
non
proprio
la
speranza
come
capacità
di
reazione
e
relazione
prospettica?
T
alvolta
ho
avuto
la
sensazione
che
questo
aspetto
sia
stato
messo
molto
da
parte
nei
nostri
metodi
educativi,
l’aspetto
che
induce
a
coltivare
la
fede
per
ricamare
una
bussola
interiore,
per
affinare
gli
strumenti
della
speranza,
quella
modalità
che
entra
in
gioco
specie
quando
il
gioco
si
fa
duro.
Quando
solo
qualche
giorno
fa
una
delle
mie
più
brillanti
professoresse
mi
ha
risposto:
“Non
avevo
mai
pensato
alla
religione
in
questi
termini”,
mi
sono
detta
che
forse
era
il
caso
di
farlo.
La
seduzione
del
male
– Il
virus
incoronato
idolo?
Il
male
è
tale
perché
assoggetta
a sé
le
proprie
vittime.
Talora
ha
un
aspetto
allettante,
talaltra
s’impone
con
prepotenza,
ma
il
risultato
è lo
stesso:
diventa
signore
e
padrone.
E
separa
la
vittima
da
se
stessa
e
dal
suo
nucleo
generatore.
In
questo
modo
il
male
riesce
a
potenziarsi,
man
mano
che
gli
viene
lasciato
spazio.
Le
grandi
tradizioni
religiose
attaccano
come
nemico
radicale
gli
idoli
e
l’idolatria.
Nella
Bibbia
giudaico-cristiana
si
legge:
Io
sono
il
Signore
Dio
tuo…
Non
avere
altro
Dio
oltre
a me
(Es
20,2-3);
…
il
Signore
è
uno
solo!
Dt
6,4);
nel
Corano
è
scritto:
Egli,
Dio
è
uno
…
non
c’è
nessuno
pari
a
lui
(Cor
112,
1.4),
che
coincide
anche
con
la
prima
parte
del
primo
pilastro
della
fede
islamica.
Non
si
tratta
di
un
principio
teologico
astruso,
al
contrario
manifesta
effetti
molto
pratici
nella
vita
ordinaria.
Iniziare
e
terminare
la
giornata
consultando
il
bollettino
(da
guerra),
comprensivo
dei
posti
letto
occupati
presso
i
reparti
di
rianimazione,
parlare
continuamente,
sentir
continuamente
parlare,
anche
in
radio,
televisione,
sui
social,
del
coronavirus,
significa
di
fatto
consegnargli
le
nostre
vite,
contagiati
o
non.
E
quando
il
nostro
tempo
è
totalmente
dedicato
a
qualcuno
o a
qualcosa,
questo
diventa
il
nostro
idolo,
che
ce
ne
accorgiamo
oppure
no.
I
nostri
sentimenti
di
maggiore
o
minore
devozione
consapevole
sono
secondari.
In
un
certo
senso,
l’azione,
il
fatto,
parla
di
più.
Malgrado
quello
che
comunemente
si
crede
delle
religioni,
più
spesso
viste
come
codici
impositivi,
autorità
normative
atte
a
restringere
la
libertà
personale,
queste
contengono
l’antidoto
più
potente
contro
la
schiavitù.
Non
accettare
la
dipendenza
da
uno
o
più
idoli
significa
esercitare
la
signoria
propria
della
libertà.
Ciò
non
vuol
dire
sottovalutare
o
mistificare
il
male,
significa
non
attribuirgli
un
posto
che
non
è il
suo.
Un
male
può
anche
ucciderci,
consegnarsi
a
lui,
però,
è
qualcosa
di
diverso:
è
una
scelta.
…
decidete
oggi
chi
volete
servire
(Gs
24,15),
tuonava
Giosuè
a
Sichem.
Le
religioni
sono
una
via
di
riscatto
e un
continuo
esodo
dalla
terra
della
schiavitù
verso
la
terra
della
libertà.
Il
buddhismo
con
il
suo
nobile
ottuplice
sentiero
si
propone
come
via
di
liberazione
dal
dolore.
La
cultura
mondiale
di
ogni
tempo
ha
prodotto
grandi
capolavori,
che
certamente
offrono
spunti
alla
resistenza
e
alla
creatività.
Va
bene
leggere
e
rileggere
Giovanni
Boccaccio,
Alessandro
Manzoni,
Albert
Camus,
José
Saramago
e
tanti
altri.
