contemporanea
LA MANCATA NORIMBERGA ITALIANA
I CRIMINI DI GUERRA FASCISTI AI DANNI
DELLE POPOLAZIONI BALCANICHE
di Gaia Di Stefano
L’opinione pubblica italiana presenta da
quasi un secolo la figura utopica del
“bravo italiano” pacifico e clemente
anche quando veste i panni
dell’occupante, uno stereotipo costruito
soprattutto durante la colonizzazione
italiana in Libia e in Etiopia
presentata dalla propaganda politica
come un’azione di civilizzazione in
favore delle popolazioni non italiane
considerate barbare e incivili.
Questo luogo comune ha sicuramente un
suo fondo di verità se consideriamo ad
esempio la protezione offerta dalle
truppe italiane verso gli ebrei durante
la persecuzione ebraica ma non può
rappresentare una realtà univoca che,
contrapposta alla figura del “cattivo
tedesco” sanguinario e barbaro, serva da
alibi per dimenticare i crimini avvenuti
per mano italiana.
La storiografia italiana ha subito negli
anni una politicizzazione profonda che
ha reso difficoltoso lo studio oggettivo
di questi avvenimenti e che ha
comportato l’eliminazione parziale o a
volte anche totale di molti eventi dai
manuali storici. Inoltre alcuni degli
storici che solo recentemente (dopo la
riscoperta avvenuta negli anni ‘90 dei
fascicoli processuali riguardanti i
crimini di guerra fascisti
precedentemente scomparsi dall’archivio
della Procura generale militare) si sono
interessati di riscoprire gli anni bui
della nostra nazione spesso lo hanno
fatto compiendo un riesame critico degli
eventi sulla base delle diverse
interpretazioni ideologiche e molte
volte senza considerare il contesto più
ampio in cui questi eventi vanno
inseriti.
Infatti, i primi contatti tra la
politica fascista e i popoli slavi
iniziarono molto prima dell’occupazione
della Jugoslavia in quella zona che, da
una concezione italianistica, venne
definita “confine orientale”. Il lemma
confine in questo caso risulta
fuorviante in quanto non consisteva in
una linea di demarcazione ma in
un’intera circoscrizione territoriale in
cui per secoli si sono contrapposti o
sovrapposti molteplici confini di natura
religiosa, etnica, politica e infine
anche nazionale, sanciti da numerose
guerre.
Il Regno d’Italia ancor prima di
diventare tale aveva già forti
aspirazioni espansionistiche in
particolar modo su alcuni territori
confinanti con gli antichi stati
italiani considerati appartenenti a
un’antica realtà latina che, dopo la
Prima guerra mondiale, divennero
l’obiettivo degli irredentisti.
La storia del confine orientale si
intrecciò quindi con quella delle
potenze che ne hanno fatto parte e delle
relative popolazioni che lo hanno
abitato, rendendo questa zona ricca di
diversità economiche, sociali,
culturali, linguistiche. Il fascismo
delle origini trovò nel precario
equilibrio del confine orientale la zona
ideale in cui far valere la sua nuova
cultura politica, caratterizzata fin da
subito dall’utilizzo della violenza.
Strutturandosi in quello che viene
definito il “fascismo di confine” impose
alle minoranze etniche una serie di
provvedimenti liberticidi su base
razzista e di superiorità della razza
italiana avviando quella che viene
ricordata come “italianizzazione
forzata”. Vennero eliminate tutte le
istituzioni nazionali slovene e croate
che erano state rinnovate dai governi
liberali dopo la guerra, vennero sciolte
anche tutte le associazioni e i partiti
politici, vennero avviati progetti di
colonizzazione agricola italiana e, per
favorire l’ideologia dello slavo incolto
e campagnolo, furono allontanati gli
esponenti della borghesia slovena.
Inoltre, il fascismo agì anche in ambito
linguistico vietando l’utilizzo di
qualsiasi lingua diversa da quella
italiana, estremizzando la corrente
neopurista e macchiandola di una forte
componente xenofoba.
Il regime arrivò ad attuare una vera e
propria spersonalizzazione delle
comunità alloglotte quando con la legge
n. 898 del 24 maggio del 1926 vennero
abiliti i cognomi formulati nelle lingue
minoritarie. Il linguista Miro Tasso
definì queste azioni un vero e proprio
“onomasticidio di Stato”.
