N. 4 - Aprile 2008
(XXXV)
“SIAMO CARNE AL
MACELLO”
Recensione del film
Fast Food Nation
di Laura Novak
Esistono Film di
denuncia sociale ed esistono quelli che vorrebbero
esserlo.
Fast Food Nation,
purtroppo, si avvicina ad entrambi i “generi”, senza
essere parte di uno o dell’altro. Ultimato ma forse non
del tutto compiuto.
Il film si apre fin
dall’inizio in svariate pieghe narrative.
L’ambientazione, quella del processo lento e sanguinoso
di macellazione e lavorazione della carne bovina, per la
vendita di carne d’hamburger ai fast food della
provincia americana, è suddivisa equamente per ogni
storia individuale della sceneggiatura.
E’ uno sfondo tragico,
drammaticamente legato alla realtà del consumo di massa,
senza sosta o pietà.
I soggetti, e non si parla
qui di personaggi, ma di bei protagonisti di ogni
microstoria dell’intreccio, sono vittime, consapevoli o
meno del meccanismo. Ogni fase di macellazione, di
produzione, vendita al dettaglio, vendita del marchio e
garanzia, fino all’arrivo del profitto, è contrassegnato
da un individuo con i suoi sogni e le sue certezze.
Si passa quindi per
l’intero film dagli esuli messicani, spinti
all’emigrazione da sogni di gloria in furgoni-celle
senza aria, che possono ottenere solo umiliazione
carnale o lacerazione fisica (la macellazione), alla
mattanza emotiva e la conseguente miscellanea di donne
sognatrici ed insicure (la preparazione); dalla commessa
impiegata giovane e talentuosa, che si rende conto della
assenza di futuro personale, nell’arida realtà , se non
accompagnata dalla spinta economica donata dal marchio
assassino (la vendita al dettaglio, la preparazione del
singolo e il convincimento della necessità fisiologica
del prodotto), alla svendita del manager alla causa
comune ancora incontaminato dalle regole del commercio.
Ogni storia un passaggio.
Una serie di ruoli satellite garantiscono la riuscita
intenzionalmente corale del profilo narrativo. Da Bruce
Willis, supervisore cinico, disincantato da 20 anni di
lavoro sporco, a Patricia Acquette, madre sola e
solitaria, a Ethan Hawke, l’unico a non essere
all’interno del meccanismo del massacro, ad averlo
compreso e ad allontanato.
Il film ha le carte
giuste, ma non sbanca. Non riesce a denunciare fino
all’estremo il marcio della catena di montaggio che oggi
è nuovamente l’occupazione moderna in fabbrica. Oggi
come allora, uomini mutilati, donne sopraffatte, ruoli e
gerarchie scombinati, moralità comprate, spazzatura in
vendita.
Non si assapora veramente
il disgusto che di sicuro ha condotto il regista alla
scelta del soggetto. Una patina opaca buonista non
lascia vedere in lucidità la realtà.
Poteva essere un film che
conduceva direttamente allo stomaco (come fa però in
maniera sublinamente grottesca negli ultimi fotogrammi),
ma che purtroppo, si ferma, rallenta, a volte accelera
senza controllo ma poi di nuovo sterza, per non arrivare
al limite della denuncia.
Un’unica differenza mette
in luce il film rispetto agli altri lungometraggi come
Supersize me del 2006, ed è qui la sua forza: ad
oggi non ha importanza cosa vendi, in quali quantità, e
a quali invece si potrebbe mai vendere in futuro; quello
che conta è in che modo si vende. Deve necessariamente
rappresentare un bene indispensabile, unico e
riconoscibile.
Comprare per poi
assoggettare il lavoratore... e fare poi lo stesso al
consumatore. I paralleli tra la funzione astratta,
ancora non realistica, del consumatore, durante la fase
di preparazione, e la funzione, invece reale e
sviscerata, del lavoratore sono evidenti.
Di sicuro, appena usciti
dalla sala, lo scopo ultimo, di allontanare e far
riflettere, lo si sente assorbito. |