Ma
perché
non
ritornare,
osservando
il
presente,
alla
Bibbia,
specie
al
libro
dell’Esodo,
ai
Canestri
della
tradizione
buddista,
ai
Veda,
al
Corano?
Riconoscere
la
signoria
di
Dio
significa
non
finire
schiavi
di
alcun
potere.
Significa
spendere
l’esistenza
alla
luce
di
un
ordine
dotato
di
senso.
Oltre
ad
aver
riconosciuto
una
corona,
sarebbe
bene
non
aggiungere
scettro
e
trono
a
questo
virus,
non
consacrare
a
lui
il
nostro
tempo,
tutte
le
nostre
idee
e
nemmeno
tutte
le
nostre
paure.
In
fondo,
è un
nemico,
sì,
ma
non
certamente
l’unico.
Inoltre,
il
vaccino
c’è
… da
qualche
millennio.
Invisibile
Quando
avvertiamo
qualcosa
di
sospetto,
cerchiamo
innanzitutto
di
localizzarlo
attraverso
i
sensi.
Il
nemico
amorfo
ci
angoscia.
In
particolare
la
nostra
porzione
di
mondo
occidentale
è
particolarmente
avvezza
alla
fiducia
nei
sensi,
nella
fisicità,
nella
misura.
Ciò
ci
rende
ancora
meno
preparati
ad
affrontare
un
nemico
che
si
muove
su
canali
così
diversi
dai
nostri.
In
realtà,
però,
l’essere
umano
si è
lasciato
suggestionare
dall’invisibile
dagli
albori
della
sua
storia.
Lo
ha
temuto
e,
al
contempo,
ne è
rimasto
affascinato,
ha
sviluppato
secoli
di
riflessioni
a
riguardo,
nutrite
da
miti
e
riti.
Articolare
un
approfondimento
circa
l’invisibile
che
minaccia
conduce
con
molta
probabilità
a
prendere
coscienza
di
un
ecosistema
alterato,
di
cui
qua
e là
si
tarda
la
presa
in
carico.
L’invisibile
è
tornato
presente
con
forza
attraverso
questo
virus,
che,
oltre
a
non
poter
essere
visto,
se
non
al
microscopio,
è
anche
molto
sconosciuto.
Non
possiamo
vederlo,
ma
paradossalmente
si
specchia
con
qualcosa
che
è
dentro
di
noi
sempre,
l’angoscia
indefinita
che
riemerge
nelle
situazioni
critiche
e
che
maschera
la
percezione
e la
paura
della
finitezza
e
della
morte.
Allora
il
continuo
parlarne,
lo
studiare
ogni
notizia,
il
farselo
amico,
in
qualche
modo,
sembra
esorcizzare
l’esercizio
che
non
sappiamo
più
eseguire,
rapportarci
con
ciò
che
è
invisibile.
Dio
nessuno
l’ha
mai
visto
(1Gv
4,12).
Così
asserisce
l’apostolo
Giovanni.
Chi
meglio
delle
religioni
è
pratico
della
dimensione
invisibile,
della
sua
presenza
palpabile,
anche
se
non
attraverso
i
sensi.
Ogni
rito
religioso
è un
insieme
ordinato
e
codificato
di
parole
e
gesti
dotati
di
significato
in
un
tempo
altro,
dedicato
al
divino
e
all’unione.
L’invisibile
delle
religioni
non
dimentica
mai
il
binomio
fondamentale
vita-morte,
al
contrario
lo
assume
e ne
propone
un
esito.
Anch’esso
è
invisibile:
risorgere
dai
morti
non
è
visibile,
non
lo è
uscire
dal
ciclo
delle
rinascite
ed
estinguersi
in
Nirvana,
eppure
è la
sostanza
principale,
l’argomento
fondamentale
delle
fedi.
Anche
la
fede,
perfino
l’amore,
come
ogni
altro
sentimento,
non
è
visibile
di
per
sé,
se
non
attraverso
i
suoi
effetti.
Le
religioni
indirizzano
al
discernimento,
l’analisi
delle
situazioni
che
si
vivono
alla
luce
della
fede.
Quanto
è
importante
tornare
a
percepire
ciò
che
è
invisibile
agli
occhi,
instaurandovi
relazioni
distese?
il
Piccolo
Principe
insegna.