I provvedimenti non furono accettati
passivamente dalle minoranze etniche,
nel 1927 si costituì il Fronte
clandestino che iniziò a compiere azioni
di resistenza armata e l’Organizzazione
Tigr.
Il dissenso slavo fu violentemente
represso dal regime anche attraverso la
costituzione del Tribunale speciale per
la difesa dello Stato che rimase in
funzione dal 1926 al 1943. La dura
repressione fascista contro la minoranza
slava acuì ulteriormente il risentimento
contro gli italiani per cui si instaurò
l’equivalenza italiano=fascista. Allo
stesso tempo però sloveni e croati
iniziarono a collaborare con i partiti
antifascisti italiani che agivano
clandestinamente come il Partito
comunista d’Italia o in esilio come il
Movimento Giustizia e Libertà.
Il rapporto tra gli italiani e le
popolazioni balcaniche si fece ancor più
teso dopo lo scoppio della Seconda
guerra mondiale. In Jugoslavia la
situazione era già critica a causa dei
conflitti interni dati dalla convivenza
di più gruppi etnici nel territorio. Il
25 marzo 1941 avvenne ufficialmente
l’ingresso della Jugoslavia nel
Tripartito portando un forte malcontento
nel mondo politico serbo che, dopo soli
due giorni, sfociò in un colpo di Stato
per rovesciare il reggente Paolo e il
suo governo colpevoli di aver firmato
l’adesione. Il principe Paolo fu
costretto all’esilio e il potere fu
assunto da Petar Karađorđević ormai
diciassettenne.
Il nuovo governo si dichiarò pronto a
rispettare gli accordi internazionali
con Roma e Berlino mentre attendeva gli
aiuti promessi dalla Gran Bretagna per
slegarsi dai progetti delle forze
dell’Asse ma per Hitler il colpo di
Stato aveva cambiato la situazione
politica nei Balcani. Con la Direttiva
n. 25 il Führer dichiarò che la
Jugoslavia doveva essere trattata come
un nemico e quindi distrutta il più
rapidamente possibile vista la completa
inaffidabilità della classe dirigente;
il 6 aprile 1941 iniziò l’Operazione
Castigo con l’invasione da parte delle
truppe tedesche che, aiutate dalle
truppe italiane, in pochissimo tempo
occuparono Belgrado.
La Jugoslavia venne smembrata e i suoi
territori furono spartiti tra i
partecipanti all’aggressione. All’Italia
vennero attribuite quasi tutta la costa
dalmata e la Slovenia meridionale dove
venne istituita la provincia di Lubiana.
Inoltre, furono creati due stati
indipendenti: la Nezavisna Država
Hrvaska dei croati ustascia (che erano
anche stati sovvenzionati dal governo
italiano e istruiti dal fascismo con lo
scopo di riuscire a guidare il leader
Ante Pavelić verso la costruzione di uno
Stato indipendente ma debitore nei
confronti dell’Italia e militarmente
controllato da quest’ultima) e il
Montenegro sotto il protettorato
dell’Italia.
Il Montenegro inizialmente doveva essere
annesso all’Albania per formare così la
Grande Albania, successivamente
all’irrigidirsi dei rapporti con il
governo italiano fu dichiarato uno Stato
“indipendente e sovrano” ma il potere fu
affidato a un reggente nominato da
Vittorio Emanuele III che vantava una
certa parentela con questo territorio in
quanto aveva sposato Elena, figlia
dell’ultimo sovrano del Montenegro.
Questa situazione di finta autonomia
portò a un’insurrezione della
popolazione montenegrina sotto la guida
di alcuni ufficiali nazionalisti del
disciolto esercito jugoslavo e di
esponenti del Partito Comunista
Jugoslavo originari del Montenegro che
in pochi giorni riuscirono a imporre il
loro controllo sulle campagne. Il
Comando Supremo del Regio Esercito
Italiano reagì inviando sei divisioni
comandate dal generale Alessandro Pirzio
Biroli.
