N. 85 - Gennaio 2015
(CXVI)
UNO SGUARDO SU AL-FATAH
tRA ANNIVERSARI, RICORRENZE E FAIDE
di Filippo Petrocelli
Al
Fatah,
il
principale
partito
dell’OLP,
ha
festeggiato
nei
giorni
scorsi
il
cinquantesimo
anniversario
della
sua
prima
azione
armata
per
le
strade
della
Palestina.
In
realtà
Yasser
Arafat
ha
fondato
Al-Fatah
nel
1959,
quindi
il
partito
ha
già
superato
abbondantemente
il
lustro
ma
proprio
in
questi
giorni
ricorre
la
prima
azione
di
guerriglieri
palestinesi
sul
territorio
israeliano.
Così
a
Ramallah,
a
Jenin,
Nablus
ma
anche
a
Gaza,
sono
sventolate
decine
di
migliaia
di
bandiera
gialle,
in
un
tripudio
di
ritratti
di
Yasser
Arafat.
Ma
oltre
la
festa,
il
partito
non
gode
di
ottima
salute:
al
suo
interno
si
sta
consumando
uno
scontro
–
sottotraccia
da
almeno
dieci
anni
–
fra
la
giovane
generazione
del
partito
e la
vecchia
guardia,
costituita
dai
pretoriani
dell’esilio
tunisino
dell’OLP.
Il
grande
assente
ai
festeggiamenti
è
stato
Abu
Ammar,
nome
di
battaglia
di
Yasser
Arafar,
padre
della
Palestina
moderna:
in
questi
giorni
ricade
il
decennale
dalla
morte
dello
storico
leader
palestinese
e
questo
ha
contribuito
alla
generale
atmosfera
melanconica.
Abu
Mazen,
l’attuale
leader
di
Fatah
e
presidente
dell’ANP,
resta
invece
il
leader
più
influente,
ma
una
sua
successione
sembra
ormai
irrinunciabile.
Intorno
a
lui
però,
vecchi
rancori
e
faide
interne
dividono
la
generazione
dell’esilio
e i
protagonisti
del
processo
di
pace
di
Oslo,
incapaci
tuttavia
di
esprimere
una
leadership
condivisa.
Nel
2009,
durante
l’ultimo
congresso
di
al-Fatah,
Abu
Mazen
aveva
espulso
la
vecchia
guardia
del
partito
a
lui
invisa,
estromettendo
dal
comitato
centrale
dell’organizzazione
Ahmed
Qrea
suo
ex-sodale
ad
Oslo
e
Faruk
Kaddoumi,
storico
fondatore
di
al-Fatah
ed
esponente
di
spicco
dell’ala
più
intransigente.
Sembra
quindi
venuta
l’ora
dei
rampanti
“giovani
turchi”,
la
generazione
dei
militanti
cinquantenni
divisi
fra
i
seguaci
di
Mohamed
Dahlan,
un
tempo
uomo
forte
di
Fatah
a
Gaza
e
enfant
prodige
della
politica
palestinese
–
ora
travolto
da
una
serie
di
scandali
ed
espulso
dal
partito
– e
i
sostenitori
di
Jibril
Rajoub,
suo
storico
nemico,
mentre
Mohammed
Shtayyeh,
economista
e
ministro
della
ANP
e
Abu
Jihad
al
Aloul,
governatore
di
Nablus,
sembrano
i
due
principali
outsider
nella
corsa
alla
segreteria.
Oltre
questi
leader
di
primo
piano,
che
molto
somigliano
ai
notabili
palestinesi
degli
anni
’30
–
lontani
dalla
realtà
e
consumati
dall’arte
della
mediazione
politica
– la
vera
alternativa
è
rappresentata
da
Marwan
Barghouti,
giovane
leader
dell’ala
sinistra
del
partito,
capopopolo
molto
amato
in
Palestina
ma
rinchiuso
nelle
carceri
israeliane
a
scontare
cinque
ergastoli
dal
2002.
A
dieci
anni
dalla
morte
di
Arafat
e a
cinquant’anni
dall’inizio
delle
azioni
armate
dei
feddayn,
il
partito
sembra
più
che
mai
stretto
in
un
bivio,
fra
un
glorioso
passato
e un
presente,
nella
migliore
delle
ipotesi,
molto
incerto.
Di
fronte
al
fallimento
degli
accordi
di
Oslo,
dopo
la
fratricida
guerra
contro
Hamas,
al-Fatah
deve
necessariamente
cambiare
per
non
essere
condannata
all’irrilevanza
politica.
Agli
occhi
della
popolazione
palestinese,
il
partito-stato
di
al-Fatah
è
consumato
dalla
corruzione,
con
scarso
credito
in
seno
a
quella
che
un
tempo
sarebbe
stata
definita
la
resistenza
palestinese.
Schiacciato
dalle
responsabilità
di
gestire
un
popolo
senza
stato,
gode
di
una
sorta
di
investitura
morale
che
sembra
però
essersi
consumata
agli
occhi
di
una
popolazione
sfinita
dall’occupazione
israeliana.
Il
rinnovamento
e in
un
certo
senso
il
ritorno
alle
origini,
magari
con
Barghouti
leader,
nel
congresso
aperto
a
gennaio
a
Nablus,
sembrano
di
fatto
l’unica
alternativa
che
rimane
ad
al-Fatah,
per
non
diventare
l’ennesima
satrapia
in
un
Medioriente
in
subbuglio.