Teologie
e
precarietà
In
tutti
i
corsi
di
studio,
in
ogni
preparazione
in
vista
di
un’interrogazione
o di
un
esame
immancabilmente
ci
sono
delle
pagine
difficili,
quelle
che
non
si
riescono
a
capire
o
che
non
si è
avuto
il
tempo
di
studiare.
E
sono
inevitabilmente
le
più
temute.
I
testi
sacri
contengono
molte
pagine
difficili,
alcune
dal
significato
oscuro,
altre
scritte
con
un
linguaggio
violento.
In
particolare,
però,
c’è
una
lezione
che
si
digerisce
con
difficoltà,
ma
che
fa
parte
di
tutte
le
grandi
tradizioni.
È
l’insegnamento
della
fragilità.
Il
fascino
del
religioso
è
racchiuso
anche
in
questa
capacità:
mostrare
l’infinito
e
contemporaneamente
il
limite,
senza
soluzione
di
continuità.
Nel
mezzo,
però,
c’è
un
ponte
fatto
di
fiducia.
…
Come
un
bimbo
in
braccio
a
sua
madre
…
(Sal
131,
2).
La
mentalità
più
diffusa,
con
particolare
riferimento
al
fazzoletto
di
mondo
che
abitiamo,
ci
induce
a
pensarci
come
esseri
totalmente
autosufficienti,
impegnati
costantemente
a
potenziare
le
nostre
abilità.
I’ve
got
(re)power,
ripetuto
nel
ritornello
insistente
di
una
pubblicità
molto
trasmessa.
Le
religioni
guardano
all’essere
umano
da
un
altro
punto
di
vista,
lo
focalizzano
nei
suoi
punti
di
rottura,
cioè
nelle
sue
crisi,
nei
cambiamenti
cui
va
incontro,
nel
suo
dinamismo.
Perciò
l’essere
umano
è
considerato
sempre
bambino,
perché,
di
tutti
gli
stadi
della
vita,
è
quello
soggetto
a
maggiori
cambiamenti.
Ed è
considerato
nelle
grandi
tradizioni
ebraica,
cristiana,
islamica,
come
creatura.
La
finitezza
non
è un
capo
del
filo
lanciato
nel
vuoto.
Ancora
una
volta,
riprendendo
l’immagine
dalla
tradizione
ebraica,
è
simile
a
una
corda
che
Dio
non
molla,
che
non
ti
lascia
solo
e
che
è
proprio
la
speranza.
I
credenti
hanno
costantemente
sotto
gli
occhi
le
pagine
colme
di
lezioni
sulla
precarietà
della
vita
umana,
eppure
non
le
vedono.
Spesso
ricorrono
a
esperti
dell’occulto,
ad
amuleti,
ad
altrettanti
modi
di
controllo
illusorio.
Forse
è
tempo
di
riscoprire
questa
grammatica
della
fragilità
come
il
momento
in
cui
si
ritorna
piccoli
e ci
si
affida.
È
una
riscoperta
del
frammento,
che,
al
pari
di
una
particola,
contiene
la
totalità.
L’apostolo
Paolo
è
stato
molto
generoso
nel
far
trapelare
tanto
di
sé,
del
suo
vissuto,
quando
scriveva
alle
amate
comunità.
Sono
belle
le
sue
parole,
ma
forse
non
sappiamo
capirle
fino
in
fondo,
quando
scrive:
…
quando
sono
debole,
allora
sono
veramente
forte
(2Cor
12,
10).
Certamente
il
primo
desiderio
nel
male,
di
qualunque
natura
sia,
è
che
non
ci
sia!
Di
fatto,
però,
grano
e
zizzania
crescono
insieme,
non
sempre
riusciamo
a
estirpare
una
situazione
negativa,
un
dolore,
una
minaccia.
Allora
ripensare
all’esperienza
di
Paolo
può
servire.
La
soluzione
in
quel
caso
è
Ti
basta
la
mia
grazia
(2Cor
12,
9).
Per
quanti
profeti
è
stato
difficile
e
doloroso
accogliere
la
chiamata
e la
missione
loro
affidata
da
Dio.
Pensiamo
a
molti
profeti
biblici,
al
profeta
dell’islam,
Muhammad,
al
Buddha
Shakyamuni.
Hanno
visto
i
loro
percorsi
interrompersi
in
modo
inaspettato
e
non
hanno
potuto
ignorare
questo
cambiamento
profondo
dentro
di
loro.
Talvolta
sono
rimasti
isolati,
perché
non
creduti,
considerati
inaffidabili,
non
sani
di
mente,
anticonvenzionali.