L’atteggiamento del generale Biroli fu
molto violento, le attività svolte nella
regione venivano relazionate ai comandi
superiori tramite rapporti scritti da
cui possiamo venire a conoscenza delle
rappresaglie (ad esempio quella nel
villaggio di Pljevlja in cui furono
fucilati sul posto 74 civili), delle
fucilazioni da cui non venivano
risparmiate né donne né bambini, dei
bombardamenti di cittadine e interi
villaggi e degli incendi delle
abitazioni. Lo stesso generale nel
gennaio del 1942 ordinò che per ogni
soldato ucciso venissero fucilati 50
ostaggi, imitando quella che era la
pratica tedesca e affermando che «la
favola del buon italiano»
doveva cessare di esistere.
L’atteggiamento di Biroli seguiva le
orme del fascismo nato sul confine
orientale e impregnato di una forte
componente razzista, infatti, in un
opuscolo che fu distribuito alle truppe
affermava: «Odiate questo popolo. Esso è
quel medesimo popolo contro il quale
abbiamo combattuto per secoli sulle
sponde dell’Adriatico. Ammazzate,
fucilate, incendiate e distruggete
questo popolo»
e ancora «mostrate a quei barbari
che l’Italia, maestra e madre della
civiltà, sa anche punire secondo le
leggi incorruttibili della giustizia».
Alessandro Pirzo Biroli prima di
sostituire Serafino Mazzolini come Alto
commissario in Montenegro fu Governatore
della regione di Gondar durante
l’occupazione etiopica e anche in questa
circostanza agì con violenza ed
efferatezza, viene ricordato come colui
che diede l’ordine di legare un masso al
collo dei capi tribù prima di farli
precipitare nel lago Tana. Nonostante la
storia criminale di quest’uomo
e nonostante venne inserito nella
lista dei soggetti più ricercati sia
dalla UNWCC (Commissione delle Nazioni
Unite sui crimini commessi durante la
Seconda guerra mondiale) sia dal
CROWCASS (Registro Centrale per i
Criminali di Guerra) non fu mai
processato e morì il 20 maggio del 1962
come cittadino libero.
Nel territorio occupato si svilupparono
due principali movimenti di resistenza
ovvero l’Armata nazionale jugoslava
guidata dal colonnello Dragoljub
Mihailović formata da monarchici serbi
che speravano nel ritorno del re in
esilio e il movimento dei partigiani
comunisti diretto da Josip Broz
denominato “Esercito popolare di
liberazione nazionale”.
La contrapposizione di queste due forze
e dei loro relativi progetti politici
per la futura Jugoslavia si rese più
evidente quando, nel 1942, i cetnici
adottarono una politica di
collaborazione con le truppe italiane di
cui si fece portavoce Mario Roatta,
comandante della II Armata nei Balcani
dal gennaio del 1942. Roatta credeva di
poter utilizzare le mire monarchiche dei
cetnici in funzione anticomunista perciò
una parte di questi fu inquadrata nelle
MVAC (Milizie volontarie anticomuniste)
che sottostavano alle direttive italiane
e avevano il compito di combattere i
partigiani di Broz, più comunemente
conosciuto come Tito (era in uso
l’utilizzo di nomi diversi tra i membri
dell’allora illegale partito comunista
così che in caso di arresto non fosse
identificabile la famiglia
dell’arrestato).
Di questa nuova collaborazione Tito
informò il governo britannico e, da
questo momento, Mihailović e la sua
Armata smisero di ricevere supporto
dagli inglesi che decisero invece di
appoggiare in funzione antifascista le
forze partigiane comuniste che nel
frattempo stavano raccogliendo sempre
più adesioni. Il coinvolgimento della
popolazione nell’attività titina avvenne
sia attraverso una propaganda allettante
che prometteva una riforma sociale sia
con l’utilizzo della violenza mediante
rappresaglie motivate da ragioni etniche
o accuse di favoreggiamento verso gli
occupanti. Al movimento partigiano,
controllato direttamente dal Comitato
centrale del Partito comunista jugoslavo
va riconosciuta, diversamente dalle
altre forze di resistenza, una vera e
propria organizzazione che rispettava
anche una struttura gerarchica.
Alla
guerriglia presente nel territorio le
forze dell’Asse risposero sia con
violente azioni di repressione diretta
sia con vere e proprie operazioni
militari che coinvolsero quasi
interamente la popolazione civile e le
cui modalità vennero illustrate nella
nota circolare 3C firmata dal generale
Roatta.