Paradossalmente
all’incontro
con
il
divino,
hanno
incontrato
contemporaneamente
la
loro
fragilità,
la
loro
paura,
la
solitudine.
Che
cosa
hanno
scelto?
La
fragilità
vista
dalle
religioni
è
come
una
freccia,
è
orientata
verso
il
divino.
Non
si
sono
lasciati
bloccare
dalla
fragilità,
ma
l’hanno
accolta
e
con
essa
il
germe
divino
e
immortale
di
Dio,
che
fa
tendere
ogni
cosa
al
bene
(cf.
Rm
8,28).
Nella
fragilità
si
vive
costantemente
sul
chi
va
là.
La
fragilità
credente
è
avvolta
e
orientata
verso
un
altro
orizzonte.
“Il
mattino
viene,
ma è
ancora
notte”
(cf.
Is
21,12)
Suona
dolcemente
come
la
strofa
di
una
poesia
questo
passaggio
tratto
dal
libro
del
profeta
Isaia,
eppure
fotografa
un
momento
drammatico.
Come
sono
le
notti
quando
si
sta
male,
quando
un
pensiero
incombe,
preoccupa?
Sono
il
tempo
peggiore,
immerso
nel
buio,
nel
silenzio,
non
si
vede
l’ora
che
sopraggiunga
l’aurora.
L’attesa
sembra
interminabile.
Nella
vita
di
ciascuno
capitano
molte
notti
così.
Si
può
fuggire?
Sarebbe
giusto
fuggire?
Dal
profeta
arriva
un’indicazione
interessante
e
condivisibile
anche
da
parte
delle
altre
grandi
tradizioni
religiose.
Egli
in
costante
dialogo
con
Dio
afferma:
Nella
torre
di
guardia,
Signore,
io
sono
colui
che
sta.
Tutto
il
giorno
resto
al
mio
posto,
mai
di
notte
lo
abbandono
(Is
21,
8).
Il
profeta
si
fa
sentinella,
non
perde
mai
di
vista
la
realtà,
non
manca
d’intercettare
i
pericoli
e la
loro
direzione.
Contemporaneamente,
però,
il
suo
sguardo
e il
suo
orecchio
sono
rivolti
a un
livello
superiore.
Ciò
gli
consente
di
sostare
nella
situazione,
vedendola
in
prospettiva,
sosta
nella
notte,
sapendo
che
il
mattino
arriverà.
La
sua
speranza
è il
collegamento
sollecito
e
fattivo
fra
i
due
livelli,
quello
visibile
e
quello
invisibile,
quello
del
presente
e
quello
del
futuro,
quello
che
passa,
quello
che
resta.
La
sentinella
ha
l’orecchio
teso
a
Dio,
ma
anche
l’occhio
attento
alla
città
e ai
suoi
abitanti.
È
distante
da
loro,
ma
tutto
quello
che
vive
è
dedicato
a
loro
in
Dio.
Proprio
in
quella
notte
il
profeta
riconosce
il
disegno
della
sua
vocazione,
che
consiste
nel
sostare
proprio
lì e
in
quel
momento.
E lì
mantiene
viva
la
speranza,
anche
dialogando
con
i
pellegrini,
forse
senza
meta,
senza
casa,
della
notte.
In
fondo
non
ne
sa
più
degli
altri,
ma
resta
lì
con
loro.
E
così
colora
quel
buio
di
parole
cordiali.
È
stato
il
cambiamento,
invece,
a
salvare
i
primi
credenti
dell’islam
nascente:
hanno
affrontato
l’incertezza
del
viaggio
per
mantenere
viva
la
loro
fede
e
compatto
il
loro
gruppo,
ma
così
facendo
hanno
perso
le
loro
radici,
hanno
affrontato
l’ignoto.
Le
religioni
riempiono
di
significati
anche
i
tempi
apparentemente
morti
e
proprio
lì
avvertono
la
presenza
di
una
chiamata,
di
un
significato.
E
insegnano
che
se
il
male
c’è
e
non
si
può
ignorare,
anzi
bisogna
affrontarlo,
c’è
qualcosa
di
più
forte
che
induce
all’ascesi,
a
guardare
la
situazione
dall’alto
o da
un
altro
punto
di
vista,
che
non
si
lascia
limitare
dal
momento.