A titolo esemplificativo possiamo
descrivere la situazione di Lubiana che
ricordava fortemente l'italianizzazione
forzata avvenuta nella Venezia Giulia;
l’Alto commissariato Emilio Grazioli,
federale fascista di Trieste e
consigliere nazionale del Partito
nazional fascista firmò i “Provvedimenti
per la sicurezza dell’ordine pubblico”
che prescrivevano la pena di morte o la
fucilazione immediata per gli atti di
sabotaggio, la detenzione di armi, il
passaggio clandestino della frontiera e
persino per la propaganda sovversiva.
Per poter applicare questi provvedimenti
fu costituito un Tribunale Speciale che
già l’8 ottobre condannò tre sloveni
alla pena di morte. Nel mese di novembre
Mussolini con un nuovo bando fece
istituire il Tribunale militare di
guerra della II Armata che rimase attivo
fino all’8 settembre del 1943.
Inoltre, Grazioli
mise in pratica un programma di
fascistizzazione della nuova provincia
creando una serie di istituzioni tipiche
del fascismo come l’ordinamento
corporativo, la federazione dei fasci di
combattimento e la Gil (Gioventù
Italiana del Littorio). La stessa
provincia di Lubiana diventò un esteso
campo di concentramento all’aperto con
la collocazione tutt’attorno di alti
reticolati per permettere un’efficacia
maggiore nell’opera di rastrellamento e
di perquisizione della città impedendo
che chiunque potesse entrarvi o uscirne.
Questa operazione fu condotta dall’ XI
Corpo d’Armata, in particolare dalla
Divisione Granatieri di Sardegna
comandata dal generale Taddeo Orlando,
nella notte tra il 22 e il 23 febbraio
del 1942.
Il generale Mario Robotti famoso per la
frase «si ammazza troppo poco», riferita
alla condotta repressiva nei territori
occupati, scrisse nella “Relazione sulle
operazioni di disarmo della popolazione
di Lubiana” il manifesto della sua
filosofia in cui ribadiva il bisogno del
«polso duro» nei confronti dei popoli
slavi; da queste affermazioni si denota
che anche le azioni in Jugoslavia non
erano il frutto soltanto di un’ideologia
criminale ma anche di un’ analisi errata
della realtà che considerava ancora i
non italiani come barbari da educare e
civilizzare.
Con
l’aumento degli uomini arrestati sorse
il problema della loro sistemazione che
venne “risolto” con l’istituzione di
veri e propri campi di concentramento.
Il primo campo nacque a Cighino a cui
seguì quello di Tribussa inferiore ma la
loro posizione allarmava le autorità in
quanto non li rendeva facilmente
controllabili a causa della vicinanza a
territori abitati da sloveni e croati
che poteva permettere agli internati di
ricevere solidarietà tra la popolazione
locale. Per questo motivo furono
utilizzati il campo di Gonars, posto a
sud di Udine che era stato costruito per
accogliere i prigionieri di guerra ma
che non fu mai utilizzato a questo scopo
e l’enorme tendopoli di Arbe istituita
nella piana di Kampor sull’isola di Rab
(annessa all’Italia già nel maggio del
1941 quando gli accordi fra Mussolini e
Pavelić delinearono i nuovi confini tra
l’Italia e la Croazia).
Il campo di Arbe fu allestito in tempi
record e quando all’inizio del mese di
luglio del ‘42 arrivarono i primi uomini
vi era solamente il filo spinato per
circoscrivere il luogo. Dovettero
infatti montare loro stessi le tende e
provvedere a scavare delle buche e a
riparlarle con del fogliame per
utilizzarle come latrine. Anche
l’alimentazione avveniva in condizioni
igieniche precarie, il cibo veniva
infatti cucinato all’aperto in bidoni di
benzina tagliati a metà e razionato
secondo delle tabelle prestabilite e
l’insufficiente rifornimento di acqua
veniva fatto attraverso delle
autocisterne.
Le tabelle alimentari preparate dal
Ministero dell’Agricoltura e Foreste
distinguevano gli internati in
repressivi e protettivi, lavoratori e
non lavoratori e nella distribuzione dei
pasti le testimonianze indicano un
ordine ben preciso che può essere
definitivo del “fisso decrescente”: i
primi a ottenere il cibo erano i capi
baracca e a questi seguivano, in ordine
di importanza, tutti gli altri fino ad
arrivare ai bambini.
I primi a risentire delle conseguenze di
questo stato di cose furono proprio i
bambini e Alfredo Rocca, generale
incaricato da Roatta di allestire il
campo di Arbe, per giustificare l’alta
mortalità infantile nel 1945 affermò:
«le madri croate, toglievano il cibo ai
loro bambini per darlo ai mariti o ai
figli adulti [...] le madri occultavano
in ogni modo i loro bambini ammalati per
cui, non venendo curati decedevano e,
inoltre cercavano di occultarli anche
dopo che erano morti». Queste
dichiarazioni mendaci venivano spesso
utilizzate dai generali per discolparsi
dei loro crimini che non risparmiarono
nemmeno i più piccoli.
Nei
lager le condizioni di vita erano quindi
ai limiti della sopravvivenza a causa
delle condizioni igienico-sanitarie
precarie, della sistemazione fatiscente
che non permetteva una corretta
protezione dagli agenti atmosferici e in
particolar modo dell’insufficienza
nutrizionale che favoreggiava la
depauperazione degli organismi e di
conseguenza la propagazione di malattie
e lo svilupparsi di vere e proprie
epidemie. Il principio che vigeva nei
campi era quello espresso dal generale
Gastone Gambara secondo il quale un
campo di concentramento non doveva
essere un campo di ingrassamento in
quanto un individuo malato equivaleva a
un individuo tranquillo.
Il quadro che si delineò per gli
abitanti delle province di Lubiana,
Spalato e Cattaro fu ancora più
inquietante in quanto questi diventarono
italiani per annessione e questo
comportò delle implicazioni molto
pesanti sulle condizioni di vita nei
campi di concentramento. Con questa
denominazione il governo italiano riuscì
a evitare l’interferenza delle
organizzazioni umanitarie internazionali
facendone una questione di competenza
esclusivamente italiana, quello che più
tardi, dopo l’armistizio, accadrà anche
ai soldati italiani chiamati “Internati
Militari Italiani” da Hitler proprio per
non riconoscere loro le garanzie delle
Convenzioni di Ginevra.
I campi di concentramento fascisti
continuarono a funzionare anche dopo che
Benito Mussolini venne esautorato dal
Gran Consiglio del fascismo e deposto
dal re Vittorio Emanuele III fino all’8
settembre del 1943 quando l’annuncio
dell’armistizio fede pendere sull’Italia
la spada di Damocle rappresentata dalla
reazione tedesca e, nel completo caos,
il contingente di guardia fuggì e gli
internati furono liberi di lasciare quei
posti che fino a quel momento avevano
rappresentato un “orrendo golgota”.
La storia dei campi fascisti divenne uno
dei più emblematici vuoti di memoria del
dopoguerra italiano. Persino i siti che
ospitarono i lager sono stati
dimenticati e per la loro struttura
spesso fatiscente (inesistente nel caso
delle tendopoli) sono stati facilmente
dismessi.
In Grecia a differenza della Jugoslavia
la resistenza tardò a organizzarsi. Le
manifestazioni iniziate nell’estate del
1941 erano dovute alle conseguenze
indirette dell’occupazione come la
situazione alimentare e non erano legate
a motivazioni politiche. Nonostante in
un primo momento le autorità italiane si
adoperarono per migliorare la crisi
greca attraverso l’introduzione di
un’assistenza sociale e di metodologie
moderne in campo agricolo la condizione
della popolazione ellenica continuò ad
aggravarsi e questo fece nascere i primi
movimenti di opposizione politica.
Il 27 settembre del 1941 si formò il
Fronte di liberazione nazionale (Eam) da
cui si formarono le bande partigiane che
a loro volta diedero vita all’Esercito
popolare greco di liberazione (Elas) di
orientamento comunista guidato dal
colonnello Stefanos Sarafis. I
partigiani greci (andartes) uccidevano
chiunque fosse sospettato di collaborare
con gli occupanti o di avere rapporti
con loro, le truppe italiane
utilizzarono le stesse modalità
sopradescritte in risposta ad azioni
partigiane o a semplici sospetti e atti
di sabotaggio dell’occupazione. Anche in
questa circostanza a pagare un prezzo
alto fu la popolazione civile.