Confini
e
riscatti
Gran
parte
delle
politiche
internazionali
dei
nostri
tempi
è
stata
dedicata
al
tema
delle
frontiere,
annullate
da
ogni
lettura
tendente
alla
globalizzazione,
da
ripristinare
e/o
rafforzare
secondo
ogni
interpretazione
ammiccante
alla
localizzazione.
E
tali
dibattiti
sono
accesi
più
che
mai
da
quando
è
comparso
sua
maestà
il
coronavirus,
anche
detto
Covid-19,
nome
che
lo
rende
tanto
simile
a
una
missione
spaziale
(ma
preferivo
l’Apollo
11,
12 e
13
messi
insieme,
in
verità).
Un
bravo
vignettista
potrebbe
ritrarlo
con
faccina
ridente
fino
alle
lacrime
all’udire
di
ogni
comunicato
che
blocchi
perentoriamente
voli,
passeggeri,
…
cavalli
e
cavalieri
… Ci
voleva
un
microrganismo
invisibile
a
occhio
nudo
ed
estremamente,
trasversalmente,
malefico,
per
farci
guardare
in
faccia
la
cruda
realtà
che
siamo
tutti
nella
stessa
barca!
Il
nome
di
Codogno,
comune
della
Bassa
lodigiana
fra
i
primi
a
essere
isolato
come
zona
rossa,
ormai
è
divenuto
noto
anche
fuori
dalla
Lombardia.
Speriamo
serva
a
ricordare
qualcosa
di
bello,
come
per
esempio
il
fatto
che
è
uno
dei
luoghi
in
cui
la
grande
Santa
Francesca
Saverio
(non
è un
errore)
Cabrini,
patrona
dei
migranti,
aprì
il
primo
nucleo
delle
sue
opere,
grazie
alla
disponibilità
del
parroco
del
luogo.
Tra
l’altro
Francesca
Cabrini,
cagionevole
dalla
nascita,
prestò
soccorso
ai
malati
di
vaiolo
durante
un’epidemia,
ella
stessa
ne
fu
colpita
e ne
guarì
senza
conseguenze.
Così
potremmo
guardare
la
mappa
della
Penisola,
ormai
tutta
giallorossa
(non
per
la
Roma),
rileggendola
come
una
sorta
di
itinerario
sacro,
culturale.
Forse
sarebbe
più
interessante
occuparsi
dei
sentieri
umani
tracciati
da
tanti
che
hanno
finito
con
il
lasciare
un’impronta
importante
nella
storia
dell’umanità.
Confucio
(mi
pare
pertinente
tirarlo
in
ballo,
tanto
più
che
in
questi
giorni,
più
che
mai,
la
Cina
ci è
così
vicina!)
sostiene
la
necessità
di
una
virtù
impegnata
e
fiduciosa
nel
singolo,
nella
sua
possibilità
di
influire
positivamente
sul
contesto.
Nella
sua
ottica
fare
il
bene
è
proiettare
all’esterno
la
propria
armonia
per
aumentare
l’armonia
dell’insieme:
Dal
Figlio
del
Cielo
all’ultimo
del
popolo,
per
tutti
la
cosa
più
importante
è
perfezionare
la
propria
persona
(Grande
studio,
par.
6).
Lo
slancio
ascetico
che
accompagna
naturalmente
ogni
fede
impegna
costantemente
il
credente
a
operare
su
se
stesso,
con
lo
sguardo
lucido
sul
presente,
ma
anche
volto
altrove.
Nessuna
frontiera
può
soffocare
lo
spirito.
L’invito
a
coltivare
l’armonia
in
noi
per
poterla
proiettare
all’esterno
è un
invito
ricevibile
e
fattibile
anche
ai
tempi
del
virus.
Le
tradizioni
religiose
che
segnano
le
culture
e le
fedi
ci
hanno
trasmesso
dei
codici
genetici.
Li
sentiamo
nominare
dalla
scienza
spesso
nella
spiegazione
dei
meccanismi
che
s’inceppano.
Nel
caso
delle
religioni,
questi
codici
sono
predisposti
alla
speranza
come
sollecitudine
operosa
e
prospettica,
come
forza
pacifica
di
riscatto
e di
liberazione
dai
limiti
talvolta
a
misura
delle
nostre
idee
fisse.
Se i
confini
indicati
in
tempi
d’emergenza
vanno
comunque
rispettati,
almeno
non
dimentichiamo
di
custodire
qualcosa
che
sempre
e in
ogni
caso
ci
conduce
a
superarli
verso
l’infinito.