A questo proposito possiamo citare uno
degli episodi di repressione più
cruenti, quello che si verificò nel
villaggio di Domenikon in Tessaglia
(Grecia interna) nel febbraio del ’43
quando alcuni partigiani greci
attaccarono un convoglio italiano
provocando la morte di 8 camicie nere.
Per vendicare la morte di questi
militari il comandante della divisione
Pinerolo, Cesare Benelli, diede l’ordine
di bombardare il paese, rastrellarlo e
di scegliere 145 uomini di età mista per
fucilarli (16 greci per ogni italiano
ucciso).
Quello che sorge spontaneo chiedersi
alla luce di questi eventi che
rappresentano solo alcuni esempi
dell’importante repressione attuata
dalle truppe del Regio esercito italiano
stanziate nei Balcani è perché questa
“guerra sporca” di Mussolini (così viene
recentemente definita dalla
storiografia) non è ampiamente
conosciuta da tutta l’opinione pubblica
italiana. A questa domanda possiamo dare
più risposte.
Nei governi che si succedettero dalla
fine della guerra all’instaurazione
della Repubblica (2 giugno del 1946) una
problematica di difficile risoluzione fu
la richiesta da parte della Jugoslavia
dei criminali di guerra (sancita
dall’art. n. 29 dell’armistizio) e la
possibilità di compiere un’epurazione
dei fascisti che ancora mantenevano le
loro cariche. Le due questioni si
incrociarono spesso, basta infatti
ricordare che il Ministero della Guerra
e quello degli Affari Esteri a cui fu
affidato il compito di eludere l’art. 29
erano presenziati proprio da coloro che
avevano fatto carriera durante il
fascismo e che spesso erano stati i
protagonisti stessi dei crimini
denunciati come il sopracitato Taddeo
Orlando che, durante i primi due governi
Badoglio, ricoprì il ruolo di
Sottosegretario di Stato al Ministero
della Guerra.
Nonostante la volontà di prendere le
distanze dal fascismo non fu mai
possibile una vera e propria epurazione
dei fascisti soprattutto perché le
iscrizioni al Partito Nazionale Fascista
furono di fatto obbligatorie per molte
professioni e questo rese praticamente
impossibile tracciare un confine certo
tra adesioni militanti e “tessere del
pane” come venivano chiamate.
La Jugoslavia istituì una Commissione
centrale di Stato per l’accertamento dei
crimini di guerra dell’occupante e dei
suoi collaboratori e accusò le truppe
italiane dei crimini compiuti attraverso
vari mezzi tra i quali la radio e la
stampa ma il governo italiano decise di
avvalersi della possibilità di
processare i criminali di guerra in
Italia.
Alcide De Gasperi il 9 aprile del 1946
annunciò l’istituzione di una
Commissione d’inchiesta prevista per il
6 maggio dello stesso anno con lo scopo
di poter accertare le responsabilità
individuali degli accusati. In realtà la
Commissione cercò di dimostrare i
crimini degli jugoslavi verso gli
italiani e la necessità di alcuni
crimini commessi dalle truppe italiane
giustificandoli in virtù della
situazione di guerra civile presente nel
territorio. I criminali non furono mai
processati e si formulò così quella che
viene ricordata come la “mancata
Norimberga italiana”.
Un’ulteriore accelerazione del processo
di rimozione dei crimini fu data da
“L’amnistia Togliatti” che, approvata
dal governo e promulgata con decreto
presidenziale il 22 giugno del ’46,
portò alla cancellazione di tutti i
reati commessi fino al 18 giugno di
quell’anno. Con questo provvedimento
migliaia di ex membri del partito
fascista e i loro collaboratori furono
liberati dalle carceri o furono
esonerati dai loro processi.
Nonostante la legge prevedesse
l’esclusione dal provvedimento di coloro
che avessero compiuto crimini
particolarmente efferati fu scritta in
modo tale da permettere moltissime
eccezioni. Negli anni successivi
Togliatti si discolpò da queste
concessioni dichiarando che furono i
magistrati ad aver applicato l’amnistia
in modo troppo permissivo e in parte
aveva ragione: numerosi magistrati nella
Suprema corte di cassazione avevano
fatto parte pochi anni prima del
Tribunale per la difesa della razza.
Non va dimenticato l’apporto dato alla
vicenda dai crimini avvenuti per mano
jugoslava nei confronti degli italiani
di confine. Nel 1943 con la prima ondata
di violenze e successivamente nel 1945
con la seconda lo scenario tragico dato
dal fenomeno delle foibe si spostò
nuovamente sul confine orientale, ancora
una volta oggetto della discordia.
La storiografia ha spesso considerato le
foibe come una “vendetta” per i crimini
fascisti, una vera e propria “resa dei
conti” che vide i tribunali istituiti
sul territorio giuliano emettere
centinaia di condanne a morte. I criteri
utilizzati erano vari e a volte anche
confusi: vennero considerati
collaboratori del regime fascista tutti
coloro che avevano avuto un ruolo di
responsabilità non solo nel partito e
nell’esercito ma anche
nell’amministrazione pubblica
comprendendo così anche postini e
insegnanti; spesso vittime degli arresti
furono anche cittadini in vista nei
paesi italiani.
La maggioranza dei condannati fu gettata
nelle foibe, inghiottitoi carsici tipici
del territorio giuliano, o nelle miniere
di bauxite anche se lo strumento
quantitativamente più rilevante della
repressione comunista fu l’istituzione
di campi di concentramento, una storia
che si ripete ancora solo cambiandone i
protagonisti. Infoibare non fu solo un
gesto pragmatico ma anche simbolico in
quanto le vittime venivano paragonate ai
rifiuti che per secoli gli istriani
avevano gettato all’interno di queste
cavità. Se gli avvenimenti del 1943
furono caratterizzati da un clima
alienante e caotico soprattutto nel
territorio istriano, quelli del 1945
seppur simili nelle modalità seguirono
un progetto molto più chiaro.
Nella primavera del 1945 la IV Armata
jugoslava costituita il 1° marzo in
Croazia e guidata dal generale Petar
Drapšin e l’VIII Armata britannica
formata nel 1941 e comandata dal
generale Harold Alexander iniziarono
l’avanzata che viene storicamente
ricordata come la “corsa per Trieste”,
“vinta” dai primi.
Nel corso dei cosiddetti “quaranta
giorni” di amministrazione jugoslava le
nuove autorità e in particolar modo
l’OZNA, la polizia militare jugoslava,
operarono una serie di fermi,
perquisizioni delle case, sequestri di
beni, interrogatori che spesso si
concludevano con degli arresti o in
molti casi con scomparse.
Il clima alienante di questo periodo
viene raccontato in numerose
testimonianze dei sopravvissuti; per chi
visse le sparizioni dei propri cari o di
cittadini comuni non era chiaro cosa
stesse accadendo, lo sarà a guerra
finita dopo il lavoro compiuto dalla
storiografia per rintracciare i percorsi
di quanto accadde nella Venezia Giulia
in quel maggio del ’45 riconducendoli
allo sviluppo di un percorso politico
mirato.
Le autorità che operarono nel ’45 non
rappresentavano più forze partigiane
locali più o meno organizzate ma uno
Stato comunista in via di consolidamento
che voleva di fatto eliminare qualsiasi
tipo di ostacolo o pericolo politico. La
Jugoslavia era divenuta ormai uno Stato
vero e proprio con un suo esercito
riconosciuto come forza belligerante
antifascista che contava circa 500.000
soldati e un governo monopolizzato dal
Partito comunista di Tito insediato già
da tempo a Belgrado. La pulizia etnica
condotta da Tito infatti non era rivolta
solamente ai fascisti o agli italiani
(ad esempio importante fu quella nei
confronti dei domobranci ovvero gli
appartenenti allo Slovensko domobranstvo
costituitosi in Slovenia nel 1943 per
contrastare l’Esercito Popolare di
Liberazione della Jugoslavia).
Anche sui crimini dei partigiani titini
è calato un “silenzio di Stato”
soprattutto dopo che, nel 1951, venne
accolta la validità della “reciprocità”
per i crimini commessi in altri paesi
prevista dal codice penale militare di
guerra italiano. Questa clausola
disponeva che la risoluzione della
questione dei criminali italiani sarebbe
potuta avvenire solamente se anche la
Jugoslavia avesse giudicato i
responsabili degli eccidi delle foibe.
Si chiuse per anni il sipario su tutte
le drammatiche vicende accadute nei
Balcani e sul confine orientale.
Nonostante la vicenda sia altamente
intricata nel 1993 c’è stato
un primo tentativo di creare una memoria
storica condivisa attraverso
l’istituzione di una Commissione mista
storico-culturale italo- slovena.
I quattordici membri di questa
Commissione lavorarono fino al 27 giugno
del 2000 alla stesura di un testo sulle
relazioni tra l’Italia e la Jugoslavia.
Il rapporto finale ebbe tuttavia scarsa
diffusione in Italia. Eppure, quei sette
anni di collaborazione intensa hanno
portato risultati molto positivi
soprattutto per il metodo utilizzato. Il
dialogo e il reciproco accesso
facilitato agli archivi, anche secondo
Raul Pupo, hanno permesso la nascita di
un’abitudine al confronto e alla
collaborazione assolutamente impensabile
fino a pochi anni prima che può̀
costituire la base anche per
l’individuazione di nuove piste
d’indagine.
Oltre all’istituzione della Commissione
per uno studio approfondito delle
vicende un ulteriore passo avanti
compiuto dal governo italiano è
rappresentato dall’istituzione del
Giorno del ricordo in memoria delle
vittime delle foibe, dell’esodo-giuliano
dalmata e delle vicende del confine
orientale. La Legge n. 92 del 30 marzo
2004 che ha istituito il Giorno del
ricordo celebrato il 10 febbraio
(ricordando quindi la firma del trattato
di pace che provocò l’esodo
giuliano-dalmata) può̀ rappresentare la
base per indagare e conoscere non solo
le foibe ma tutta la concatenazione
storica degli eventi che si sono
succeduti almeno dall’inizio degli anni
Venti sul confine orientale.
Non è possibile riscrivere la storia e
la tragedia delle foibe e dell’esodo non
può̀ essere giustificata ma anzi va
condannata, ma bisogna compiere una
corretta informazione storica
raccontando tutto quanto è accaduto
anche quando la storia è scomoda, non
tralasciando deliberatamente le
responsabilità̀ del nostro Paese. Non
esistono stragi giuste e stragi
sbagliate, l’uccisione di civili inermi
o di dissidenti politici non può e non
deve mai essere in alcun modo
giustificata.
Negli ultimi anni in Europa si sta
diffondendo l’idea di basare
l’insegnamento della storia su testi
scolastici redatti da storici di diverse
nazionalità̀, l’esempio più̀ famoso è
il manuale di storia franco-tedesco per
le scuole superiori proposto da
Schröder e Chirac nel 2006. Sarebbe
auspicabile la stesura di un manuale
italo-sloveno in grado di far chiarezza
sulle due storiografie che si sono più̀
volte incrociate.
Conoscere e ricordare la storia della
nostra nazione e gli errori commessi è
fondamentale, Primo Levi in una famosa
intervista degli anni Settanta alla
domanda: «Lei pensa che siano di nuovo
possibili queste atrocità̀?» rispose:
«Oggi come oggi certamente no ma dove un
fascismo, un nuovo verbo come quello che
amano i nuovi fascisti in Italia che
propone una filosofia basata sul ‘non
siamo tutti uguali’, ‘non abbiamo tutti
gli stessi diritti’ o ‘alcuni hanno
diritti e altri no’, dove questo verbo
attecchisce, alla fine c’è il lager.
Questo io lo so con precisione».
Riferimenti bibliografici:
Aga Rossi Elena, Giusti Maria Teresa,
Una guerra a parte. I militari italiani
nei Balcani 1940-1945, Il Mulino,
Bologna 2017.
Cattaruzza Marina, L’Italia e il
confine orientale, Il Mulino, Milano
2020.
Di Sante Costantino, Italiani senza
onore. I crimini in Jugoslavia e i
processi negati (1941-1951), Ombre
Corte, Verona 2004.
Giannini Giorgio, La tragedia del
confine orientale. L’italianizzazione
degli Slavi, le foibe, l’esodo
giuliano-dalmata, LuoghInteriori,
Città di Castello 2019.
Gobetti Eric, E allora le foibe?,
Laterza, Bari-Roma 2021.
Pištan Čarna, Dalla balcanizzazione
alla jugonostalgija: dissoluzione della
Repubblica Socialista Federale di
Jugoslavia in “Istituzioni del
federalismo: rivista di studi giuridici
e politici”, n. 4, Maggioli Editore,
Milano 2014. |